Per un bilancio categoriale marxista della storia del comunismo storico novecentesco (1917-1991)
feb 3rd, 2014 | Di Maurizio Neri | Categoria: Teoria e critica
Costanzo Preve
1. La fine del comunismo storico novecentesco in URSS ed in Europa Orientale nel 1991 non ha dato ancora luogo ad un vero bilancio teorico marxista soddisfacente. Quando parlo di bilancio teorico, ovviamente, non parlo di bilancio storico, perché di bilanci storici ce ne sono già stati moltissimi (e del resto ce ne erano anche prima, alcuni molto buoni e convincenti). So bene che i marxisti confondono sistematicamente le due nozioni distinte di bilancio teorico e di bilancio storico, e le confondono appunto perché sono filosoficamente storicisti, e credono che il bilancio teorico consista nel ripercorrere per l’ennesima volta anno per anno tutto ciò che è successo dal 1917 al 1991 in URSS, dopo il 1945 nei paesi dell’Europa Orientale, dopo il 1949 in Cina, dopo il 1959 a Cuba, eccetera. In questo modo, però, e l’esperienza lo dimostra abbondantemente, non si cava un solo ragno dal buco, perché si riscopre sempre l’acqua calda già precedentemente scoperta, e cioè il fatto che i capitalisti si organizzarono politicamente e militarmente per far fuori il comunismo (e mi stupirei molto se non l’avessero fatto, visto che tutti hanno il diritto alla legittima difesa), e che la cosiddetta costruzione del socialismo non si svolse mai in ambiente pacifico (ma nella storia non ci sono mai ambienti pacifici!), ma si svolse sempre in condizioni di eccezionalità e di emergenza (guerre civili, accerchiamento capitalistico, progetti sterministici di Hitler, guerra fredda dopo il 1945 con costanti minacce atomiche, eccetera).
2. Lo storicismo si manifesta dunque sempre con la ripetizione continua dell’eccezionalismo e dell’emergenzialismo. Questo dà luogo ad una sorta di fastidioso narcisismo storiografico. Alla fine, si scopre sempre solo quello che si sapeva già al principio, e cioè che l’esperienza complessiva del comunismo storico novecentesco dal 1917 al 1991 (ed anche dei paesi che dopo il 1991 si richiamano ancora al comunismo, come Cuba) si è svolta, ed ancora si svolge, in condizioni di accerchiamento, di minaccia militare, di emergenzialismo, eccetera. La sola cosa che brilla per la sua assenza è l’uso di categorie tratte dall’insegnamento di Marx. Questa assenza è talmente scandalosa da dover essere materialisticamente spiegata.
3. Una simile scandalosa assenza ha ovviamente molte ragioni, che si tratta di gerarchizzare correttamente in ordine di importanza (ma non è per niente facile). In primo luogo, si dice sempre che bisognerebbe “dirsi la verità” e non “contarsi delle storie”, ma poi queste due ragionevoli indicazioni non vengono mai seguite. La preferenza dell’ideologia illusoria rispetto alla verità è sempre l’infallibile segnale di una situazione di inferiorità e di sudditanza antropologica e sociologica. A non voler sapere la verità è a mio avviso praticamente l’intero “popolo comunista” (o quel poco che ne rimane oggi), sia alla base che al vertice. D’altronde, nessun vertice esisterebbe se una base non lo legittimasse, ed ogni base ha sempre in ultima istanza il vertice che merita. La base non vuol sapere la verità sulla ragione di fondo del fallimento del comunismo storico novecentesco, perché dovrebbe giungere alla conclusione dell’inequivocabile incapacità intermodale della classe operaia di fabbrica, del proletariato, dei poveri, eccetera, e questo nessuna base potrebbe mai sopportarlo. I vertici non vogliono ovviamente conoscere neppure loro questa verità, perché essi trovano la legittimità del loro potere (e degli scandalosi privilegi in termini salariali, pensionistici e soprattutto di status sociale e di visibilità mediatica) esclusivamente sulla base della cosiddetta “rappresentanza”, ed è inutile dir loro che per Marx il soggetto rivoluzionario non era la classe operaia e proletaria, ma il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze scientifiche della produzione capitalistica, connotata da Marx con il termine inglese di general intellect. Tutto questo non può essere “rappresentato”, e ciò che non può essere rappresentato per un politico di professione letteralmente non esiste, e dunque non è oggetto di analisi.
In secondo luogo (ma questo secondo punto deriva strettamente dal primo), così come i preti non applicano mai a sé stessi il messaggio di Gesù (se no dovrebbero immediatamente detronizzare quei vescovi che si pavoneggiano carichi di gioielli alle dita), nello stesso modo i marxisti non applicano mai a sé stessi il marxismo. Questo principio di esenzione è certamente scandaloso, ma soprattutto grottesco. Tutto questo breve saggio è scritto contro questo grottesco e scandaloso principio di esenzione.
4. Per chiarezza, dividerò la mia esposizione in tre parti. In primo luogo, farò un ritorno storico al 1917 ed alla rivoluzione russa. Niente di nuovo, evidentemente, ma non è mai tempo sprecato ripetere alcune cose ovvie che oggi si tendono a dimenticare con la scusa del cosiddetto “oltrismo”, per cui saremmo oltre in sanguinario Novecento, in direzione di un mondo nuovo di no profit, no global e di moltitudini desideranti. In secondo luogo, esaminerò le quattro principali interpretazioni del comunismo storico novecentesco che conosco (l’interpretazione borghese-capitalistica tradizionale, l’interpretazione autoapologetica staliniana, l’interpretazione trotzkista ed infine l’interpretazione maoista). In terzo luogo, e qui sta il cuore di questo contributo, cercherò di applicare alla storia del comunismo storico novecentesco cinque categorie teoriche del marxismo propriamente detto (modo di produzione, formazione economico-sociale, forze produttive, rapporti sociali di produzione, ed infine ideologia).
5. Fra poco sarà passato un secolo dalla rivoluzione russa del 1917, ma evidentemente essa non è stata ancora “digerita” né dai suoi amici né dai suoi nemici. I suoi amici vogliono ad ogni costo che da essa si possa dedurre linearmente la storia provvidenziale della costruzione prima del socialismo e poi del comunismo, mentre a mio avviso essa si legittima ampiamente da sola, come risposta sacrosanta e pertanto più che giustificata allo scatenamento della prima guerra mondiale imperialistica del 1914. I suoi nemici, ovviamente, continuano ad odiarla ed a considerarla folle, utopistica, violenta ed illegittima quasi un secolo dopo. Trovo assolutamente normale che essa non gli sia mai andata giù, perché in effetti il 1917 dimostrò che una rivoluzione sociale radicale è possibile, e non resta confinata nella testa di alcuni intellettuali utopisti. Se è avvenuta una volta, potrebbe avvenire anche una seconda, e per esorcizzare questa possibilità è necessario mettere in azione una gamma di comportamenti, che vanno da un polo che definirò “pensiero forte” ad un polo che definirò “pensiero debole”. I due pensieri, ovviamente, sono del tutto convergenti, e formano quella simpatica coincidenza degli opposti che tutti i sostenitori del pensiero dialettico cercano sempre di dimostrare logicamente senza riuscirci mai. In loro onore, ne daremo nel prossimo paragrafo una concisa segnalazione.
