Rossobruni maior e rossobruni minor. Perché, perché sì e perché no
feb 18th, 2014 | Di Piero Pagliani | Categoria: Dibattito PoliticoRiceviamo e pubblichiamo
di Piero Pagliani
1. Per capire che cos’è il cosiddetto “rossobrunismo” attuale occorre innanzitutto mettere a fuoco l’approdo ideologico e politico della sinistra storica in Occidente.
Questo approdo è stato sintetizzato dall’economista statunitense Michael Hudson in una semplice domanda che si trova ad un punto di snodo del suo libro “Super Imperialism -The Origin and Fundamentals of U.S. World Dominance”. La domanda è così formulata: «Quale altro compito hanno oggi i partiti di sinistra se non quello di tradire i propri patti costitutivi?».
E’ una domanda molto pertinente.
Diverse volte ho dovuto sottolineato un fatto che spesso sfugge: i partiti storici della sinistra europea hanno assunto, a volte in modo quasi estatico come in Italia, un’ideologia politico-economica che nata negli anni Cinquanta a Chicago fu per la prima volta sperimentata in corpore vili in Cile su richiesta del dittatore Pinochet e sotto la protezione delle sue armi fasciste. Si tratta del neoliberismo-monetarismo.
Basta questo dato di fatto storico per comprendere che siamo di fronte a una potente forma di commistione tra destra e sinistra che possiamo battezzare “rossobrunismo maior”, Essendo maior, è la forma più pericolosa e invasiva di rossobrunismo.
Poi vediamo pure quelle minori, quelle classiche, quelle che si rifanno al rossobrunismo storico, ma se prima non si capisce che è la forma maggiore che ha creato il contesto in cui allignano le altre non si riesce ad andare avanti.
L’abbraccio bipartisan, conclamato in Italia dal governo Monti e poi da quello Letta, per finire col pericoloso ma buffonesco “Renzisconismo”, non è altro che la fine di un processo di convergenza tra destra e sinistra che dura ininterrottamente dalla caduta della cosiddetta Prima Repubblica.
Alle segreterie del centrodestra e del centrosinistra, a contatto con gli ambienti atlantici e finanziari che indicavano i percorsi e suggerivano le azioni, era chiaro che gli spazi per distinguersi nella sostanza dall’avversario politico erano ormai minimi e sempre più destinati a ridursi. Tuttavia la sovrastruttura ideologica dei due schieramenti (parte non indifferente delle motivazioni elettorali) non ha potuto essere dismessa troppo bruscamente anche perché le dinamiche ideologiche non vanno esattamente di pari passo con quelle politiche dato che sono sottoposte ad attriti maggiori (o, come preferisco dire, perché hanno una viscosità maggiore – se non fosse così non si capirebbe perché le grandi religioni sono vive e vegete). Il reale scontro tra i due schieramenti si è dunque svolto a livello puramente ideologico-propagandistico e nelle espressioni più acute ha assunto toni che non so se definire farseschi o surreali, con le accuse di “fascismo” da una parte e di “comunismo” dall’altra.
E’ bene tenerlo a mente per il nostro discorso, perché in realtà non c’era né fascismo da una parte né tanto meno comunismo dall’altra. Era solo, come avrebbe detto Gramsci, un grande agitarsi sulla scena del teatrino della politica (quello che tutti devono vedere) mentre dietro sghignazzava il faccione (non visto e da non vedere) della realtà.
Anche questo ha creato l’ambiente adatto per le maggiori e minori forme di rossobrunismo, perché era un modo per togliere ogni valenza semantica sensata, per non dire scientifica e storica, a quei due termini. Quella lotta sul nulla, alla quale ha sfortunatamente partecipato anche la sinistra radicale adeguandosi alla retorica antiberlusconiana (ripeto: retorica), ha, come si diceva una volta, disarmato gli operai.
Prima di spiegare cosa intendo con questa affermazione, faccio notare che la valenza nulla di quella lotta è dimostrata quasi come un teorema dalle grandi intese odierne.
Perché “disarmato gli operai”? Perché per chiamare milioni di persone a lottare a vanvera e mobilitarle sul nulla, erano richiesti almeno due requisiti.
Il primo era che dall’idea di “capitalismo” si passasse al sentire comune che viviamo in una forma naturale di economia, che definisce quindi l’ambiente in cui viviamo (che è quindi intrasformabile, in quanto non si trasformano ambienti, ma solo “mondi”, cioè l’ambiente divenuto Storia) imponendo leggi oggettive, formalizzabili nei modelli dell’Economia matematizzata. Anzi, emblematico della confusione tra destra e sinistra era quest’ultima che accusava la prima di alterare o di non uniformarsi a queste leggi (vi ricordate le accuse a Berlusconi di non fare le liberalizzazioni?).
