Comunismo comunitario
set 15th, 2013 | Di Eugenio Orso | Categoria: Teoria e critica
Si consenta a chi scrive di non aprire il complesso e appassionante discorso relativo al comunismo e alla comunità con una citazione di Marx, di Engels o di Preve, ma, più modestamente, con un’autocitazione.
L’attacco ai legami di tipo comunitario e la contemporanea e capillare diffusione dell’individualismo utilitaristico non rappresentano “vezzi” puramente ideologici degli intellettuali al servizio dei dominanti, ma corrispondono ad un’esigenza molto concreta del nuovo potere, perché la stessa lotta di classe novecentesca, che ha assunto rilevanti aspetti culturali oltre che economico-ridistributivi, è stata resa possibile dalla presenza di vincoli comunitari e solidaristici fra i subalterni, vincoli che alla fine del novecento, in occidente, hanno iniziato rapidamente a dissolversi.
Ogni lotta di classe ha avuto come presupposto, e l’avrà anche in futuro, l’esistenza di tali vincoli e non può prescindere dall’affermarsi di aspetti comunitari. Banalmente, la nascita di mutue e cooperative va vista in questa ottica e nella prospettiva del confronto sociale fra le classi, ed è significativo che in questi tempi, in cui la lotta di classe decisamente langue, le cooperative si sono trasformate in centri di business più o meno grandi, più o meno influenti nel panorama politico-economico, con qualche significativo vantaggio fiscale. Senza tali vincoli e il loro rinsaldarsi, non sarebbero state possibili le lotte emancipative che hanno riguardato il lavoro, negli spazi economico-sociali e culturali dominati dal capitalismo.
La questione non va vista esclusivamente come un confronto fra la “società aperta”, in via di affermazione, e le resistenze comunitarie tradizionali a questo progetto di riorganizzazione sociale, e non va ridotta alla pura dimensione territoriale, con la difesa pur legittima delle comunità locali, delle loro tradizioni, dei loro usi e dei loro costumi dagli attacchi annichilenti e dallo strapotere del monstre globalista, perché alla base della stessa solidarietà fra subordinati agiscono vincoli comunitari che la rinsaldano e che possono creare una vasta comunità deterritorializzata.[Alienazioni e uomo precario, in nota nel testo].
Le solidarietà di natura comunitaria hanno caratterizzato la storia della classe operaia, salariata e proletaria fin dai suoi inizi, e ne hanno reso possibili sia le lotte emancipative dentro il capitalismo sia le azioni rivoluzionarie anticapitalistiche.
In una situazione culturale e sociale completamente dominata dall’individualismo anomico e relativistico – che per fortuna nella sua forma estrema è puramente teorico, e ciò ci rende almeno un barlume di speranza futura – non avrebbe senso parlare né di solidarietà né di coscienza di classe, non si potrebbero sviluppare, e non avrebbero potuto svilupparsi in passato, momenti di lotta collettiva emancipativi o rivoluzionari.
Il giovane Marx, ne La sacra famiglia del 1845, ha compreso e posto bene in evidenza che l’uomo non può essere considerato in alcun modo un atomo, il quale possiede in sé tutta la pienezza necessaria a garantirne l’autonomia.
L’atomo [a-tomon] è concepito come un’entità priva di bisogni e autosufficiente, totalmente indifferente a ciò che la circonda, mentre le persone reali, in carne ed ossa, non vivono sospese in un vuoto assoluto, non possono permettersi indifferenza nei confronti del mondo esterno, esprimendo nell’esistenza quotidiana bisogni di ordine materiale e bisogni, ci permettiamo di aggiungere, relazionali e identitari. Con le parole di Marx, sono dunque la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate possono sembrare, e l’interesse che uniscono i membri della società civile [La sacra famiglia].
Se la classe è nel contempo una posizione assegnata nell’ordine sociale vigente e una matrice identitaria per coloro che ne fanno parte, l’esistenza della stessa si relaziona, come appare nell’autocitazione, con lineamenti di tipo comunitario, costituendo una vasta comunità che può superare i confini degli stati, le divisioni dovute alla diversità linguistica e religiosa, nonché le barriere razziali. La tendenza dei soggetti alla socializzazione attraverso una produzione comunitaria, che renda disponibile il prodotto equamente diviso, non certo è estranea alle lotte della classe contro i dominanti che appropriano quote rilevanti del prodotto sociale a scapito degli altri gruppi sociali e dell’intera comunità, e ne rappresenta uno dei moventi principali, se non la prima ragione di lotta.
