Guerra e Rivoluzione
set 21st, 2013 | Di Eugenio Orso | Categoria: Dibattito Politico
Lungi da noi scomodare, dato il titolo del presente post, una storica personalità, un rivoluzionario e un “eretico” del marxismo come Lev Trotzki, guida dell’armata rossa bolscevica durante la guerra civile e autore dell’opera Vojna i revoljucija, nell’edizione italiana Guerra e rivoluzione. Per la verità, il russo scrisse anche Permanentnaja revoljucija, cioè Rivoluzione permanente, ma oggi l’unica rivoluzione permanente, volendo usare impropriamente il termine rivoluzione, è quella del mercato e della globalizzazione economico-finanziaria, che ci ha messo letteralmente alle corde. Battute a parte, lasciamo riposare in pace Lev Trotzki e concentriamoci sul presente, che è molto diverso (fin troppo) dai tempi dei Bolscevichi, dell’Ottobre Rosso e della successiva guerra civile in Russia.
Il periodo che stiamo vivendo è un periodo di guerra in cui della Rivoluzione anticapitalista, per quanto drammaticamente necessaria, non v’è alcuna traccia. La cosiddetta primavera araba – con il suo sviluppo insurrezionale in Tunisia e in Egitto, l’innesto di eventi drammatici come la guerra di Libia e la guerra civile siriana fomentata dall’esterno – non è stata un vero accenno di Rivoluzione, manifestatosi non al centro, ma nella vasta periferia non ancora del tutto “normalizzata” del mondo neocapitalistico. Si è trattato di una serie di eventi politici e sociali ambigui, di sommovimenti in parte spontanei e in parte manovrati, che in alcuni casi hanno favorito (almeno temporaneamente) le formazioni e i partiti d’ispirazione islamica, nella contesa (almeno apparente, a uso e consumo delle masse arabe) fra oscurantismo religioso e contaminazione capitalistico-occidentale. Del fenomeno rivoluzionario propriamente detto, trasformativo dell’ordine sociale, intermodale (nel senso del passaggio da un modo storico di produzione a un altro), che si accompagna a una generale presa di coscienza delle classi dominate, o meglio delle loro avanguardie, finora neanche l’ombra. Neppure un accenno di Rivoluzione in Europa e in particolare nell’occidente europeo, dove gli agenti neocapitalistici hanno agito su molti piani (culturale, economico, sociale, simbolico, antropologico) per distruggere i vecchi modelli di capitalismo locali e aprire le porte al nuovo capitalismo finanziarizzato, alla società aperta di mercato, al dominio politico del mercato che sottomette gli stati un tempo sovrani. La molteplicità degli strumenti usati a tali scopi dovrebbe essere nota a tutti, in quanto strumenti di dominazione, trasformativi della realtà e dello stesso essere umano, i cui effetti (eminentemente distruttivi) penetrano fin nel nostro quotidiano. Dallo spread con il bund, arma europoide usata come una pistola puntata alla tempia dei popoli europei, al lavoro flessibile e precario, l’attacco neocapitalistico ha investito ogni recesso sociale e ogni aspetto della vita dei singoli, togliendo fatalmente l’acqua al pesce della Rivoluzione, che in altre epoche (1789 e 1792 in Francia, 1917 in Russia, 1912 – 1949 in Cina, 1953 – 1959 a Cuba) ha potuto nuotare in acque decisamente meno “inquinate”, se non proprio più tranquille.
