Senza inizio né fine

ago 2nd, 2013 | Di | Categoria: Teoria e critica

 Monoteismo del mercato e metafisica dell’illimitatezza

 di Diego Fusaro

 

«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E in larga misura questo cambiamento avviene senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi».
(G. Anders, L’uomo è antiquato)

 

1. Vertigini della ragione

È un abisso quello che si spalanca per ogni ragione che provi a concettualizzare le due immagini in correlazione essenziale dell’inizio e della fine, ponendo sotto scacco ogni tentativo filosofico volto ad afferrarne o anche solo a circoscriverne il significato. L’ha mostrato, tra gli altri, Immanuel Kant nel suo crepuscolare Das Ende aller Dinge (1794), sottolineando come, al cospetto dell’immagine della fine – ma si potrebbe far rientrare nella stessa tipologia quella dell’inizio – l’intelletto umano giri inevitabilmente a vuoto, impossibilitato, situato com’è nella temporalità, a fare presa su una dimensione che propriamente ne sta fuori. Ogni tentativo di ricondurre alla sfera temporale ciò che la trascende completamente – spiega Kant – «ci conduce sull’orlo di un abisso da cui non è possibile alcun ritorno per colui che vi precipitasse» (Kant 1794, p. 8): ogni pensiero si arresta, travolto da aporie e contraddizioni che non è strutturalmente in grado di superare, costringendoci alla vertigine di un abisso.

Prima del filosofo di Königsberg era già stato il Fedone platonico, sia pure in altro contesto, ad adombrare l’aporeticità del pensiero dell’inizio e della fine. Storia di una morte (quella di Socrate) e, insieme, di una nascita (della metafisica occidentale)[1], il Fedone ci insegna che il dialogo filosofico non deve arrestarsi neppure dinanzi a quella “fine di tutte le cose” che è la nostra morte: «forse è opportuno, specialmente per chi sta per andarsene all’altro mondo, indagare e raccontare delle storie su questo viaggio, su come ci immaginiamo che esso sia» (Fedone, 61 d-e). Di fronte all’abisso della morte e al rischio di precipitare nel silenzio o nell’urlo disperato, anche la parola non rigorosa del mito ha diritto di cittadinanza, perché può soccorrerci nel tentativo di rappresentare la dimensione che più resiste all’intellettualismo e che genera quella situazione emotiva che è Platone stesso a definire come «misologia» (Fedone, 89 d). È per questo che, come recentemente ha ricordato Andrea Tagliapietra[2], per pensare l’inizio e la fine le immagini risultano più efficaci di ogni ragionamento rigorosamente filosofico, pur non riuscendo neppure esse a esprimerli in forma compiuta: «l’immagine, infatti, possiede una potenza archetipica che la parola, custode tuttavia di altre virtù (e soprattutto di quell’istanza ‘critica’ e differenziale che ci consente il disincantamento dalla prepotenza stessa delle immagini), non arriva mai a possedere» (Tagliapietra 2010, p. 18).

Alla luce di questi primi rilievi impressionistici, si potrebbe sostenere che l’inizio e la fine, con il lessico della terza Kritik kantiana, sono sublimi, perché affascinano e, insieme, spaventano il soggetto che prova a raffigurarseli e che, per ciò stesso, avverte l’immane potenza espressiva in essi racchiusa, quella potenza che, si diceva, conduce la ragione sull’orlo dell’abisso. Situazione tanto più paradossale, se si considera che l’uomo non può pensare in forma compiuta l’inizio e la fine e, insieme, in modo del tutto aporetico, non può non pensarli, essendo il solo ente – come ricordava Heidegger[3] – la cui vita scorre nella coscienza sempre viva della propria morte (Sein-zum-Tode) e, per ciò stesso, della propria origine, quella «gettatezza» (Geworfenheit) che, libera da ogni determinazione causale, pone in essere la novità che ciascuno di noi è. Da una diversa angolatura, l’uomo non può che pensare la propria esistenza e la propria storia se non nella dimensione della finitudine, ossia del segmento necessariamente limitato compreso tra un inizio e una fine che continuano a sfuggire alla presa della ragione e che, non di meno, possono ricevere un significato tramite il tratto di vita vissuta che li unisce.