Se la ragione prima del conflitto è l’equa distribuzione di ricchezza e potere, questione Etica prima ancora che economico-politica, è la solidarietà di natura comunitaria che ne rende possibile l’avvio e il successivo sviluppo. Dominando nella società frammentazione sociale e frantumazione individualistica, oltre a dileguarsi l’Etica, vengono meno le basi stesse della lotta.
Coscienza di classe e comunità, lotta di classe e comunità, comunismo e comunità non sono quindi espressioni che fanno a pugni l’una con l’altra, termini inconciliabili di un problema irresolubile, ma concetti che si armonizzano in una sintesi alternativa, in una futura possibilità di riscatto e di definitiva fuoriuscita dalla costrizione capitalistica.
Assumendo un approccio rozzo e superficiale, degno della peggior vulgata dicotomica Destra/ Sinistra, si potrebbe obbiettare che mentre il comunismo è per definizione “di sinistra”, la comunità appartiene interamente al bagaglio culturale della destra [generalizzando le forme comunitarie gerarchizzate e fortemente organicistiche], e che quindi il matrimonio, con una celebre espressione manzoniana, “non s’ha da fare”, è impossibile, o quantomeno sconveniente.
A parte il fatto che la divisione del mondo in termini politici fra destra e sinistra è una convenzione relativamente recente, derivante dallo schierarsi dei deputati nell’Assemblea rivoluzionaria francese che ha sostituito nel 1789 gli Stati Generali, ed è rimasta inattiva per buona parte dell’Ottocento, rileviamo che questa dicotomia – tenuta in vita artificiosamente dalla propaganda sistemica – oggi non è più operante, esistendo nei fatti l’unico Partito della Riproduzione Capitalistica.
L’unico “partito capitalistico” realmente esistente, come ci ha insegnato Costanzo Preve, è composto dalla “destra del Denaro”, che è anticomunitaria e globalista in accordo con la sua natura ed i suoi scopi di dominio, e dalla “sinistra del Costume”, che è un parente stretto del già citato comunismo individualistico, o falso comunismo.
Nel partito sistemico, oltre le apparenze e le differenze superficiali fra i cartelli elettorali ammessi, la “destra del Denaro” stabilisce oggi le regole econonomico-finanziarie, sempre più stringenti in una “globalizzazione senza veli”, tutelando i soli interessi che contano, quelli della Global class e dei suoi collegati, e la “sinistra del Costume” [che prima del Sessantotto, secondo Luc Boltanski ed Eve Chiapello, esprimeva la critica cosiddetta “artistica” e piccolo borghese al capitalismo] stabilisce appunto i costumi, i modelli e gli stili di vita, per così dire, la moda e la voga che non disturbano il manovratore e la stessa riproduzione complessiva del sistema.
Al fine di imporre il nuovo ordine è fondamentale distruggere il vecchio, e perciò si indeboliscono la famiglia, attraverso lo “sdoganamento” e la diffusione dell’eccezione familiare e la limitazione delle politiche economiche a favore degli stessi nuclei fami liari tradizionali [che procede di pari passo, peraltro, con lo smantellamento complessivo del welfare], si riduce il ruolo, nella società e nella vita dei singoli, della religione, declassandola ad un ruolo assistenziale di poveri e derelitti, e si sciolgono le precedenti solidarietà classiste interpretate come resistenze.
Un certo marxismo, durante il Novecento, ha creduto nel superamento o nella distruzione delle vecchie istituzioni, quali la famiglia e la comunità tradizionale, per l’instaurazione di una società socialista e la provvisoria comparsa di un “semi-stato”, nell’attesa dell’”avvento” finale e definitivo del comunismo. In un certo senso, i kolchoz e i sovchoz sovietici per le produzioni agricole, nonché i kibbutz ebraici “socialisti” in Palestina, rappresentavano tentativi, che si sono rivelati relativamente effimeri, di sostituire con una nuova associazione umana – largamente imposta dal potere vigente – le vecchie comunità rurali e di villaggio, nonché le originarie famiglie patriarcali, in situazioni di tipo “semi-feudale” come quelle con le quali i comunisti sovietici hanno dovuto misurarsi, e nelle situazioni di arretratezza e mancanza di strutture affrontate dai coloni ebraici.