6. Il primo polo dell’esorcizzazione di ogni possibilità di rivoluzione comunista è appunto il “pensiero forte”. Con questo termine indico il ricorso a tutti i mezzi per poter impedire questa calamità, con la sospensione conclamata di ogni riserva etica e religiosa e con una sorta di emergenzialismo proclamato. In altre parole, il diritto al macello. Io conosco nella storia del Novecento tre grandi macelli proclamati di comunisti che hanno apertamente sospeso ogni morale ed ogni religione, quello avvenuto in Spagna fra il 1936 ed il 1941, quello avvenuto in Indonesia fra il 1965 ed il 1967, ed infine quello avvenuto in Argentina fra il 1976 ed il 1979. In Spagna si continuano a trovare le fosse comuni di Franco, ed in Argentina si viene a sapere che Kissinger ne era perfettamente a conoscenza, e si raccomandava soltanto di fare tutto presto e bene. La chiesa cattolica ne era perfettamente a conoscenza in tutti e tre i casi, anche se nel caso dell’Indonesia la manovalanza musulmana fu maggioritaria nel macello (ma non mancò neppure quella cristiana a Bali e nelle Molucche). Il papa ha chiesto scusa a tutti, ebrei e popoli indigeni, ma ai comunisti no. Evidentemente se la erano voluta. Quando gli africani cominciarono cautamente anche loro a fare un po’ di comunismo (Angola e Mozambico 1975, Etiopia 1976, eccetera), gli scatenarono contro armatissime bande tribali che distrussero quel poco che c’era di economia nazionale. Cuba non fu mai perdonata, e le fu imposto un embargo feroce. Per impedire il comunismo in Afghanistan non bastò la mobilitazione dell’americano Rambo, ma ci volle anche quella del saudita Bin Laden, che fu demonizzato solo quando cominciò a colpire i suoi precedenti alleati, mentre quando colpiva i cattivi comunisti era giustificato in tutto quanto faceva. Il “pensiero forte” giustificò sempre tutto, sulla base della lunga tradizione per cui i macelli fatti per una causa giusta diventano giusti essi stessi.
Il secondo polo dell’esorcizzazione di ogni possibilità di rivoluzione comunista è invece il “pensiero debole”. Essi sono assolutamente complementari, come il whisky e la soda, la bistecca e le patatine, le feci e la carta igienica. Il comunismo non deve essere intrapreso, perché si tratta di un pensiero che vuole organizzare il mondo in base ad un’inesistente pretesa di verità, laddove la verità non esiste, e se esiste è soltanto niccianamente una funzione energetica della volontà di potenza. A questo punto, ci si potrebbe niccianamente chiedere perché deve sempre prevalere la funzione energetica della volontà di potenza dei ricchi e dei capitalisti. Ma su questo torneremo fra poco.
7. Agli inizi degli anni Novanta il tedesco Ernst Nolte ed il suo seguace italiano Francesco Coppellotti diffusero con grande clamore mediatico la tesi per cui la violenza concentrazionaria e sterministica di Hitler non era stata una violenza primaria ed originaria, ma era stata una violenza secondaria di risposta, perché aveva cominciato il comunista Lenin sterminando i borghesi come classe e concentrando i suoi nemici in campi appositi. Lasciamo stare qui il non irrilevante particolare per cui nessuno sterminò quanto i colonialisti europei ed americani nell’Ottocento e per cui i campi di concentramento furono una brillante invenzione degli inglesi in Sudafrica nella loro guerra contro i boeri. La tesi implicita di Nolte è che esistono due tipi di sterminio, il primo legale e corrispondente al diritto internazionale (o jus publicum europeum), cioè il diritto di mandare milioni di uomini al macello nel 1914 per ragioni apertamente e dichiaratamente imperialistiche, ed il secondo improprio ed illegale, che è quello di fare una sacrosanta rivoluzione di risposta nel 1917. Oggi siamo tornati a questo tipo di scenario noltiano-coppellottiano, per cui Bush ha il diritto di imporre il suo ordine imperiale mondiale, ma gli altri non hanno il diritto di opporsi senza essere chiamati “terroristi”. Ma una simile tesi è talmente scandalosamente asimmetrica da sembrare vacillante persino a coloro che hanno sostituito da tempo Tacito con Indro Montanelli, ed oggi tende ad essere messa sotto silenzio, anche perché (contro le esplicite intenzioni di Nolte) sembra “innocentizzare” eccessivamente Hitler, proprio quando la grancassa mediatica ormai hitlerizza tutti i nemici dell’impero (Hitler-Saddam, Hitler-Milosevic, eccetera).
8. La rivoluzione russa del 1917 fu dunque un atto assolutamente legittimo, comprensibile ed anche ammirabile. Tacito e Tucidide non ci avrebbero trovato nulla di male, e si sarebbero anzi stupiti che soltanto i russi siano riusciti a presentare il conto del grande macello 1914-1918 alle orribili borghesie imperialiste che lo avevano integralmente voluto e reso possibile. Ma per loro fortuna Tacito e Tucidide non erano ancora “marxisti”, ed a nessuno di loro sarebbe venuto in mente la stranezza per cui una rivoluzione sociale è solo possibile ad un certo grado di sviluppo delle forze produttive. Se un antico Karolos Kautskius, antenato germanico di Kautsky, avesse fatto questa obiezione in greco a Tucidide ed in latino a Tacito, avrebbe probabilmente avuto in risposta una liberatoria risata ellenico-quiritica. Naturalmente, Gramsci ebbe ragione al 100% quando parlò di rivoluzione contro il Capitale (cioè contro il Capitale di Marx trasformato da Kautsky in testo positivistico-evoluzionistico), ma questa rimase poco più di una intelligente battuta, perché in realtà i marxisti misero subito a tacere il loro cuore ortodosso dicendo che ormai le rivoluzioni si facevano (o almeno si cominciavano) non più nei punti alti dello sviluppo industriale capitalistico mondiale, ma negli anelli deboli della catena mondiale imperialistica. Nei termini (a mio avviso correttissimi) della teoria di Kuhn delle rivoluzioni scientifiche come cambio di paradigma, si trattava non di una rivoluzione scientifica, ma di un esempio classico di “aggiunta ad hoc” per salvare il vecchio paradigma. Ma questo non fa che incrementare la falsa coscienza ideologica, nemica dell’innovazione scientifica. Il movimento comunista novecentesco avrebbe pagato caramente questa timidezza e questo conservatorismo teorici.
9. Passiamo ora al secondo punto promesso in un precedente paragrafo. So bene che le interpretazioni del comunismo storico novecentesco (1917-1991) sono parecchie decine, per riferirci soltanto alle più intelligenti e degne di analisi. Ma per ragioni di chiarezza e di brevità mi limiterò ad esaminarne soltanto quattro, già accennate in precedenza.