E tuttavia sarebbe fuorviante dimenticare, o anche solo sottovalutare, come le difficoltà per ogni pensiero che aspiri ad afferrare il senso e l’espressività dell’inizio e della fine nell’attuale congiuntura siano, oltre che strutturali, storicamente determinate. Più precisamente, sono connesse con l’attuale quadro socio-politico di un mondo che ha rimosso l’inizio e la fine tramite la soppressione della storicità, nella forma che altrove abbiamo qualificato con l’endiadi di eternizzazione del presente e desertificazione dell’avvenire[4]. Il sistema di produzione e di esistenza quale si è venuto configurando dopo il crollo del Muro di Berlino non soltanto ha cancellato ogni confine reale e immaginario che lo limitava entro più o meno precisi confini e si è imposto, a livello simbolico, come unica realtà possibile (con formula spinoziana, capitalismus sive natura), determinando l’inedito spettacolo di un’umanità che si guarda riflessa nello specchio del mondo totalitario della merce ed è così sempre più indotta a concepirlo come il solo possibile, in una totale desertificazione dell’immaginario; in modo complementare, ha anche rimosso la propria determinazione storica, contrabbandandosi, appunto, come senza inizio né fine, e dunque sub specie aeternitatis.

È in questo scenario che è venuto consolidandosi l’odierno abbandono della problematizzazione razionale – quale si ebbe con Platone, con Kant e con numerosi altri profili del canone occidentale – dell’inizio e della fine, ideologicamente scongiurata da un mondo storico che ha eletto l’illimitatezza a proprio orizzonte unico. Prova ne sono, tra l’altro, le due odierne aspirazioni antitetico-polari (e, dunque, segretamente coincidenti nella loro correlazione essenziale) dell’allungamento indefinito dell’esistenza oltre le sue barriere naturali e dell’eutanasia come libera somministrazione della morte (con il tacito presupposto che non sia degna di essere vissuta ogni esistenza non produttivamente all’altezza del cosmo mercatistico).

Può dunque essere utile soffermarsi sulle modalità in cui l’odierno mondo postmoderno stigmatizza variamente il pensiero dell’inizio e della fine, nel trionfo dell’ideologia della “fine della fine”, come se con l’inglorioso crollo dei comunismi – assunto come emblema del necessario fallimento di ogni tentativo di trascendere l’odierno sistema neoliberale – si chiudesse l’idea stessa di una possibile fine del capitalismo. È questa l’ideologia che si coagula nell’espressione end of history, in cui il presente viene tacitamente assunto come esito terminale delle trasformazioni che hanno ritmato la Weltgeschichte e, insieme, come illimitabile nella sua riproduzione sempre più rapida, in coerenza con l’obiettivo della valorizzazione del valore in nome del quale vengono sacrificate la vita umana e dell’ecosistema. Il paradosso risiede allora nel fatto che, proprio mentre persegue l’insensato progetto dell’illimitata produzione dettata dalla norma dell’insaziabile “voler-avere-di-più”, rimuovendo l’idea di fine, il sistema lavora alla sempre più rapida creazione della fine reale, nella duplice forma dell’estinzione della vita e del pianeta.


2. Sulla metafisica dell’illimitatezza

L’odierna feticizzazione del mercato nella forma di un vero e proprio monoteismo[5], in cui la volontà imperscrutabile del Dio trascendente viene sostituita da quella dei mercati ipostatizzati, si regge sul principio metafisico dell’illimitatezza, l’«exigence d’accumulation illimitée du capital» (Boltansky-Chiapello 1999, p. 37). Segreta teleologia del capitale fin dal suo momento genetico, l’illimitata produzione in vista del “cattivo infinito” del profitto raggiunge il suo più coerente e pieno sviluppo con il quadro storico schiusosi con il Sessantotto[6], momento di transizione verso l’odierna individualizzazione ultracapitalistica e postborghese, che – come suggerito da Costanzo Preve – ha rimpiazzato la vetusta forma autoritaria borghese con un fondamentalismo economico che, centrato sulla religione immanente della merce, non conosce più limiti morali e impedimenti etici al suo movimento di mercificazione universale.

Il potere flessibile e liquido del nuovo ordine del mondo è infatti caratterizzato dall’incondizionata liberalizzazione di ogni realtà, con annessa delegittimazione integrale del Super-Io, nella disintegrazione completa di ogni autorità, da quella paterna a quella religiosa, e perfino a quella del merito professionale: l’odierno sistema globalizzato si configura, allora, come la prima società della storia umana in cui regna sovrano il principio metafisico dell’assenza di ogni limite, e più precisamente il “cattivo infinito” della norma dell’accumulazione illimitata del capitale, del cupio dissolvi dell’accrescimento smisurato del profitto – a scapito della vita umana e del pianeta – e della legge del costante “voler-avere-di-più” che la produzione impone ai suoi atomi sociali, nel trionfo di quello che Elias Canetti, nel suo capolavoro, definiva come il «moderno furore dell’accrescimento» (Canetti 1960, p. 566). Si tratta di un’inedita visione del mondo che si contrabbanda come asettica, laica, anodina e puramente economica, ma che è in realtà una posizione a elevato tasso ideologico e religioso, perché “vincola” (religat, secondo l’etimo originario della religio) tutti gli uomini del pianeta all’onnipotenza di un solo principio direttivo della totalità delle relazioni sociali feticizzate, il mercato appunto. Supporto ideale per l’universalizzazione della forma merce, il laicismo liberale diventa allora l’involucro ideologico per la globalizzazione, ridicolizzando la religione tradizionale in ogni sua forma e costringendola a giustificarsi al cospetto della ragione strumentale e del sapere scientifico, assolutizzati e assunti dogmaticamente come unica forma di conoscenza legittima.