Proprietà collettiva e socializzazione dei mezzi di produzione non richiedono però la dissoluzione di tutte le istituzioni, quali la famiglia, la comunità di origine, l’istituzione religiosa, e non hanno certo come presupposto una sorta di “robinsonismo” non capitalistico e non russoviano da imporre all’uomo, né richiedono per diventare operanti la distruzione integrale delle identità dei soggetti. Certo, ci sono aspetti negativi in una certa concezione, gerarchica e addirittura dispotica, della famiglia, ci sono aspetti, nelle grandi religioni monoteistiche od anche negli altri culti, che limitano ingiustificatamente la liberta dell’uomo e della donna mortificandone la dignità, ma questo non significa che si deve procedere ad una loro distruzione completa, per liberare l’uomo e ridargli dignità, al contrario, significa che è necessario “emendare” queste istituzioni senza annichilirle, per superarne gli aspetti negativi, dispotici e radicalmente organicistici.
Si può collettivizzare ogni cosa, persino le case di civile abitazione e gli abiti che ciascuno indossa – come forse sarebbe auspicabile per uscire dalla terribile empasse storica e culturale generata dal capitalismo, attraverso l’affermazione del diritto di proprietà privata, l’economicizzazione integrale e la riduzione in quantità di ogni aspetto dell’esistenza – ma non per questo si deve cercare di ridurre i soggetti, con una folle operazione demiurgica, ad atomi dispersi che vagano nel nulla.
Come si può facilmente comprendere, in questa sede si parla di comunità, nel suo possibile ed auspicabile rapporto con il comunismo, non esattamente nei termini più noti e tradizionali, ad esempio facendo riferimento al comunitarismo di Ferdinand Tönnies, descritto nella celebre opera Comunità e società del1887, in cui la comunità, intesa essenzialmente come associazione identitaria organicistica, si contrappone alla più recente società, che è l’espressione di un modello meccanicistico di associazione umana. Su alcuni lineamenti essenziali del pensiero di Tönnies possiamo ragionevolmente, genericamente e in linea di massima non dissentire, ad esempio sulla necessità di consensus, sull’intimità e sulla stabilità dei rapporti che per il sociologo tedesco connotano la vita comunitaria, in contrapposto a quella nella società moderna, che è una costruzione recente, artificiale, fondata essenzialmente su scambio e valore, ed in cui si va come in una terra straniera.
E’ chiaro che fra una possibilità di convivenza sentita, consensuale e genuina, ed una convivenza formale, imposta ed apparente, si è portati a preferire la prima, come è altrettanto chiaro, estremizzando il discorso, che fra l’essere persone con una storia e un’identità, nonché con una molteplicità di relazioni “sentite” e qualche intimità reciproca, e l’essere per contro atomi autosufficienti in un vuoto cosmico, preferiamo di gran lunga la prima condizione, in accordo con il comune buon senso. Ma non sono questi i nostri riferimenti, non è propriamente il Tönnies della comunità organicistica contrapposta alla società meccanicistica il nostro ispiratore, quando discutiamo di comunitarismo posto in relazione con il comunismo.
In ciò, non siamo affatto prigionieri di una sorta di “bucolicismo comunitario”, non volgiamo costantemente lo sguardo al passato, esaltando le virtù delle piccole comunità di villaggio legate al territorio in contrapposto alla cosiddetta società di mercato, non auspichiamo l’impossibile ritorno ad un salvifico piccolo mondo antico, precapitalistico, premoderno e quindi buono … A questo punto, valgano come primo chiarimento le parole di Costanzo Preve, tratte da un’intervista del 2006, a cura della giornalista Antonella Ricciardi, presente in rete e gratuitamente fruibile:
“Esistono molti comunitarismi, in realtà non esiste un solo comunitarismo. Il comunitarismo è per così dire una tendenza come l’illuminismo o il romanticismo o il positivismo. Per cui, dire comunitarismo è come dire illuminismo, romanticismo, positivismo, cioè vuol dire sette – otto cose diverse, non una sola. Fatta questa premessa, che è molto importante, il comunitarismo dalla direzione di destra presenta due fondamentali caratteristiche: la gerarchia e l’organicismo. La gerarchia, in quanto è un comunitarismo gerarchico, che per così dire fa riferimento a comunità precedenti tradizionali concepite come gerarchiche, pensiamo a Julius Evola e così via, e poi in secondo luogo l’organicismo, per cui l’individuo viene visto come un prodotto decadente dell’illuminismo, e invece viene evocata una specie di integrazione tra individuo e comunità. Io mi oppongo ad entrambe queste cose, mi oppongo al gerarchismo perché personalmente sono per l’illuminismo e credo nella possibilità di una comunità egualitaria, e mi oppongo anche all’organicismo perché ritengo, a differenza di moltissimi