10. La prima interpretazione del comunismo storico novecentesco è quella che definirei (un po’ impropriamente) borghese-capitalistica, quella cioè che nega al comunismo qualunque legittimità, storica, politica, economica o filosofica che sia. essa ovviamente presenta molte varianti, fascista, liberale, laica, religiosa, eccetera. Queste varianti sono diverse, ed è bene segnalarne la diversità, ma esse hanno in comune due elementi importanti, il fatto cioè di connotare il comunismo in termini di utopia e di totalitarismo, cioè di utopia totalitaria. Karl Popper ed Anna Arendt sono coloro che a mio avviso hanno espresso questo concetto in modo filosoficamente più completo, ma non sono stati certo i soli. A fianco delle quattro varianti sopra indicate (fascista, liberale, laica e religiosa) c’è però una quinta variante, quella a mio avviso incondizionatamente più interessante e più rivelatrice, quella degli ex-comunisti delusi. Ora, tutte le religioni hanno fisiologicamente degli eretici, degli apostati e degli atei, e sarebbe strano che il comunismo non ne avesse, anche per la particolare brutalità e ferocia (erroneamente considerata materialistica, plebea e proletaria) tipica degli scontri fra cordate politiche di comunisti. Ma il comunismo ha storicamente una particolarità, e cioè il fatto che mentre gli altri sistemi sociali cominciano a puzzare generalmente dai piedi (fuor di metafora, dalle situazioni sfavorite in fondo alla scala sociale), il comunismo invece comincia sempre a puzzare dalla testa, cioè dal nichilismo disperato dei suoi dirigenti. Sfido qualunque storico a trovare l’equivalente di questa affermazione virgolettata di Michail Gorbaciov (cfr. La Stampa, 26-8-02: “Io non invito a tornare al comunismo, perché ritengo quell’utopia ormai esaurita”, detto in occasione della conferenza mondiale di Johannesburg). Se pensiamo che Gorbaciov è stato il comunista ufficialmente più potente e più importante del mondo dal 1985 al 1991, è come se un papa cattolico dicesse: “Cari fedeli, è vero che se ci fosse Dio tutto sarebbe più sensato, perché i buoni verrebbero premiati ed i cattivi puniti, ma purtroppo le ultime scoperte dell’astrofisica e della genetica ci costringono a rinunciare a questa superstizione prescientifica”. Ebbene, sarebbe esattamente lo stesso, ma appunto non avverrebbe mai, perché storicamente soltanto il comunismo ha saputo produrre ultimi uomini tanto cristallini e nichilisti tanto compiuti.
Ne indagheremo più avanti le ragioni. Per ora basta notare che l’incredibile Gorby ha semplicemente riproposto l’equazione comunismo = utopia, che conviene brevemente esaminare.
11. A suo tempo, Engels scrisse un testo decisivo sul passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza. Oggi possiamo dire che si è trattato di una illusione positivistica in buona fede, anche se il termine “scienza” era declinato da Engels in due modi, quello della previsione scientifica (in senso deterministico e non probabilistico), e quello della direzione scientifica di un processo politico (nel senso della negazione di un automatismo spontaneistico e movimentistico), ma per la concezione borghese-capitalistica media il comunismo è utopico solo nel senso che è impossibile, in quanto la natura umana è fatta in modo da scoraggiare inesorabilmente qualunque progetto egualitario e solidaristico. Questo argomento pessimistico è stato poi rafforzato dalla teoria della cosiddetta “complessità”, per cui anche ammettendo che il comunismo possa adattarsi ad una natura umana data, è comunque inapplicabile in una società complessa con decine di migliaia di figure professionali e di differenziali di conoscenza e di competenza. La teoria della “semplicità”, per cui nel socialismo anche le cuoche potrebbero dirigere lo stato, dal momento che vi sarebbe piena trasparenza fra produzione e consumo, è del tutto inattendibile (al di là del prestigio di chi l’ha avanzata, cioè Lenin), perché si basa su di una concezione naturalistica dei bisogni umani dati, che effettivamente qualunque madre di famiglia previdente gestisce a livello di programmazione del bilancio familiare. In ogni caso, anziché prendere sul serio la questione della natura umana, lavorare veramente sull’ipotesi della sua compatibilità con il comunismo, i marxisti hanno preso la via folle che dice che la natura umana non esiste, aderendo così inconsapevolmente (?) ad una concezione nichilistica e manipolatoria della natura umana stessa.
12. Apro una parentesi personale per dire in breve che cosa penso della questione del rapporto fra comunismo ed utopia. Io sono un avversario cosciente della cosiddetta “utopia”. E questo non certo per amore machiavellico del cosiddetto realismo politico, che considero l’ultimo rifugio delle canaglie in politologia. Per me la sola utopia per cui simpatizzo è quella di cui parla Rabelais a proposito di quella abbazia la cui regola è; “Fa ciò che vuoi”. A lungo ho studiato con amore e cura il filosofo utopista tedesco Ernst Bloch, che fondava il comunismo proprio sull’utopia. Tuttora penso che in Bloch ci siano molte buone cose. Ma oggi mi convince molto di più l’approccio del francese Moreau, per cui l’utopia si è sviluppata dal Cinquecento in poi soprattutto come proiezione ideologica largamente inconsapevole dello stato assoluto, e della sua mania di regolamentazione ossessiva di ogni aspetto della vita quotidiana, dal modo di mangiare al modo di accoppiarsi. Il modello utopico è sempre quello di un convento liberalizzato, anche se come dice Lucio Dalla anche i preti potranno sposarsi, sia pure solo ad una certa età. Basta in proposito leggere non solo Moro e Campanella, ma anche gli utopisti “comunisti” francesi del Settecento. Non è un caso che l’utopia sia sempre piaciuta ai liberali di ogni tipo, da Firpo a Berlusconi. Inoltre, anche se questo può sembrare a prima vista paradossale, la progettazione utopica è inscindibilmente legata ad una mentalità di tipo ossessivamente “scientifico”, e non ne è affatto un’alternativa. L’ossessione per una regolamentazione utopica perfetta di ogni aspetto quotidiano dell’agire sociale, infatti, non può essere messa in opera senza una correlata applicazione della scienza (dall’ergonomia all’eugenetica). Insomma, prima i comunisti lasceranno perdere l’illusione utopica, meglio sarà per tutti.
13. Due parole su Karl Popper e sulla sua bibbia filosofica che denuncia in successione Platone, Hegel e Marx come maestri del totalitarismo e nemici della società aperta. Un vero insieme di sciocchezze. Platone aveva interessi prevalentemente pedagogici e solo in seconda istanza politici (come sostiene correttamente Giovanni Reale), e la sua concezione di tipo aristocratico-pedagogico, pur essendo ostile alla democrazia ateniese, non poteva avere nessun carattere totalitario (termine incompatibile con la società greca antica), ed inoltre non poteva proclamare la fine della storia della società aperta, visto che gli antichi non avevano una nozione di storia come progresso, evoluzione e concetto trascendentale riflessivo. Hegel non poteva avere una concezione totalitaria dello stato, dal momento che affermava la piena autonomia della famiglia e della società civile, mentre è evidente che qualsiasi stato totalitario deve prima di tutto distruggere l’autonomia della famiglia e della società civile. In quanto a Marx, è evidente che Popper lo confonde con Stalin, mentre Marx parla del comunismo come società della libera individualità (e non dell’individualità eguale livellata). Ma Popper, purtroppo, è la regola e non l’eccezione. Gente che si vergognerebbe di dire inesattezze su Duns Scoto e su Bernardino Telesio poi su Marx ha il libero diritto di caccia per sparare tutte le approssimazioni che le vengono in testa.
14. Due parole su Hanna Arendt ed i suoi discorsi sul totalitarismo comunista. Incidentalmente, la teoria politica della Arendt, nella misura in cui si ispira agli antichi greci ed alla comunità politica classica, è del tutto incompatibile con il normale funzionamento del capitalismo finanziario, che è segreto ed oligarchico per sua natura, ed è pertanto curioso che la Arendt sia catalogata come ispiratrice del capitalismo liberale. Ma ciò che vorrei qui sottolineare è il suo dilettantismo a proposito della teoria del totalitarismo comunista. Ed il dilettantismo sta proprio nella mancanza di conoscenza empirica di quello di cui parla.