Il secondo è che non esisteva più l’imperialismo ma un insieme di diritti umani di carattere universale, da difendere eventualmente con azioni militari internazionali.
Due dati di fatto, capitalismo e imperialismo, sono dunque stati sostituiti poco a poco con due narrazioni, una per giustificare la politica interna e l’altra quella internazionale.
Perché era così importante espungere i termini “capitalismo” e “imperialismo” dal discorso? Perché occorreva espungere l’idea stessa di “rapporto sociale”, impedire la comprensione del fatto che non siamo in presenza dell’Economia senza altre qualificazione, bensì di un modo di produzione di classe (sissignori: di classe), col “fine ristretto” (Marx) dell’accumulazione infinita, sostenuto da rapporti internazionali politici ed economici diseguali (Lenin). E si badi che questa disuguaglianza non è una condizione congiunturale che valeva solo ai tempi di Lenin, ma è intrinseca ai rapporti di produzione capitalistici. E’ ineliminabile e se i rapporti di forza internazionali cambiano, le condizioni di crisi, sempre implicite nel fine ristretto dell’accumulazione capitalistica, rischiano di precipitare. Anzi, di solito precipitano. E infatti sono precipitate. Lo si è sempre visto e lo si vede anche adesso.
E’ il nascondere questa doppia realtà, capitalismo-imperialismo, che ha creato la confusione da cui sono sorti (o risorti) i rossobrunismi minori. Ma è solo la comprensione di quella doppia realtà che permette di smascherare sia questi sia il rossobrunismo maggiore.
Il rossobrunismo minore, cioè quella modalità a volte rozza e a volte raffinata, a volte intellettuale e a volte squadristica, a volte un po’ più di destra e a volte un po’ più di sinistra di mischiare ingredienti del comunismo con ingredienti del fascismo è la risposta falsa a ciò che abbiamo descritto prima. Non mi interessa discutere della falsità, o meglio della “falsa coscienza”, dei suoi capi ed ideologi. Potrebbe esserci in un caso e non esserci in un altro. Fatti che non mi interessano. Mi interessa invece capire perché la risposta è falsa e perché tuttavia può affascinare intellettuali che pur non essendo rossobruni si sentono in dovere (o in diritto) di dialogare con quelli che lo sono, tra i quali, con un’estensione non del tutto impropria, possiamo metterci Casa Pound.
2. Le narrazioni di carattere ideologico imposte dall’establishment nascondono il fatto che la crisi capitalistica e la conseguente finanziarizzazione sono scatenate dalla natura di classe dei processi di accumulazione. Ma queste narrazioni non possono di certo nascondere il degrado delle condizioni di vita e di lavoro prodotto dalla crisi. Tuttavia precludono un’analisi “scientifica” di detta crisi e dei modi per affrontarla. Al suo posto prevalgono diagnosi esoteriche alle quali non possono che corrispondere pratiche di resistenza confuse e spesso rivolte a falsi obiettivi. Insomma, risposte che sono fatte della stessa materia delle narrazioni, solo con un segno opposto.
L’esempio più lampante è dato dalla spiegazione della finanziarizzazione come un colpo di stato o un complotto attuato da una sorta di Spectre di finanzieri cosmopoliti coadiuvati da alcuni potentati politici internazionali.
Inutilmente Marx insisteva sul fatto che i meccanismi di accumulazione – e le loro contraddizioni – si ergono come oggettivi anche di fronte agli stessi capitalisti. E inutilmente sottolineava la natura di Charaktermaske degli attori sociali, per quanto potenti possano essere. Riconoscere questo non vuol dire disconoscere che questi attori sociali si possano riunire nelle loro conferenze Bilderberg o istituti Aspen o commissioni Trilaterali. Non vuol dire che non si accordino per lanciare un attacco a colpi di spread su Paesi poco sovrani o a colpi di missili su Paesi troppo sovrani. Non significa che le decisioni non vengano ormai prese in luoghi ben al riparo dalla sovranità popolare e dalla democrazia. Significa che anche questi attori sociali non possono agire «in modo arbitrario» e «in circostanze scelte da loro stessi» (Marx). Significa quindi che tra di essi ci sono contrasti e conflitti e che non hanno capacità di manovra illimitate.