comunitaristi, compresi anche quelli di destra, che l’emergere dell’individuo libero a partire dal ‘600 e ‘700 sia irreversibile, e perciò ogni forma di comunitarismo che vuole combattere contro l’individuo libero è destinata a fallire. Io sono contro la condizione del comunitarismo che fa sì che le famiglie obblighino le figlie al matrimonio combinato… Se una certa “vue de droite” ha avuto ed ha tuttora come riferimento il comunitarismo gerarchizzato ed organicistico, da opporre alla modernità quale alternativa che ben si accorda con le pulsioni tradizionaliste, una certa “vue de gauche” ha avuto come riferimento il collettivismo sovietico, anch’esso gerarchizzato e soggetto al controllo stringente del partito, e quindi ha idealmente aderito ad una forma di dispotismo, pur di natura comunitaria, come in effetti appariva il sistema dell’Unione Sovietica. Il rapporto organico, diretto e senza mediazioni ha connotato l’esperienza collettivistica sovietica, segnandola nei decenni, assieme all’indiscussa centralità del partito e delle sue strutture politico-burocratiche di potere, sia pur in presenza di positivi elementi socializzanti, che andavano “realmente” nella direzione del comunismo auspicata da Marx. Il comunitarismo anticapitalistico, in un’auspicabile variante non organicistica-tradizionale e non più dispotistico-collettivistica sulla base del modello sovietico novecentesco, a detta di Costanzo Preve si trova nella fase in cui deve ancora risolvere alcuni problemi pratici e teorici determinanti per la sua identità presente e futura”. [Alla ricerca della speranza perduta, scritto in forma dialogica con Luigi Tedeschi].
Ci sono concezioni del comunismo che escludono la comunità, ed altre che con questa possono armonizzarsi. La strada da seguire, in termini ancora generali ma sufficientemente chiari, ce la indica il filosofo Costanzo Preve, in quanto il comunitarismo autenticamente anticapitalistico e comunistico, per “svincolarsi” dal passato e creare il nuovo, deve prendere congedo dal “comunitarismo organico”, in cui non c’è spazio per il dissenso e la non-condivisione di individui che fanno parte della comunità, e che invece devono avere il diritto giuridicamente garantito delle loro scelte anti-conformistiche. Deve congedarsi dal “comunitarismo tradizionale” (del tipo della Lega di Bossi, per capirsi), per cui la comunità è concepita e vissuta come chiusura sociale identitaria verso lo “straniero”, fino a comportare episodi sgradevoli ed inaccettabili di discriminazione “razzista” [Ibidem].
Sul versante del comunismo, è necessario abbandonare le fiducie “avventiste”, le attese di un messianesimo ateo, o quanto meno del tutto laico, della liberazione comunistica dell’uomo da parte dell’uomo, nate dalla cosiddetta teoria dei cinque stadi ed arrivate fino ai giorni nostri: comunismo primitivo, schiavismo antico, feudalesimo, capitalismo, avvento finale del comunismo. L’avvento del comunismo, come quello di qualsiasi altra forma di società umana, non è necessitato e non può essere se non il frutto, o meglio la risultante storica, di un’azione umana collettiva, diretta dalla teoria e dalla pratica rivoluzionarie verso la costruzione del nuovo.
Un pilastro sul quale deve poggiare il nuovo paradigma comunistico-comunitario – come è facile intuire, poiché tale altrimenti non sarebbe – è quello dell’eguaglianza, da intendersi non in termini di omologazione, di livellamento forzato dei singoli e di appiattimento generale, ma sostanzialmente nei termini in cui la intendeva Marx. Il lavoro collettivo, cooperativo e associato che caratterizza il General Intellect marxiano, idealmente e concretamente rappresenta la realizzazione del principio di eguaglianza dei membri all’interno di una comunità, e non richiede per di ventare operante la distruzione delle identità particolari e l’appiattimento delle differenze, né l’organicismo tradizionale o il dispotismo collettivistico.
Questa necessità di cambiare radicalmente la direzione dei processi storici in atto, riflessa dalla ricerca di un’alternativa al lavoro capitalistico e all’imposizione anti-sociale e anti-umana della sua organizzazione – apparentemente senza scampo per i subalterni e senza una via d’uscita storicamente prevedibile – è una necessità che nasce dalle persone reali, costrette dalla precarizzazione del lavoro a cedere l’intero tempo di vita, ricevendone in cambio quella che sempre di più diventa la mera sussistenza, o ancor meno, la quasi-sussistenza. “Schiavi autosussistenti”, nati con la diffusione del lavoro precario, dovranno sostituire progressivamente le stabili figure professionali del passato, in Italia e in Europa, ed alle rivendicazioni di lavoratori coscienti, organizzati e disposti a difendere i loro diritti, si sostituiranno le tribolazioni di questi neoschiavi, costretti ad un automantenimento sempre più difficile.