Un breve riferimento personale. Negli anni Sessanta, Sessanta ed Ottanta ho girato in lungo ed in largo i paesi comunisti dell’Est europeo, trascorrendovi anche periodi di studio. C’erano molti modi di andarci. C’era chi ci andava in modo picaresco riempiendo la propria utilitaria di calze e di borsette per facilitare le proprie imprese di seduttore piccolo-borghese in un paradiso di proletarie. C’era il modo dei polli in batteria della burocrazia comunista alla Achille Occhetto ed alla Massimo D’Alema, che andava in visita dei propri omologhi per vedere come comandavano, traendone sistematicamente l’ovvia conclusione che le élites capitalistiche avevano più stile. Eccetera, eccetera, eccetera. Ebbene, ho conosciuto centinaia di persone di tutti i gruppi sociali, e posso assicurare che forse le burocrazie comuniste sognavano di imporre un vero totalitarismo, ma di fatto si trattava delle società meno “totalizzate” esistenti (e lo si è visto con la facilità con cui sono crollate nel 1989). Appena verificato che non ero uno spione inaffidabile, la gente si apriva, e manifestava sistematicamente una coscienza maggioritaria assolutamente non totalitaria. Da un lato, si definiva “socialista”, nel senso che considerava ovvia la piena occupazione, la sanità, lo sport e l’educazione gratuiti, pur lamentandosi della carenza dei beni di consumo (che era in effetti ad un tempo pittoresca e scandalosa). Dall’altro, dava per scontato che i “comunisti” fossero solo una cricca di opportunisti che supplivano alla loro incapacità professionale con la mafia politica di partito. Non voglio ora dissertare a lungo se avessero ragione o torto, se fosse meglio prima o adesso (in breve: avevano ragione, e si stava meglio prima di adesso). Ciò che conta è che ogni teoria del totalitarismo e del Grande Fratello è del tutto inadeguata. Se le burocrazie volevano un Grande Fratello, al massimo ne era venuto fuori un Grande Coglione.
15. Due parole ancora sul corrente paragone fra fascismo e comunismo come due facce gemelle del totalitarismo novecentesco. Ho letto recentemente un saggio di Alain de Benoist che ne ribadisce i termini. Conosco de Benoist e lo stimo molto come intellettuale originale e come avversario del politicamente corretto. Ma su questo punto, ed è curioso, sbaglia e finisce proprio con il concordare con il Massimo Luogo Comune (MLC) del pensiero unico liberale, lo stesso che poi afferma di combattere nel rimanente 95% della sua polemica intellettuale. Contro questo Massimo Luogo Comune (MLC) in genere le anime pie di sinistra sostengono che il paragone è offensivo ed improponibile, perché il comunismo faceva cattiverie spinto da un’intenzione buona ed universalistica (l’eguaglianza, eccetera), mentre i fascisti facevano cattiverie spinti da un’intenzione particolaristica (il nazionalismo, il razzismo, il colonialismo, eccetera). A mio avviso, si tratta di sciocchezze da intellettuali. Per coloro cui sparano una pallottola nella nuca o cui fanno trascinare tronchi d’albero in pieno inverno è del tutto irrilevante che la loro punizione venga giustificata in modo universalistico o particolaristico.
Il paragone è improponibile lo stesso, ma per un’altra ragione. Se infatti vogliamo ad ogni costo fare il conto delle malefatte storiche, allora i compari non sono due, ma tre: il fascismo, il comunismo ed il normale capitalismo liberale. L’uno ha fatto Auschwitz, l’altro le fosse di Katyn, ma il terzo ha fatto Dresda, Hiroshima e Nagasaki, più il macello della prima guerra mondiale ed i macelli colonialistici protratti. Trovo normale che Barbara Spinelli non capisca questo. Ma che non lo capisca de Benoist è invece curioso, e dimostra fino a che punto il vecchio contenzioso ideologico pregresso possa offuscare la chiarezza interpretativa.
16. In definitiva, per chiudere su questo punto, il pensiero borghese-capitalistico ha problemi giganteschi e non risolti di comprensione del fenomeno comunista. Dal momento che lo considera globalmente illegittimo, deve andare a ficcarsi in labirinti ideologici sulla natura umana, sul demoniaco, sull’utopia totalitaria, sulla divinizzazione e sull’eternizzazione del mercato, eccetera. Oggi, però, viviamo la faticosa e tragicomica transizione da un capitalismo proto-borghese ad un capitalismo integralmente post-borghese e post-proletario. Questo non potrà che avere ripercussioni anche sulla nuova delegittimazione ideologica del comunismo. È difficile prevederne gli scenari futuri. Per ora è possibile dire che la polemica ideologica contro il comunismo è passata dai vecchi intellettuali liberali ai nuovi rinnegati di origine sessantottina, che hanno metabolizzato il loro precedente “comunismo” anarcoide e pertanto possono legittimare meglio i bombardamenti umanitari, le apologie della società civile sempre più mercantilizzata e disegualitaria, eccetera. Ma siamo chiaramente in un periodo di transizione, e non è possibile dire ancora niente di sicuro.
17. la seconda interpretazione del comunismo storico novecentesco è la sua stessa auto-interpretazione, più esattamente la sua autointerpretazione ideologica giustificativa. Il suo maggiore teorico resta sempre Stalin. Per chiarezza, dirò la mia opinione sulla questione di Stalin. Se lo valutiamo dal punto di vista del marxismo e del comunismo, Stalin è stato una disgrazia, perché ha messo la locomotiva su binari tali da portare all’inevitabile deragliamento. Non si può fondare strutturalmente la transizione al comunismo sul dispotismo politico e sull’uniformità ideologica poliziescamente garantita, e poi pensare che questa transizione sia bene avviata. Se invece valutiamo Stalin dal punto di vista della storia universale (come Alessandro Magno, Pietro il Grande e Napoleone), allora si è trattato sicuramente del “comunista” più eminente del Novecento. Il lettore scelga la versione che preferisce. La sola cosa che non può fare è sceglierle tutte e due. Per chiarezza, desidero dire subito su Stalin almeno tre cose.
18. In primo luogo, non penso che abbia senso giudicare Stalin con il metro della sua maggiore o minore ortodossia verso i classici del marxismo. È vero che Marx parlava della rivoluzione in termini dell’attività di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, nei punti alti dello sviluppo delle forze produttive e del general intellect. Ma questo la storia lo ha smentito, perché non si è verificato. È vero che Lenin parlava solo di rottura dell’anello debole della catena mondiale imperialistica, e non invece di costruzione del socialismo in un solo paese. Ma questo la storia lo ha smentito, perché non si è verificato. Dunque Stalin ha dovuto solo fare di necessità virtù, e non ha senso agitargli in faccia il Capitale di Marx e Stato e Rivoluzione di Lenin. Dopo il 1924 Stalin comprese che doveva fare da solo, e si mise in questa ottica. Scrisse nel 1924 e nel 1926 due trattati di “leninismo“, che erano in realtà stalinismo puro. Ma che altro avrebbe mai potuto fare?