Galleggianti invece in una gelatina esoterica, narrazione e contronarrazione non possono che generare mostri (Unwesen, avrebbe detto Marx sulla scorta di Hegel).
E infatti la teoria oggi corrente, anche laddove uno non se l’aspetterebbe, del golpe, del complotto massonico dei finanzieri, o peggio ancora del complotto massonico-sionista è purtroppo molto simile a quella famigerata del complotto demoplutogiudaico.
E’ incredibile che tutta una schiera di intellettuali, analisti e politici pur stimabili, pur sinceri, non se ne accorgano. Non si accorgono cioè che con queste tesi il punto di vista scientifico viene perso e il punto di vista di classe viene dimenticato, perché sono due poli che si costruiscono e definiscono mutuamente.
E’ un po’ come un colpo di sonno (della ragione) che rischia di provocare incidenti. Capisco la stanchezza, capisco l’esasperazione dovuta all’arroganza della finanza e alla ormai totale opacità delle decisioni di un personale politico tanto ridicolo quanto indisponente e deleterio, e capisco pure le condivisibili intenzioni, ma farsi prendere dai colpi di sonno significa aprire un grande spazio alle contronarrazioni mitologiche in cui possono facilmente accomodarsi le false idee rossobrune. E’ quindi un atto di responsabilità politica, oltre che intellettuale, riprendere un punto di vista di classe e scientifico (a costo di far rabbrividire qualcuno e sghignazzare qualcun altro, dirò anche che il punto di congiunzione è la teoria del valore, pur con tutte le sue problematiche). Cosa che non significa ripetere a macchinetta l’altra grande narrazione, cioè quella della classe operaia che “libera tutti”, perché le cose a partire per lo meno dall’instaurarsi del capitalismo dei funzionari del capitale si sono molto complicate. (Difficile avere un punto di vista di classe senza ripetere la narrazione della classe salvifica? Si molto difficile. E’ una porta strettissima ma da lì occorre passare).
Per quanto riguarda l’imperialismo il discorso è del tutto analogo. La narrazione della difesa dei diritti umani è esageratamente falsa per essere creduta a lungo. Per renderla un po’ più verosimile hanno dovuto mettere un Presidente nero di sinistra a capo degli Usa e far gridare a squarciagola tutti gli strilloni di sinistra disponibili nei Paesi satellite, dai partiti ai giornali, dagli intellettuali alle Ong (e anche in questo caso ne abbiamo trovati dove non ce li saremmo aspettati).
In questo caso la contronarrazione gelatinoso-esoterica è fornita da un antiamericanismo nostalgico, decorato da labari e croci uncinate. Ovvero da un nazionalismo identitaristico, (contro)imperialistico, che si distende dalla mitologia del comunitarismo runico degli Hobbit a quella dell’Eurasia come contraltare all’impero anglosassone all’attacco.
Come si vede, i due corni del problema sono impugnati. Ma al contrario.
C’è un infallibile test: i rossobruni possono parlare finché vogliono contro la finanza e contro le guerre imperiali americane, ma mai riusciranno a capire il collegamento tra accumulazione capitalistica e imperialismo, tra finanziarizzazione e guerra, tra accumulazione, imperialismo e crisi.
Non è una questione d’intelligenza ma, sottolineo nuovamente, di classe. Capire quei collegamenti vuol dire riconoscere che il capitalismo è un modo di produzione che si basa su rapporti sociali di classe. E quindi agire di conseguenza.
Ecco perché la “soluzione” rossobruna è falsa.
La sua fascinazione deriva dal fatto che offre scorciatoie legate a facili mitologie, come quelle del sangue e del suolo, che sono facili perché sono prepolitiche e si fondano sulle “apparenze concrete” del qui e ora, sul caos del vissuto empirico di ciascuno di noi. E’ più facile parlare di complotto dei cattivi banchieri appoggiati dalle armi imperiali piuttosto che della caduta del saggio di profitto, dei rapporti tra questa e la divisione internazionale del lavoro e del potere e del rapporto tra rendita finanziaria e plusvalore.
E infatti la falsa soluzione non si combatte solo con la lotta intellettuale-teorica. Occorre sfidarla sul terreno della società e delle lotte sociali in un’ottica di classe.
Mancando questo rimane solo l’aspetto intellettuale, che se da una parte è insufficiente, dall’altra porta al paradosso che vengono emarginati proprio quegli intellettuali che questo vuoto lo hanno sentito e denunciato, spingendoli a cercare interlocutori anche al di fuori delle loro proprie radici politiche e culturali (non è poi questo che riconosce Sergio Cararo nel suo in mortem di Costanzo Preve su “Contropiano”?).