Trascorsa l’epoca moderatamente emancipatrice del welfare e del fordismo, che fu per i lavoratori una sorta di Belle époque e una “boccata d’aria” dopo decenni di sfruttamento intensivo, Il lavoro ridiventa sempre di più una potenza estranea, o meglio “estraniante”, non dominata da chi la subisce ed universalmente oppressiva, proprio come la intendeva ai suoi tempi Karl Marx. La globalizzazione dell’estraniazione sembra procedere di pari passo con l’espansione del commercio internazionale.
Nel contempo, cresce il livello di pressione esercitato dalle dinamiche capitalistiche sui subalterni, accelerate dal dominio incontrastato della finanza – strumento che risponde perfettamente alle aspettative dei nuovi dominanti globali – e dall’affermazione del paradigma della Creazione del Valore, finanziaria, azionaria e borsistica. Superare l’estraniazione, riappropriarsi del tempo di vita e ricomporre la scissione fra l’interesse particolare e quello comune, significa uscire dal ferale circuito del lavoro capitalistico, sempre più precario e materialmente compresso, ed attivare le dinamiche del lavoro collettivo, cooperativo, associato, che idealmente e concretamente è il lavoro comunitario e comunistico.
Se dovessimo pensare a delle parole d’ordine efficaci, che possano caratterizzare le auspicabili lotte anticapitalistiche future, non potremmo che proporre – oltre a Comunismo e Comunità – “Eguaglianza e Solidarietà”.
La parola libertà non compare esplicitamente, ma nel suo significato più proprio ed autentico la possiamo intendere come il principale esito, storico e culturale, dell’unione fra l’eguaglianza comunistica ed il solidarismo comunitario. Idealmente, la parola Libertà non pronunciata risuona insieme a Eguaglianza e Solidarietà e con queste si armonizza. Eguaglianza e Solidarietà, che riflettono l’unione di Comunismo e Comunità, oltre a garantire la Libertà dei singoli nel senso più proprio e profondo che si attribuisce a questa espressione, potranno innescare un nuovo processo rivoluzionario con esiti trasformativi ed intermodali.
L’attuale impianto di potere capitalistico, quale risultante di un modo di produzione sociale nuovo, diverso da quello del secondo millennio affermatosi nell’era del capitalismo industriale a guida borghese, si fonda strutturalmente su quattro elementi principali: i rapporti di produzione sottomessi alla creazione del valore azionario e borsistico, lo sviluppo delle forze produttive accelerato dalla finanza, l’ideologia neoliberale che assimila i semicolti, ed infine, last but not least [come direbbero gli anglofili], la manipolazione culturale ed antropologica di massa, con la conseguente diffusione dell’estraniazione per la costruzione sociale dell’uomo precario. Creazione del Valore azionaria e borsistica, dominio della Finanza, Ideologia neoliberale [o neoliberista, che è praticamente lo stesso] e la coppia Estraniazione-Precarietà, non possono che massimizzare l’iniquità sociale e declassare il lavoro umano, svalorizzandolo materialmente e culturalmente.
Stretto fra il dominio della finanza ed una precarietà lavorativa ed esistenziale indotta, il lavoratore regredisce a semplice fattore della produzione, tende a scomparire quel doppio mercato del lavoro che divideva l’occidente capitalistico dal terzo mondo, si moltiplicano i mercati del lavoro in transito peculiari dell’instabilità lavorativa, e la “questione operaia” si confonde con quella, nuova di zecca, che riguarda i lavori impiegatizi, specialistici, intellettuali del ceto medio, diventata altrettanto urgente.
Le nuove generazioni rivelano la contaminazione della precarietà nel modo in cui percepiscono sé stesse e il loro destino negli anni a venire. Su di loro agiscono i potenti dispositivi simbolici, intesi come li intendeva il sociologo francese Pierre Bordieu, sui quali poggia il processo di flessibilizzazione di massa, in pieno corso, e la “simbolizzazione del conflitto di classe” che il Capitale Transgenico Finanziarizzato per ora sta vincendo. Il tasso di violenza simbolica espresso dal potere globalista nei confronti dei subalterni raggiunge ormai livelli impressionanti, e non si tratta certo di una violenza “dolce”, per quanto non lasci sul corpo visibili segni, come quelli delle frustate inferte agli schiavi nel mondo antico, trattandosi di una forma di violenza destinata a sostituire, efficacemente, la costrizione fisica praticata fin dalla notte dei tempi ed a reprimere senza ricorrere a fustigazioni, mutilazioni o uccisioni. Dove l’imposizione della norma giuridica può rivelarsi scarsamente efficace e l’uso della violenza fisica può lasciare soltanto tracce superficiali, penetra la violenza simbolica di questo capitalismo.