19. In secondo luogo, sono contrario a tutti i discorsi sullo Stalin estraneo all’umanesimo europeo ed incarnazione della crudeltà mongolica. Ho persino letto di uno Stalin figlio della tradizionale crudeltà caucasica. Insomma, uno Stalin extra-comunitario. Io conosco un po’ la Georgia e la cultura georgiana. Assomiglia un po’ alla cultura ortodossa greca ed armena, con la differenza che greci ed armeni hanno avuto anche una borghesia commerciale cosmopolita e poliglotta, mentre i georgiani sono sempre un po’ rimasti montanari e feudali. Ma spiegare la “crudeltà” di Stalin in questo modo è dilettantismo puro. La cosiddetta “crudeltà” di Stalin, marxisticamente interpretata, è solo il risvolto soggettivo della costruzione per via politica di una nuova ed inedita classe sfruttatrice di origine in buona parte proletaria ed operaia, che doveva fare fuori milioni di borghesi e di piccolo-borghesi per mettersi al loro posto e diventare la classe gestionale di stato della nomenklatura. Stalin ha strutturalmente promosso questo processo, e nello stesso tempo ha cercato di impedirlo con epurazioni continue, finché non lo hanno lasciato schiattare chiuso nella sua camera nel 1953 e non ne hanno detronizzato anche la mummia nel 1956. Questa è la sola lettura “materialistica” possibile della cosiddetta cattiveria di Stalin.
20. In terzo luogo, e per finire, da un punto di vista teorico tutta la questione del “marxismo” di Stalin può essere risolta in due punti. Primo, la sua errata idea della cosiddetta “putrefazione” delle forze produttive del capitalismo, estrapolata dal momento congiunturale della crisi del 1929, laddove è ormai manifesto che il capitalismo è il sistema economico migliore per sviluppare le forze produttive, perché spinto continuamente dalla concorrenza intercapitalistica (il capitale esiste soltanto nella forma dei molti capitali in concorrenza). Secondo, la sua illusione sul fatto che il monopolio assoluto (ed attenzione, dispotico, non totalitario, facciamo attenzione agli aggettivi che usiamo) del partito in campo economico, politico ed ideologico potesse essere compatibile con lo sviluppo di una società senza classi, laddove invece era il presupposto della formazione di una nuova classe sfruttatrice. E se qualcuno non crede a Costanzo Preve, ritenuto pensatore secondario, creda almeno a Mao Tse Tung, la cui esperienza storica fu indubbiamente maggiore della mia, e che giunse alla stessa conclusione.
21. Su queste basi, l’autorappresentazione di Stalin del comunismo storico novecentesco non poteva che essere ideologica, cioè illusoria. Il socialismo è lo sviluppo pianificato delle forze produttive, attraverso la proprietà pubblica (statale e cooperativa) dei mezzi di produzione. La diseguaglianza delle retribuzioni è dovuta alla permanenza della legge del valore-lavoro, tipica del socialismo. Nel comunismo si avrà l’abbondanza, e quindi l’estinzione della stessa legge del valore. La burocratizzazione è un fenomeno residuale, dovuto al basso livello delle forze produttive ed alla scarsa educazione socialista. L’accerchiamento capitalistico costringe a rinunciare provvisoriamente all’estinzione leniniana dello stato, che deve anzi essere rafforzato contro i nemici esterni ed interni. Ogni nemico interno (ed è nemico chiunque Stalin nomini come tale) è un “nemico del popolo”. Ai nemici del popolo si nega qualsiasi protezione giuridica.
Sappiamo come è andata a finire. Qui la cosiddetta falsificazione popperiana ha un corretto ambito di applicazione.
22. La terza interpretazione del comunismo storico novecentesco che voglio esaminare è quella trotzkista. Tuttavia, è bene dividerla per chiarezza in due parti successive, la prima dedicata a Leone Trotzky, ucciso nel 1940 da un sicario di Stalin, e la seconda dedicata al trotzkismo successivo dopo il 1940.
23. Trotzky è stato un grande protagonista storico della rivoluzione del 1917, e la sua opinione sui suoi esiti è indiscutibilmente di grande rilevanza. Politicamente sconfitto a partire dal 1924, Trotzky era a mio avviso del tutto prigioniero dell’incantesimo dell’analogia con la rivoluzione francese del 1789, e di conseguenza interpretava gli avvenimenti cui era contemporaneo con lo schema di quelle categorie storiche (giacobinismo, girondinismo, termidoriani, bonapartismo, eccetera). Questo incantesimo dell’analogia, del tutto improprio e fuorviante, faceva da impedimento alla comprensione della novità degli eventi. Così i bolscevichi diventavano i giacobini, la burocrazia staliniana i termidoriani, Stalin il nuovo Bonaparte, eccetera. Trotzky era completamente digiuno e del tutto disinteressato alla filosofia, e non aveva quindi nessuna obiezione contro il materialismo dialettico, mentre invece sulle questioni artistiche aveva interessanti aperture verso le avanguardie ed il surrealismo. Egli comprendeva bene che il basso livello delle forze produttive in Russia portava con sé un processo di burocratizzazione materialmente fondato sulla ripartizione disegualitaria privilegiata della penuria (egli diceva che quando c’è una coda il poliziotto che la sorveglia si serve per primo, ed in effetti è proprio così), ma questa comprensione lasciava il tempo che trovava. Proclamare che era impossibile costruire il socialismo in un solo paese, e che la burocrazia termidoriana aveva tradito la rivoluzione restava comunque un’affermazione del tutto astratta, dal momento che era comunque impossibile esportare la rivoluzione nei paesi ricchi. Trotzky era così obbligato ad affermare che le rivoluzioni non scoppiavano e non vincevano perché i cattivi burocrati staliniani le tradivano e non le volevano, laddove si vedeva ad occhio nudo che questo non avveniva perché la stragrande maggioranza della classe operaia era socialdemocratica e la piccola borghesia non voleva nessuna dittatura del proletariato, stalinista o trotzkista che fosse. A questo punto la “burocrazia” diventò sempre più una categoria demonologica tuttofare, buona per spiegare tutto ed il contrario di tutto. Ma come in chimica per il flogisto ed in fisica per l’etere, la burocrazia era un vero “concetto fantasma”, che stava al posto di un altro concetto rimosso, quello della non-rivoluzionarietà strutturale della classe operaia di fabbrica.
Veniva così edificata una metafisica consolatoria profondamente conservatrice. Eppure Trotzky continuò a difendere il carattere “socialista” dell’URSS, sulla base della proprietà statale e cooperativa dei mezzi di produzione e dell’economia pianificata. Era però necessaria una seconda rivoluzione politica, che espropriasse la burocrazia e riconsegnasse il potere ai produttori associati.
24. Trotzky fu ucciso nel 1940. Dopo la sua morte il movimento trotzkista non riuscì mai ad unire strategia e tattica, con l’inevitabile conseguenza della sua frantumazione in decine di sette trotzkiste rivali, che si richiamavano tutte astrattamente alla stessa strategia (assolutamente inapplicabile), e si dividevano invece ogni qualvolta una scelta congiunturale tattica lo imponeva. I principali teorici del movimento trotzkista, fra cui il primato spetta al belga Ernest Mandel, negarono sempre alla burocrazia comunista il carattere di classe sociale vera e propria, e la connotarono invece come ceto parassitario dotato di interessi particolari. Respinti dalla classe operaia, che in Occidente si divise sempre fra una maggioranza socialdemocratica ed una minoranza staliniana, finirono invece con l’avere maggiore influenza presso intellettuali e studenti, ed aderirono così a partire dagli anni Ottanta ai movimenti ecologisti e femministi. La “lunga marcia” del trotzkismo lo condusse dopo il 1991, e dopo una clamorosa e sostanziale incomprensione del fenomeno Gorbaciov e delle cause strutturali del crollo del comunismo storico novecentesco (ed in questa incomprensione io vedo personalmente il vero fallimento teorico del trotzkismo), a dividersi ancora una volta fra un’ala moderata, fautrice della cosiddetta “sinistra plurale” e del movimento anti-globalizzazione, ed un’ala più radicale, alla ricerca della solita Araba Fenice, il vero partito operaio rivoluzionario trotzkista mondiale, ricostruttore della salvifica Quarta Internazionale.