L’aspetto economico è soltanto uno dei tanti, anche se spesso è stato enfatizzato all’eccesso, come se tutto dipendesse dall’andamento del saggio medio di profitto, dalla teoria della moneta adottata, o dall’apparente conflitto fra il capitale produttivo e quello finanziario (imprenditori buoni e banchieri cattivi, per intenderci). Le linee d’attacco degli agenti strategici neocapitalistici sono molte e ben articolate, il loro controllo sulla società e sull’uomo è ormai quasi capillare, mentre gli spazi autenticamente alternativi – nel mondo reale e anche nel mare magno della rete – si riducono sempre di più. I governi che non governano, ma subiscono diktat sopranazionali ed eseguono ordini (Papademos, Monti, Letta, eccetera), i governi che vanno contro gli interessi vitali dei loro stessi popoli, non sono certo una mera eccezione, in Europa, tendendo a rappresentare sempre di più la regola. Il consenso è sempre meno necessario. Un fastidio d’altri tempi che trae a se concessioni, compromessi fra stato e mercato, aumenti della spesa pubblica e del deficit che si possono (e si devono) evitare. Perciò i parlamenti eletti con la truffa del voto liberaldemocratico non legiferano autonomamente, non decidono alcunché, ma ratificano decisioni conformi agli interessi della classe globale neodominante (ad esempio, il pareggio di bilancio nella costituzione italiana), incuranti degli effetti che tali decisioni avranno sul popolo, sugli stessi elettori che deputati e senatori venduti al neocapitalismo dovrebbero rappresentare. Interi partiti, o meglio, interi cartelli elettorali, per milioni di voti estorti, fungono da servi politici dei grandi poteri esterni, incarnati a livello sopranazionale dai vertici dell’unione europoide, del fondo monetario internazionale, della bce, della nato. Questo è il caso del disgustoso pd, in Italia e di nuova democrazia in Grecia, ma a ben vedere è anche il caso del partito socialista francese o della spd tedesca. Nonostante tutto ciò sia evidente, non vi è alcuna reazione degna di questo nome. Non diciamo ingenuamente e genericamente “reazione popolare che parte dal basso” (dal fondo della piramide sociale), ma una reazione, inevitabilmente armata, bene organizzata, di avanguardie rivoluzionarie e antagoniste “militarizzate”, dotate di programmi politici alternativi. Avanguardie che aspirano a trascinare nella lotta contro i dominanti globali e i loro collaborazionisti locali le masse fino ad ora inerti. Sì, perché le vere rivoluzioni non partono dal fondo della piramide sociale, come molti credono. Le vere rivoluzioni politiche e sociali non le fanno i dominati senza guida, ricattati economicamente, plagiati psicologicamente, manipolati antropologicamente e legati al sistema da catene visibili o invisibili, ma nuove élite che irrompono nella società e sulla scena della storia detronizzando la classe dominante del momento.
C’è un vasto ceto medio sull’orlo dell’abisso, dopo i decenni “felici” di miglioramenti economici e relativa promozione sociale (1945-1975 e fino agli anni ottanta). C’è il lavoro intellettuale dipendente svalutato che arranca e scivola sempre più in basso. C’è un lavoro operaio – un tempo qualificato e decentemente retribuito in Europa occidentale (e negli usa) – senza più una classe d’appartenenza, che il nuovo capitalismo schiavizza e precarizza a piacimento. I soggetti colpiti sono numerosi e sufficientemente acculturati, hanno ancora qualche possibilità (di reazione organizzata) in più rispetto alla vecchia piccola borghesia, rovinata dalla prima guerra mondiale e dagli effetti della crisi del ’29, che fatalmente ha appoggiato il fascismo e il nazismo nella loro ascesa. Le angherie della classe dominante ormai si sprecano, tutti i limiti alla compressione materiale e psicologica dei dominati stanno per essere superati, il sistema di potere vigente mostra di non aver più la necessità vitale di un vasto consenso di massa. Il fondo della piramide sociale si amplia di giorno in giorno, in un processo inverso rispetto a quello che caratterizzò il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, la de-emacipazione escludente sostituisce l’emancipazione includente, le masse subiscono disintegrazione culturale e perdita della coscienza politico-sociale. Nonostante questo, della Rivoluzione prossima ventura e dei Rivoluzionari futuri ancora nessuna traccia. Consapevoli come siamo che l’uomo è immerso nel corso storico, nel cui sviluppo (e non altrove) si realizza l’emancipazione umana, ci consoliamo affermando che “i tempi non sono ancora maturi”. Ipotizziamo che la compressione dei dominati, la riduzione delle risorse a loro assegnate, lo scippo del prodotto sociale attraverso la finanza devono continuare ancora per un po’, prima che ci sia la reazione, prima che nuove élite si organizzino intorno a nuove idee e programmi politici alternativi immediatamente applicabili. Ma tutto questo non basta, non riesce a spiegare l’attuale situazione di apparente bonaccia, nelle nostre società, e l’assenza d’embrioni già visibili di forze rivoluzionarie e antagoniste. Potrebbe forse spiegare l’inerzia di massa, il fatto che non ci siano ancora – in Italia, in Spagna, in Grecia, in Portogallo e altrove – incendi insurrezionali ed esplosioni di violenza popolare diffusi e degni di questo nome, ma non il vuoto in termini di programmi alternativi credibili che mancano del tutto, di voci dissonanti che non ci sono, di nuove élite antagoniste che latitano.