E’ bene ricordare, tuttavia, che se la violenza simbolica è esercitata sul soggetto “con la sua complicità”, come accade oggi nella “simbolizzazione del conflitto di classe”, ciò non può avvenire quando i soggetti sono animati da una forte coscienza classista, e quindi da solidarietà e vincoli reciproci di natura comunitaria che attivano l’antagonismo. Sostanzialmente per tale motivo, cioè per debellare ogni forma di resistenza al suo progetto antropologico-culturale con finalità di domino sul “capitale umano” e su tutti i subalterni, il capitalismo contemporaneo ha da tempo avviato, in Italia, in Europa e in occidente, un decisivo processo di frantumazione del tessuto sociale per la distruzione dell’ordine precedente.
Il nesso fra violenza simbolica e precarietà integrale, indotta artificialmente nella vita umana, risulta perciò evidente, e si stabilisce per “produrre” docili soggettività che rispondono in primo luogo alle attuali esigenze riproduttive sistemiche. Se le risorse culturali possono essere impiegate, fin dal momento educativo della scuola, con lo scopo di perpetuare il potere delle élite riproducendolo, la classe dominante contemporanea [Global class] le usa in modo più efficiente e spregiudicato rispetto a tutte le altre classi egemoni che storicamente l’hanno preceduta, a partire dalla vecchia borghesia proprietaria, riuscendo ad imporre, a mantenere e ad estendere “con una certa qual facilità” il proprio potere.
A partire dalla cruciale precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, i dispositivi simbolici del potere [assumendo come tali l’evoluzione ultima di quelli definiti nel novecento da Pierre Bordieu] sembrano agire senza incontrare, per ora, resistenze ed ostacoli significativi, ed è per tale motivo che lo scrivente usa l’espressione “simbolizzazione del conflitto di classe”, perché, appunto, le ostilità si spostano dall’originario terreno, meramente e banalmente economico-rivendicativo [metabolizzata l’”economicizzazione del conflitto” del Bauman di Memorie di classe], per investire l’intero piano culturale e la fondamentale relazione fra mondo oggettivo e mondo soggettivo.
Sarebbe possibile, se le cose non stessero così come si è sommariamente descritto, l’accettazione da parte di milioni di individui di lavori intermittenti, a chiamata, in coppia, con paghe di volta in volta più basse, in termini reali e nominali, e a condizioni di lavoro sempre più stringenti? Sarebbe possibile quanto sta accadendo oggi, nella nostra società, agli orfani della vecchia classe operaia e ai ceti medi penalizzati dalla tirannide finanziaria, in presenza di un’estesa e persistente solidarietà classistico-comunitaria, che può estrinsecarsi in forme di resistenza diffusa, dando luogo ad autentici prodromi rivoluzionari?
Ma i dominati, pur nella relativa passività del momento e nella temporanea assenza di un diffuso antagonismo classista, non partecipano mai interamente alla loro dominazione, come invece credeva Bordieu, in quanto esistono pur sempre un uomo solidale e non mercantile nelle microcomunità o in determinati circuiti sociali e un uomo competitivo e partecipe attivo o passivo della circolazione capitalistica nella propria dimensione sociale più generale [Lorenzo Dorato, Oppressione e dissoluzione, Comunismo e Comunità, n. 2, settembre 2008].
Ci sono nell’uomo bisogni profondi, come quelli relazionali e identitari testimoniati dalla persistenza della solidarietà comunitaria, espressi in microcircuiti e fuori delle logiche liberoscambiste, che nessun dispositivo simbolico, per quanto invasivo ed efficiente come quello applicato dalle attuali élite, può dominare completamente, inducendo il soggetto ad un pieno “misconoscimento”. I sofisticati dispositivi di dominazione innescati dalla Global Class non sono certo perfetti ed inattaccabili, non hanno ancora debellato tutte le resistenze, ed è per questo che il processo di flessibilizzazione di massa, realizzato in primo luogo attraverso la svalorizzazione e la precarizzazione del lavoro, è destinato a continuare ancora a lungo.