25. La quarta ed ultima interpretazione del comunismo storico novecentesco è quella di Mao Tse Tung e del maoismo. Come nel caso precedente, la cosa migliore è dividerla in due parti successive, la prima dedicata al maoismo in Cina, sua terra d’origine, e la seconda dedicata al movimento marxista-leninista europeo ed internazionale.
26. Ciò che molti chiamano “il pensiero di Mao Tse Tung” per indicare il suo contributo originale al marxismo inizia a mio avviso nel 1956, l’anno della destalinizzazione di Krusciov in URSS. Alcuni retrodatano questo contributo originale agli anni Trenta, dicendo che la novità di Mao sta nel basare la rivoluzione socialista sui contadini, e solo in seconda istanza sulla classe operaia urbana. Ma questo mi sembra solo puro buon senso, dal momento che la Cina partiva da un modo di produzione asiatico e non da un modo di produzione capitalistico. Di per sé, il puro buon senso non è ancora un contributo innovativo universalizzabile. Nel 1958 Mao scrisse alcune interessanti note su Stalin e sull’URSS, ma nello stesso anno il cosiddetto “grande balzo in avanti”, esempio di dispotismo asiatico soggettivistico degno del primo imperatore Chin (221-210 avanti Cristo), testimoniò la sua sostanziale adesione al metodo dispotico staliniano. I comunisti cinesi scrissero poi due famosi testi contro Togliatti, che erano in realtà rivolti contro i sovietici. Nel 1960 ci fu la rottura con l’URSS. La cosiddetta rivoluzione culturale avvenne fra il 1966 ed il 1969. Poi i maoisti furono fatti fuori uno ad uno (Chen Po Ta nel 1970, Lin Piao nel 1971, la banda dei quattro nel 1976). In Cina il maoismo politico propriamente detto non esiste più dal 1976, se non come corrente sotterranea e semiclandestina.
Il nucleo teorico del maoismo cinese consiste nella tesi per cui dopo la rivoluzione socialista la “borghesia” non solo si riforma continuamente a partire dai rapporti mercantili, ma essa trova il suo luogo di unificazione politica proprio nel partito comunista divenuto “revisionista”. La burocrazia comunista “revisionista” non è allora un semplice ceto parassitario, come sostenevano i trotzkisti, ma una vera e propria classe sfruttatrice. Alla luce di questa teoria (che personalmente ritengo sostanzialmente giusta) si spiegano molte cose, come l’evoluzione capitalistica della Cina dopo il 1976, il fenomeno Gorbaciov-Eltsin tra il 1985 ed il 1991, il riciclaggio del vecchio PCI italiano in bombardatore del Kosovo ed in personale dell’unificazione capitalistica europea, eccetera.
Altra cosa, ovviamente, è invece l’approvazione al modo specifico in cui il maoismo cinese credette di poter impedire questa evoluzione revisionista, cioè la rivoluzione culturale. Il mio disaccordo è qui completo. Distruzione dei templi e delle biblioteche, solito odio regressivo verso gli intellettuali presi come capro espiatorio, esaltazione mistica della classe operaia di fabbrica e dei contadini poveri, ed in definitiva tutto il vecchio armamentario asiatico dei Turbanti Gialli e dei Sopraccigli Rossi, destinato ad implodere da solo. Il solito modo di curare le malattie veneree con l’autocastrazione. Per il comunismo ci vuole sempre più cultura, non meno cultura, e soprattutto non bisogna mai mettere l’eguaglianza contro la libertà. Certo, quanto dico è detto col senno del poi, e per di più al di fuori di ogni assunzione di responsabilità. Ma credo che sia necessario dirlo lo stesso.
27. Il maoismo internazionale ed il movimento marxista-leninista adottò nell’essenziale il pensiero di Mao sulla natura della dinamica del comunismo storico novecentesco “revisionista”. La sua superiorità relativa rispetto alla teoria borghese dell’utopia totalitaria, alla teoria staliniana dell’autogiustificazione permanente di tipo emergenzialistico, ed infine alla teoria trotzkista dello stato operaio burocraticamente degenerato mi sembra assolutamente solare. Essa mi sembra anche superiore alle varie teorie del “capitalismo di stato” (Amadeo Bordiga, Tony Cliff, eccetera), il cui carattere aprioristico mi sembra innegabile. Il maoismo capisce bene che per definire marxisticamente l’esistenza di una classe sociale non è necessaria l’esistenza di notai, commercialisti e trasmissibilità ereditaria ai figli della proprietà privata dei mezzi di produzione, ma è sufficiente il potere reale di disposizione dei mezzi di produzione stessi. Nell’antico Egitto, ed in altre decine di società classiste, non c’erano notai e commercialisti, e neppure testamenti timbrati, ma la società di classe c’era lo stesso. Il maoismo riesce così a cogliere, sia pure in modo imperfetto, il segreto del comunismo storico novecentesco, una società di classe inedita guidata da una classe sfruttatrice inedita.
28. Il maoismo pone così le basi teoriche per la comprensione della dinamica ascendente e discendente del comunismo storico novecentesco inteso come fenomeno globale, ed è dunque incondizionatamente superiore alle altre tre teorie ricordate. Ma si ferma però a mezza strada, perché continua a sostenere la tesi a mio avviso strutturalmente errata della capacità rivoluzionaria inter-modale della classe operaia di fabbrica, dei contadini poveri e dei loro alleati subalterni. In questo modo il maoismo non dà luogo ad una vera rivoluzione scientifica nel marxismo (nel senso di Kuhn), ma fermandosi a mezza strada rimanda la resa dei conti con un apparato teorico globalmente insufficiente.
29. Come è ovvio, non penso affatto di possedere le chiavi del problema. La mia presunzione non si spinge a tanto. Ma ritengo che si possa ancora aggiungere qualcosa, utilizzando liberamente cinque concetti marxisti originari (modo di produzione, formazione economico-sociale, forze produttive, rapporti di produzione, ideologia).
30. Proviamo a vedere se alla luce dei due concetti marxisti di modo di produzione capitalistico e di formazione economico-sociale le società prodotte dal comunismo storico possano essere definite comuniste oppure no. la sola cosa filologicamente sicura, sulla base del testo di Marx del 1875 Critica del programma di Gotha, è che ovviamente esse non erano comuniste (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni), ma al massimo si avviavano verso il primo stadio del comunismo stesso (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro prestato in quantità ed in qualità). Questo primo stadio è generalmente battezzato dalla tradizione marxista “socialismo”, ma qui c’è un problema, perché Marx non usa mai questa parola, che è stata poi appiccicata dopo. In termini filologicamente marxiani lo stadio del “lavoro” è dunque la prima fase del comunismo, non il socialismo. Su questo punto, il maoismo cinese ed europeo (Bettelheim, La Grassa, Natoli) ha sempre avuto ragione. Si tratta allora di vedere se è possibile parlare di prima fase del comunismo. Uno studioso marxista italiano, Andrea Catone, sulla base di categorie prodotte da Maurice Godelier, ha sostenuto che il comunismo storico novecentesco è stato il periodo di una prima “sottomissione formale” ai produttori dei mezzi di produzione (attraverso la pianificazione, l’espropriazione della proprietà privata borghese, la proprietà statale e cooperativa), mentre è mancato il passaggio alla “sottomissione reale”. Catone ovviamente non si sa spiegare il perché di questo mancato passaggio, e si limita ad inquadrare il tema.