Viviamo in uno stato di guerra permanente, scatenata contro di noi dagli agenti strategici neocapitalistici e dai loro lacchè (politici, mediatici, accademici). Guerra allo stato sociale, guerra alle conquiste del lavoro e ai diritti dei lavoratori, guerra alla spesa pubblica (che va in parte alle clientele, d’accordo, ma pur sempre, in parte maggiore, a beneficio delle classi povere), guerra alla sovranità nazionale e ai modelli di società o addirittura di capitalismo (come l’economia mista italiana del dopoguerra) “non conformi”. Chissà cosa ci svelerebbe il grande, l’immenso Karl Marx – filosofo ottocentesco della Rivoluzione – se potesse osservare questa situazione apparentemente inspiegabile e questo capitalismo, che pur discendendo “geneticamente” dal capitalismo del secondo millennio, indagato dal filosofo di Treviri, identifica un nuovo modo di produzione sociale. Certo è che l’esito della sua indagine sulla produzione e la composizione del capitale, ma ancor più in generale sul modo storico di produzione capitalistico in rapporto a quelli che l’hanno preceduto, non consentiva di prevedere che l’estorsione del plusvalore nella fabbrica sarebbe stata, in seguito, “fagocitata” dalla creazione del valore finanziario, azionario e borsistico (come accade ai giorni nostri). Non poteva prevedere, Marx, che non vi sarebbe stato un crollo generale e che il neocapitalismo sarebbe stato sorretto da una pluralità di elementi strutturali – oltre ai rapporti di produzione e allo sviluppo delle forze produttive di marxiana memoria – non tutti di natura economica. Ideologia di legittimazione mercatista e ultraliberista, creazione dell’uomo precario, flessibilizzazione di massa e precarizzazione del lavoro, prevalenza assoluta della creazione del valore di natura finanziaria (con sussunzione dell’estorsione del plusvalore), crisi strutturale e perenne per ragioni riproduttive e di ricatto nei confronti delle masse.
Tornando alla guerra, anzi, alle guerre neocapitalistiche, sappiamo che accanto all’incessante conflitto interno, di natura sociale e culturale, contro i dominati nei paesi capitalistici di antica data, vi sono guerre esterne per “normalizzare” aree e paesi del mondo non ancora sotto il pieno controllo della classe globale finanziaria. Le guerre esterne sono condotte, almeno in parte, con armi tradizionali e puntano all’occupazione o alla disintegrazione dei paesi ribelli da “normalizzare” (Afghanistan, Iraq, Libia, la Siria nel breve e poi forse l’Iran), suscitando una resistenza armata della popolazione. Alla guerra interna, che è incessante ed è in atto almeno da un paio di decenni, si dovrebbe rispondere efficacemente con la Rivoluzione. In poche parole, si dovrebbe contrapporre alla distruttiva violenza neocapitalistica la benefica controviolenza rivoluzionaria, mettendo, così, seriamente in pericolo la riproduzione sistemica che ci condanna a morte. A nulla serve evidenziare che i morti, i feriti e i prigionieri sono tantissimi fra coloro che subiscono la violenza sistemica, come in guerra tradizionale ancorché diluiti nel tempo. Ad esempio, da alcuni mesi in Grecia – paese in cui la situazione sociale, sanitaria, alimentare è gravissima e l’attacco più furibondo – per la prima volta le morti hanno superato le nascite e questo è già un buon indicatore, fra i tanti, della strage in atto. In Francia gli impiegati della France Telecom si suicidavano per paura di perdere il posto di lavoro, vessati dalla direzione, mentre in Italia si auto-sopprimono coloro che sono vittime del “fallimento economico individuale”. Gli operai della Fiat sono prigionieri di un sistema contrattuale infame, tritura diritti, imposto con pochi contrasti dai vertici del gruppo e da Marchionne. E si potrebbe continuare a lungo nel portare drammatici esempi. Eppure la guerra interna neocapitalista la stiamo subendo tutti, senza rispondere neppure con un sol colpo. Oppure rispondendo in modo del tutto insufficiente o inefficace, come accade in certi paesi dell’area europea mediterranea, come la martoriata Grecia, la Spagna, il Portogallo. Sembra di essere imprigionati in una grande Sarajevo, sulla quale il nemico riversa un micidiale fuoco d’artiglieria, al sicuro sulle creste dei monti, mentre la popolazione subisce il bombardamento senza poter reagire in modo efficace, addirittura non riuscendo a individuare il nemico.