L’autorità non è stata completamente sostituita dalla pubblicità, intesa quale veicolo ampiamente utilizzato per la “simbolizzazione del conflitto di classe”, poiché si estrinseca ancora, in certe circostanze, attraverso le forme più tradizionali, mettendo in campo i vecchi apparati repressivi [forze di polizia, carabinieri, altri corpi di uomini in armi] soprattutto in occasione delle proteste operaie, studentesche o dei cosiddetti marginali. Nel cupo novembre italiano del 2010, caratterizzato da espulsioni dal processo produttivo e cassa integrazione, il corteo dei lavoratori della Eaton di Massa, in Toscana, che difendevano il loro posto di lavoro davanti alla minaccia di un licenziamento collettivo, è stato brutalmente e senza motivo caricato dalle cosiddette forze dell’ordine con una delle sempre più frequenti “cariche di alleggerimento”, cinquanta metri prima di raggiungere il casello autostradale e bloccarlo con un sit in.
E’ niente altro che l’ennesimo episodio di violenza fisica repressiva, il quale dimostra che quando riemergono, seppur parzialmente ed occasionalmente, coesione e solidarietà fra i subordinati – e quindi i “dispositivi simbolici” di dominazione non servono più, anzi, mostrano di aver fallito – si ricorre alla più tradizionale e brutale repressione, facendo passare quello che è un problema etico-sociale per una mera questione di ordine pubblico. Nelle circostanze come quelle ricordate, che sempre più spesso si verificano con il procedere di una crisi “globale” ormai endemica, l’invasiva pubblicità quale strumento per l’esercizio del potere non può che cedere il passo alle botte e alle manganellate, somministrate senza risparmio, rivelando così il vero volto e la vera funzione del “migliore dei sistemi possibili”, cioè la liberaldemocrazia occidentale.
Le violenze della forza pubblica nei confronti di manifestanti generalmente pacifici, come nel caso degli operai della Eaton, dimostrano che quando si arriva alla resa dei conti alla seduzione si sostituisce repentinamente la repressione, frangendo gli specchi e mettendo a nudo senza più mediazioni la sostanza di questo potere. Osservando la realtà di una protesta sociale che sembra rianimarsi, si può affermare che al meccanismo pubblicità-consumo di massa sempre operante si affiancano, almeno temporaneamente, le “frustate” inferte agli schiavi per contenerne le rivendicazioni e sedare le ribellioni, esattamente come accadeva nel mondo antico.
E’ fuor di dubbio che lo strumento pubblicitario è utilizzato per disintegrare gli originari mondi culturali e la stessa cultura di classe dei subalterni, disintegrando e rendendo individualmente inoffensivi per il potere, alla fine, loro stessi, e Zygmunt Bauman qualche ragione c’è l’ha, nel connotare la vita attuale, segnata in profondità dai meccanismi dal consumo di massa, quale una “Vita Liquida” contrapposta alle solide identità del passato, ma non può essere certo tutto qui. La stessa precarizzazione del lavoro, che funesta da almeno un ventennio i paesi ricchi del nord e dell’occidente del mondo, è uno strumento di dominazione irrinunciabile, come lo è, su scala molto ampia, la finanza creativa e speculativa. Dietro lo specchio di questa realtà, che riflette delle immagini superficialmente piacevoli ed allettanti – ipermercati stracolmi di beni, pubblicità capziose, prodotti strabilianti ad alta tecnologia nel campo delle telecomunicazioni, automobili superaccessoriate, e molto d’altro – la lotta di classe, per opera dei dominanti globali e in nome e per conto del capitalismo contemporaneo, continua in forme molteplici e in un modo sempre più radicale.
La “specie” Homo Consumens, analizzata in profondità da Bauman e da tanti altri quale sciame di consumatori voraci o di tipi umani prevalenti nelle società occidentali, tende a riconoscersi sempre più spesso e ad individualizzarsi radicalmente nell’Homo Precarius, e alla coppia Produzione-Consumo tende a sostituirsi per moltissimi la coppia – apparentemente contraddittoria, se posta in rapporto con la prima – Precarietà-Esclusione. Ciò non rappresenta un “baco” nel sistema, una sorta di incapacità di sviluppare le forze produttive da attribuire al nuovo capitalismo, preconizzando su questa base e in modo automatico la sua fine, ma semplicemente il riflesso sociale di un dominio incontrastato del paradigma della Creazione del Valore, che “razionalizza” a suo modo il fattore lavoro – non più variabile indipendente dal punto di vista economico e da trattare quindi come tutti gli altri fattori produttivi – sostituendo quando serve e dove serve l’Esclusione all’Integrazione, senza dover più porsi fastidiosi problemi etico-sociali e di stabilità sistemica.