31. I riferimenti a Marx sono comunque difficili, perché Marx ha volutamente lasciato un “buco” grande come una voragine su due punti teorici essenziali. Da un lato, sullo statuto della filosofia e della conoscenza filosofica, da lui considerata integralmente assorbita nella conoscenza scientifica (ed in questo modo, a mio avviso, il positivismo implicito è stato solo l’anticamera del nichilismo esplicito). In secondo luogo, sul comunismo, con la scusa di non cadere nella maniacale progettazione utopica e nella confezione di “ricette per la cucina del futuro”. In questo modo, ogni marxista successivo può arbitrariamente attribuire a Marx la filosofia che vuole lui, e sostenere che il comunismo c’è o non c’è a seconda della sua personale idea di comunismo. Non si esce da questo dilemma irrisolvibile con dosi sempre maggiori di citatologia, e non pretendo certamente di riuscire ad uscirne io. Presuntuoso sì, ma solo fino ad un certo punto.
32. In estrema approssimazione, se si definisce il modo di produzione capitalistico con categorie giuridiche (proprietà privata trasmissibile in via testamentaria dei mezzi di produzione) ed economiche (anarchia del mercato contrapposta alla pianificazione), allora è evidente che le società del comunismo storico novecentesco non erano più capitalistiche. Ma a suo tempo Marx non propose queste categorie giuridiche ed economiche, ma la categoria storica globale della separazione o meno dei produttori associati dal controllo e dalla separazione dai mezzi di produzione. Sulla base di questo parametro, le società del comunismo storico novecentesco erano ancora interne alla riproduzione capitalistica, perché la proprietà giuridica pubblica e la pianificazione governativa possono essere definite solo come fenomeni di “superficie”, non di “profondità”. E questo per quanto riguarda il modo di produzione.
Per quanto riguarda la formazione economico-sociale (concetto centrale in Lenin, e pressoché assente in Marx) il comunismo storico novecentesco ha dato luogo a numerose formazioni economico-sociali miste, qualitativamente diverse le une dalle altre. La Cambogia di Pol Pot non aveva molto a che vedere con la Jugoslavia di Tito. La Cuba di Fidel Castro era altra cosa rispetto alla Romania di Ceausescu. Ci si può chiedere se queste diverse formazioni economico-sociali erano o no di “transizione”, secondo un termine improprio e fuorviante diffusosi negli anni Settanta. Personalmente non lo credo. Transizione significa percorrere, transitare, passare. Ebbene, queste società non stavano “transitando” da nessuna parte, ma stavano solo accumulando progressivamente una classe dirigente nichilista e proprietaria ansiosa di “assicurare” il proprio dominio non solo sulla base fragile della cooptazione burocratica informale, ma sulla base più stabile della proprietà giuridicamente sicura e trasmissibile.
33. In definitiva, io non credo che le società del comunismo storico novecentesco fossero veramente uscite dal raggio di riproduzione sistemica del modo di produzione capitalistico. Questo non significa però che fossero dei semplici “capitalismi di stato” (Bordiga, Cliff, eccetera). Erano formazioni economico-sociali inedite ed incerte, il cui tallone d’Achille stava a mio avviso nella assoluta incapacità rivoluzionaria intermodale della loro base storico-sociale, la classe operaia, classe pienamente interna alla logica della riproduzione capitalistica.
34. Passiamo al concetto di sviluppo delle forze produttive. Molti marxisti sanno, o credono di sapere, che il concetto centrale di Marx è l’incapacità del capitalismo si sviluppare le forze produttive da lui stesso evocate. Ma questo non è esatto. Questo è semmai il concetto fondamentale di Engels, di Kautsky e del marxismo della II Internazionale, e poi della III Internazionale di Stalin, che alla luce della crisi del 1929 parlò addirittura di “putrefazione delle forze produttive” nel capitalismo. Il concetto centrale di Marx è un concetto in positivo, non in negativo, ed è quello della formazione progressiva di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale. In ogni caso, come capita per tutte le ipotesi scientifiche serie (che restano serie anche se vengono falsificate), non si è storicamente verificata né la formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato né la stagnazione dello sviluppo delle forze produttive nel capitalismo, che si è anzi dimostrato un involucro estremamente dinamico e capace di mutamento e di trasformazione. Anche in questo caso, il pensiero marxista ufficiale ha dimostrato di essere non un’avanguardia, ma una retroguardia, a causa della doppia pressione ideologica dei dirigenti cinici e dei militanti creduloni.
35. La corrente principale del pensiero marxista ha sempre adottato un’ideologia del progresso ingenuamente storicistica, inutilmente contrastata dai suoi critici (Bloch, Benjamin, Anders, eccetera), tutti zittiti ed emarginati. Il movimento maoista ha correttamente connotato questa ideologia in termini di “teoria reazionaria delle forze produttive”. Altra cosa è invece il fatto per cui il movimento comunista al potere ha sempre privilegiato la produzione dei mezzi di produzione sulla produzione dei beni di consumo. Da un lato, questa era una scelta obbligata, perché i paesi comunisti furono messi fuori dalla divisione internazionale capitalistica del lavoro, e non potevano certamente comprare le armi dai capitalisti. Dall’altro, si trattava anche di una scelta di classe, cioè della classe burocratica di stato, perché il cosiddetto “consumismo” non è certo un fatto socialmente neutrale, ma è l’involucro di una pratica privatistica e familistica della vita quotidiana del tutto incompatibile con la mobilitazione irregimentata. Il “consumismo” è un processo interminabile che si autoalimenta, non è certo un tetto di bisogni naturali che si raggiunge (come il motto comunista “a ciascuno secondo i suoi bisogni”), ed appunto per questo carattere socialmente interminabile esso è inseparabile dalla riproduzione capitalistica, e non è assolutamente affrontabile con invocazioni moralistiche, non importa se di tipo comunista militante o cristiano pauperistico. Ci vuole un radicale mutamento di mentalità, ma questo non può essere perseguito da un movimento che non crede nella conoscenza filosofica.
36. Per finire su questo punto, un marxista della II Internazionale, seguace della teoria della centralità della vittoria o della sconfitta sulla base della sfida dello sviluppo delle forze produttive, non si sarebbe per nulla stupito della vergognosa implosione del 1991. L’avrebbe interpretata come la definitiva sanzione ideologico-politica di una ben più strutturale sconfitta, quella appunto della sfida produttiva. Vi è qui però anche un’ingenuità. Nel momento in cui la produttività è anche ottenuta con l’intensificazione del lavoro (taylorismo, fordismo, toyotismo, eccetera) bisogna proprio essere ingenui per pensare che i lavoratori, una volta espropriati i capitalisti, vogliano poi lavorare in modo ancora più intensificato. Questa illusione “stachanovistica” non può che durare ovviamente poco, e solo in momenti emergenziali. Chi scrive ha visto lavorare gli operai sia in Germania Ovest che in Germania Est, e non solo ha visto, ma ha anche lavorato. Ho così scoperto l’acqua calda, il fatto cioè che il lavoratore socialista, in modo del tutto comprensibile, “batte la fiacca” in rapporto a quello sfruttato dai capitalisti, ed in più è ostile ad ogni innovazione tecnologica se questa può comportare disoccupazione o anche soltanto intensificazione dei ritmi lavorativi. In questo non vedo nulla di male, anzi lo approvo pienamente. Mica siamo venuti al mondo solo per lavorare. Tutti gli operai sanno che il “battere la fiacca” è una forma legittima di potere operaio. Sono completamente d’accordo. Prima la colazione, poi la distribuzione delle mansioni, poi un po’ di lavoro, poi il pranzo, poi un’altro po’ di lavoro, poi la merenda, poi a casa. Ovviamente, alla fine la Trabant è meno tecnologica della Mercedes. A me questo va benissimo, perché non sono un “consumista”, ma non mi si dica che la classe operaia è il fronte avanzato dello sviluppo delle forze produttive. E perché poi dovrebbe esserlo?