Almeno una ragione importante della mancata risposta alla violenza neocapitalistica, dell’assenza di prospettiva rivoluzionaria mentre la guerra continua, noi crediamo di averla individuata. Dal collasso dell’Unione Sovietica a oggi, tre grandi movimenti di protesta (non li definiamo rivoluzionari) si sono succeduti nel cosiddetto mondo occidentale: il pacifismo, l’altermondismo e gli indignati. Tutti e tre i movimenti hanno pietosamente fallito, mostrando la loro inconsistenza ideologica e programmatica, non ottenendo alcun risultato apprezzabile e, per certi versi, non riuscendo neppure a individuare con chiarezza il nemico. Il pacifismo asseriva di lottare genericamente contro la guerra (non di rado definita imperialista), l’altermondismo contro la globalizzazione economica e gli indignati contro la finanza (di rapina) identificata semplicisticamente con le banche. Obiettivi generici, non ben definiti, tali da non preoccupare troppo il manovratore neocapitalistico. Tutti e tre questi movimenti avevano almeno una cosa in comune di una certa rilevanza, nel senso che erano sostanzialmente “pacifisti” (non soltanto il primo!). Ora, sappiamo bene che il “pacifismo strumentale” è uno strumento di dominazione delle masse, il cui scopo è di interdire l’uso della violenza ai dominati per evitare che si difendano efficacemente, diventando un pericolo reale per il potere vigente. Non solo i pacifisti, ma anche i loro successori altermondisti e indignati hanno introitato ben bene il “pacifismo strumentale” con tutte le sue interdizioni e i suoi tabù. E’ proprio questo, assieme ad altri elementi, che ha determinato la sconfitta senza appello dei tre movimenti, definibili con il senno di poi pseudorivoluzionari. E’ per tale motivo (o almeno, anche per tale motivo) che non si risponde alla guerra interna neocapitalistica – a senso unico contro dominati indifesi – con la Rivoluzione, che necessariamente deve prevedere l’uso della violenza. Così ci si trasforma, pur inconsapevolmente, in agnelli sacrificali, in pecorelle belanti che non sono in grado di minacciare alcunché, se non un’astratta globalizzazione economica o genericamente “le banche”. Così, invece di combatterlo si sostiene il sistema e si accettano le sue regole, i suoi tabù.
Quando si uscirà dalla trappola mortale del pacifismo, che conviene solo ai nostri aguzzini? Quando ci si renderà conto – a livello di avanguardie e di nuove élite antagoniste in via di formazione – che alla guerra neocapitalistica si deve rispondere con la Guerra Sociale senza quartiere, cioè con la Rivoluzione? Noi speriamo non troppo tardi. Come scrisse ai suoi tempi Lev Davidovič Bronštein, in arte Trotzki (lo scomodiamo contravvenendo al nostro iniziale intento) Nel corso dell’ultima guerra, non solamente il proletariato nel suo complesso ma anche la sua avanguardia e, in una certa misura, l’avanguardia dell’avanguardia sono state prese alla sprovvista; l’elaborazione dei principi della politica rivoluzionaria di fronte alla guerra è iniziata quando la guerra era già scatenata e l’apparato militare esercitava un dominio assoluto. Speriamo che quando inizieranno a scendere in campo le forze rivoluzionarie – avanguardia della classe povera neocapitalistica – il dominio esercitato dagli agenti neocapitalistici sulle masse non sia già assoluto e che la guerra non l’abbiano già praticamente vinta. Ma non si tratta che di una nostra timida speranza.
La campagna Nel 1700 in Inghilterra inizia la rivoluzione agraria. Si parla di rivoluzione agraria perché l’agricoltura cambia moltissimo. In questo periodo, infatti, migliorano le tecniche usate per coltivare la terra e si iniziano ad usare nuove colture e nuove macchine. La rivoluzione agricola porta ad un aumento della produzione di cibo, così l’alimentazione delle persone migliora e cresce il numero di abitanti (= aumento demografico). Millet: La spigolatura . Ora et labora: la preghiera nei campi.