Arriviamo così all’ultimo punto, alla pietra dello scandalo di questi giorni.
3. Dialogare con Casa Pound, oppure con ambienti di destra più intellettuali e meno aggressivi, è diventata una moda. Dirò subito che non considero di per sé rossobruno chi lo fa. Per essere espliciti non avrei considerato Diego Fusaro rossobruno nemmeno se avesse confermato il suo impegno con Casa Pound.
Voglio invece capire perché lo si fa e spiegare perché non bisogna farlo.
Al di là di ambizioni ed esibizioni personali, che sono la cosa meno interessante del discorso, lo si fa probabilmente perché si riconosce che la contronarrazione di quegli ambienti politici tutto sommato, anche se erroneamente, alcuni dati del problema li afferra.
Intanto non so se “errore” sia una categoria applicabile a chi si rende protagonista di aggressioni squadristiche. Detto ciò (che non è poco rilevante) vediamo cosa è in effetti “afferrato”, seppur malamente.
La globalizzazione, i danni causati dall’Euro, la finanziarizzazione e la serie infinita di guerre e di azioni eversive promosse dagli Usa e dalla Nato hanno riportato all’ordine del giorno la “questione nazionale”. E lo hanno fatto quasi di sorpresa, dopo la lunga stagione postsessantottina durante la quale il concetto stesso di stato-nazione era stato messo tra i cimeli in soffitta (cosa che in verità i comunisti non hanno mai fatto, per quanto internazionalisti). Qui ad esempio si può notare una distorta commistione tra un internazionalismo senza più classi o partiti di riferimento e la narrazione dei diritti umani, astrattamente universali e concretamente divisi dalle fratture geopolitiche.
Di fronte a ciò non è molto difficile mettere insieme il concetto di “socialismo” con quello di “nazionalismo”. E’ una storia già vista. Ed è sempre la stessa.
Essendosi già compiuta da un pezzo la tragedia, siamo stati anche in grado di prendere coscienza che fu un errore allora (si parla della precedente crisi sistemica, del fascismo e del nazismo) lasciare sguarniti certi territori di conflitto, scindere il socialismo dal playground più immediato e favorevole delle classi subalterne, cioè lo stato-nazione (Cesaratto). Più immediato e favorevole, per vari motivi tra cui il fatto che la mobilità transnazionale del capitale aumenta la sua forza, mentre quella della forza lavoro si chiama “emigrazione” ed è indice di debolezza.
Per fortuna abbiamo capito quegli errori. Ma averli capiti significa che dobbiamo metterci a dialogare con chi a quegli errori diede una soluzione non solo falsa, ma addirittura criminale e infine tragica? No, no, no. Mille volte no.
Non ha senso. Avrebbe senso se il nazionalismo avesse a che vedere con la questione nazionale, che invece è una questione di classe e non di Blut und Boden. Avrebbe senso se la lotta all’imperialismo fosse puramente una questione geopolitica e di potenza. Ma non è così, perché, come si è detto prima, anche l’imperialismo è legato al carattere di classe dell’accumulazione capitalistica.
Che senso intellettuale avrebbe? Quello di sfruttare le ambiguità per cercare di “catechizzare” gli avversari? Cosa che funzionerebbe solo se il volenteroso dialogante riuscisse a spiegare ciò che essi non vogliono nel modo in cui vogliono.
E che senso politico avrebbe? L’egemonia non si esercita legittimando gruppi di destra ben strutturati (che tra l’altro rappresentano solo se stessi), ma sfidandoli, come si è detto, sul terreno del conflitto sociale. Perché lì casca l’asino.
E solo lì si può fare veramente capire che l’Aufhebung marxiano esclude il ritorno al Medioevo, alle società organicistiche, al preilluminismo o che la decrescita, per parlare di un concetto su cui sto ragionando, non può essere disgiunta dal concetto di “de-accumulazione”. Insomma, che la critica alla modernità capitalistica serve per andare oltre la modernità e non per ritornare a condizioni premoderne; che la critica al concetto di “progresso” serve per rilanciare quello di “emancipazione” e non quello di “conservazione” o “reazione”.
Se si fa politica queste cose dovrebbero essere ben chiare, così da evitare l’errore di cacciarsi in dialoghi che possono essere solo monologhi o cacofonie.
Se si fa teoria pensando alla politica, il discorso non cambia.
Se si fa teoria pensando alla teoria, allora non so cosa dire.