37. Passiamo al venerando e centrale concetto di rapporti sociali di produzione. Secondo Marx è questo, e solo questo (e non le forze produttive) a costituire la “struttura” di un modo di produzione. Anche su questo punto i maoisti hanno avuto ragione. Bisogna allora applicare questo concetto anche alle società del comunismo storico novecentesco.
Su questo punto posso farla corta, perché ho già ripetutamente detto nei paragrafi precedenti che condivido la tesi maoista delle società di classe e non quella trotzkista degli stati operai burocraticamente degenerati. Respingendo le tesi sul cosiddetto “capitalismo di stato” (Cliff, Bordiga), credo che si avvicinino più al problema coloro che come Paul Sweezy parlano di società di classe ancora inedite, o coloro che come Rudolph Bahro (con l’avallo autorevole di una recensione su Les Temps Modernes di Herbert Marcuse) hanno utilizzato l’analogia con il modo di produzione asiatico, per indicare società di classe unite alla pianificazione economica ed alla mancanza di proprietà privata dei mezzi di produzione (più esattamente, l’analogia si presterebbe meglio alle società a modo di produzione asiatico-orientale piuttosto che a modo di produzione asiatico propriamente dette).
A differenza dei maoisti, tuttavia, non condivido la tesi per cui in URSS la società di classe sarebbe iniziata nel 1956 con il congresso del PCUS ed il cosiddetto colpo di stato di Nikita Krusciov. Si tratta di una teoria assolutamente insostenibile. I “colpi di stato” non modificano la natura di una società (e questo vale naturalmente sia per il 1956 in URSS sia per il 1976 in Cina). Krusciov non ha inaugurato il dominio sociale della nuova borghesia burocratica del partito-stato, ma lo ha semplicemente normalizzato e stabilizzato, collegializzandolo. Il vero costruttore di questa nuova classe (volutamente o meno può essere biograficamente interessante, ma non marxisticamente decisivo) fu Stalin a partire dal 1929, dal momento che i piani quinquennali non furono soltanto un accorgimento economico socialmente neutrale, ma il meccanismo di costituzione di una nuova classe dominante gestionale. Questo fu capito bene da Charles Bettelheim, anche se quest’ultimo poi usò il termine leggermente improprio di “capitalismo di partito”. Dal 1929 al 1934 questa classe si costituì e si formò. Ma fu solo dal 1934 al 1939 che questa nuova classe poté realmente imporsi, con i processi staliniani. Questi processi non furono assolutamente (in termini marxisti) un errore, una paranoia georgiana, una crudeltà asiatica, un riflesso dell’accerchiamento fascista, eccetera, ma furono il solo modo di liberare un milione di posti nell’apparato dello stato-partito per cooptare un milione di persone nuove che li occuparono mediante la diffamazione e la calunnia. Krusciov fece parte di questa generazione di cialtroni. I figli di questa generazione, nati negli anni Trenta e giunti ai posti di direzione negli anni Sessanta e Settanta (e Gorbaciov ne è un esempio addirittura comico), non potevano ovviamente credere più in nulla, perché sapevano perfettamente che il libero dibattito ideologico marxista avrebbe potuto portare nel migliore dei casi al licenziamento, e nel peggiore allo spostamento di tronchi in Siberia a quaranta gradi sotto zero. Sono queste le basi “materiali” di quella crisi “morale”, apertasi a metà degli anni Sessanta, e che infine portò negli anni Ottanta al fenomeno Gorby.
38. Questo maestoso e semplice fenomeno ha dato luogo fra i marxisti a patetici fenomeni di “rimozione”. A ragione l’ex-marxista Kolakowsky ha parlato di “pensiero magico”, nel senso che per molti marxisti il vero ed il falso non dipendono dal loro razionale contenuto, ma dalla fonte da cui provengono. Krusciov nel 1956 disse soltanto ciò che per tre decenni era stato detto da vari oppositori e critici indipendenti, ma tutto questo era stato liquidato come calunnie della CIA, mentre quando cominciò a dirlo il Gran Sacerdote tutti cominciarono a stracciarsi le vesti in modo pagliaccesco ed esilarante. Che cosa dire? Una sola cosa: vergogna!
39. Passiamo ora all’ultimo concetto marxista, quello di ideologia. È interessante che in circa 74 anni (1917-1991) i sistemi politici del comunismo storico novecentesco non siano mai riusciti a “liberalizzare”, cioè a legalizzare, la libera discussione ideologica. La teoria per cui lo avrebbero magari fatto volentieri, se non fossero stati accerchiati da fascisti e capitalisti, non spiega niente, ed è del tutto tautologica. I capitalisti liberali erano anch’essi accerchiati dai comunisti, eppure si consentirono questa liberalizzazione, anche se sostennero sempre il suo impedimento nei paesi fascisti loro alleati dopo il 1945. Il capitalismo usa il sistema del Campo Pluralistico Amministrato (CPA), in cui l’apparente pluralismo è controllato dalle direzioni mediatiche, ed i veri oppositori diventano “frangie folli” (lunatic fringes). Il comunismo ha invece usato il modello del Flusso Ideologico Omogeneo (FIO), in cui tutte le emittenti ideologiche diffondono un unico sistema di pensiero. È evidente che il CPA è infinitamente più forte del FIO. Non c’è bisogno di essere seguaci del Tao per capire che il Rigido perde sempre con il Flessibile. Ma questa liberalizzazione era strutturalmente impossibile, perché avrebbe dato luogo ad una “opinione pubblica” che si sarebbe poi divisa in due, una parte decisa alla normale restaurazione del capitalismo, e l’altra parte critica dei privilegi della burocrazia. Tutto questo era anche incompatibile con la dittatura amministrativa del piano, e con l’incorporazione dell’economia nella politica e nell’ideologia. Il giorno prima della caduta del muro di Berlino, infatti, c’era ancora il materialismo dialettico (e non Lukács o Althusser), e c’era ancora il Flusso Ideologico Omogeneo, anche se ormai non ci credeva più nessuno.
40. Concludiamo. E possiamo concludere in modo molto semplice. La dissoluzione del comunismo storico novecentesco (1917-1991), insieme con fenomeni paralleli come la svolta capitalistica in Cina, eccetera, non è affatto un fenomeno sconcertante, inesplicabile e misterioso. Se vi applichiamo le più semplici categorie marxiste questa dissoluzione è uno dei fenomeni storici più semplici e comprensibili che esistano. Chi si limita a sdegnarsi in modo pauperistico e moralistico per la barca di D’Alema non ci capirà mai niente. Ma per questo bisogna friggere meno costolette e fare funzionare di più il dono del ragionamento. Difficile, doloroso, ma anche alla portata di tutti.