Lo stesso orizzonte futuro, d’altra parte, ci appare interamente sussunto alla nuova riproduzione capitalistica, che non incontra ostacoli di rilievo e non deve più misurarsi con modelli alternativi. Presi in un circolo vizioso, che è funzionale alla riproduzione strategica della totalità sociale nell’Evo del Capitale Transgenico Finanziarizzato, prigionieri di quella che ci appare sempre di più come una empasse storica e politica, altro non ci rimane se non contrapporre con forza al lavoro capitalistico – che oggi significa estraniazione, svalorizzazione e precarietà, con la minaccia incombente dell’esclusione – il lavoro collettivo comunistico-comunitario, fondato su eguaglianza e solidarietà, dalla cui diffusione potrà concretamente e spontaneamente germogliare un General Intellect postcapitalistico e postmarxiano.
D’altro canto, se nessuna produzione biopolitica delle moltitudini è in atto e di conseguenza non ci può essere un oscuro biopotere che ha sostituito le vecchie forme di dominio – come invece ci hanno raccontato Foucault, Guattari e Negri – la nuova Pauper Class capitalistica in via di formazione deve fare i conti, qui e adesso, con la svalorizzazione progressiva del lavoro e la precarizzazione dell’intera vicenda esistenziale, imposte da una riconoscibile Classe dominante Globale. Il lavoro mantiene la sua centralità, nella realtà quotidiana come nelle lotte per l’emancipazione o nelle resistenze alle dinamiche capitalistiche, e come tale può diventare un “cavallo di troia” per superare le difese del Nemico. Metaforicamente, oltre le mura che cingono la sua munita cittadella, apparentemente imprendibile, ci siamo tutti noi, ed ogni giorno entriamo per servirlo con il nostro lavoro.
In assenza di questo lavoro, se non ci fosse la cooperazione fra i subalterni, sia pur ricondotta entro gli schemi capitalistici e assoggettata ad un comando esterno, senza l’apprendimento delle tecniche e lo sviluppo delle abilità umane, non avrebbe neppure senso parlare di “finanza creativa”, di produzioni immateriali e intellettuali, di multimedialità, di biotecnologie, di terziari avanzati o avanzatissimi, semplicemente perché non potrebbero esistere. Non esiste una fabbrica completamente automatizzata, senza operai e senza tecnici, se non in qualche racconto di fantascienza, in cui improbabili chip di ultima generazione sostituiscono integralmente l’opera dell’uomo e il suo sforzo collettivo. Le sole macchine non possono “creare valore per l’azionista”, alimentando il nuovo sfruttamento, e se mancasse la cooperazione umana nel lavoro non ci sarebbe neppure la Borsa.
Ed allora, come ha scritto il filosofo Costanzo Preve, da tutti riconosciuto quale padre del Comunismo Comunitario in Italia:
Rimettere il comunismo sui piedi significa sempre e comunque rimetterlo sui suoi piedi comunitari. Se in futuro la distruzione delle oligarchie mercantili che oggi dominano il pianeta, la classe dominante più abbietta dell’intera storia dell’umanità (e sono perfettamente consapevole della apparente “enormità” estremistica che sto dicendo), darà luogo ad un modo di produzione alternativo migliore, non si tratterà certo di un generico “comunismo” (che c’è già stato, ed ha fallito), ma di un nuovo modo di produzione comunitario edificato consapevolmente su basi nuove, che si tratta di esplicitare con chiarezza. (Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi).
Il comunismo è qui inteso come un ideale eterno, che non si è spento con il collasso sovietico, non si è dissolto con la fine dei partiti comunisti europei, non è scomparso con la conversione delle élite cinesi al capitalismo mercatista globale, e non è esaurito dal pensiero e dall’opera, pur ponderosa e importante, di Karl Marx. E’ vero che le alternative sconfitte non possono essere riproposte se prima non si provvede a ripensarle e ad emendarle, ed è altrettanto vero che in questa società frammentata, relativista e nichilistica, il deserto può crescere facilmente in ciascuno di noi, ma è nei sogni rivoluzionari e antagonisti, sopravvissuti alla “normalizzazione” simbolica di questo capitalismo, che si ricompongono con fatica i frammenti della lotta di classe, ed è in loro che nascono le visioni di un altro futuro possibile e di una società diversa.