Sia che lo si chiami kapitalistische Produktionsweise, secondo la definizione di Marx metabolizzata dai suoi eterodossi allievi del Novecento, sia che lo si etichetti come Technik, in accordo con il lessico di Heidegger[7] e dei suoi epigoni, l’odierno sistema globalizzato, nella sua anonima autoreferenzialità di un minaccioso Gestell che signoreggia gli uomini, presenta una dinamica di sviluppo illimitata e illimitabile: marxianamente, il Capitale persegue il telos del proprio incremento smisurato, proprio come, heideggerianamente, la Tecnica rincorre lo scopo del proprio irrelato e insensato autopotenziamento, in una cornice di mero nichilismo antiumanistico, in cui il mercato diventa il solo valore direttivo. Il mondo del capitale è, heideggerianamente, inautentico perché, marxianamente, alienato. Tale inautenticità alienante trova una delle sue molteplici espressioni in quella duplice rimozione dell’inizio e della fine che sono consustanziali al movimento di illimitata ri-produzione del capitale e della sua annessa dinamica di autoeternizzazione.

Tra il XV e il XVIII secolo il capitalismo “pone” se stesso affrancandosi dal mondo feudale e unificandosi nella graduale elaborazione di una teoria filosofica che lo “naturalizzi”, che cioè lo presenti ideologicamente senza inizio né fine, come un modo naturale di esistere e di produrre. Sul piano della produzione materiale, l’autoposizione del capitale avviene secondo le logiche dell’”accumulazione originaria” tratteggiate da Marx nel capitolo XXIV del primo libro di Das Kapital; sul piano della produzione intellettuale, l’autoposizione si realizza tramite la tematizzazione di una morale individualistica e anticomunitaria e tramite la rimozione della genesi storicamente determinata del nuovo sistema. Il mondo del mercato, rappresentato come increato e immutabilmente eterno, secerne un pensiero anch’esso raffigurato come privo di genesi. Si comprende così in che senso e secondo quali presupposti quello capitalistico, nella sua fase iniziale, sia un pensiero “naturalistico”, la cui astrazione reale si fonda sulla destoricizzazione e sulla desocializzazione del soggetto (da Cartesio a Kant), della comunità (Hobbes), della proprietà privata (Locke), della natura umana (Hume), della produzione e dello scambio (Adam Smith): la naturalizzazione tramite astrazione è, appunto, la falsa coscienza necessaria del suo modo di nascondere la sua storicità e, dunque, il duplice principio dell’inizio e della fine.

Viene così prendendo forma, anche sul piano della legittimazione teorica, la prima società della storia umana in cui, come si diceva, l’illimitatezza è assunta come principio normativo fondamentale, nella forma del “cattivo infinito” dell’accumulazione illimitata del capitale e dell’auri sacra fames. È il rovesciamento dell’esorcizzazione precapitalistica – soprattutto ad opera della cultura greca della “misura” (metron) e del “limite” (peras) – dell’illimitatezza e, con essa, della “crematistica” come ricerca dell’arricchimento senza limiti (esorcizzazione che traspare inequivocabilmente dalle antiche massime metron ariston, medèn àagan, e molte altre ancora)[8].

Ne nasce una metafisica dell’illimitatezza alla cui luce si possono leggere la passione moderna per l’infinito in ogni sua forma e la stessa spinta che porta alla transizione “dal mondo chiuso all’universo infinito” delineata da Koyré: l’uomo copernicano, la conoscenza infinita, l’illimitata perfectibilité dell’uomo, ecc., vanno a formare un’unica costellazione teorica centrata sull’illimitatezza di una produzione affrancata da ogni metron e, dunque, da quel particolare ente finito-limitato che è l’uomo.

Centrato sulla rimozione ideologica dell’inizio e della fine, il nuovo mondo, si diceva, costituisce il rovesciamento dell’orizzonte greco del metron, in cui la produzione era orientata alla ri-produzione della società nel suo complesso, e dunque alla sua conservazione qua talis: in un’ottica pienamente umanistica, l’uomo, e soltanto esso (sia pure in una forma limita ed elitaria che escludeva dal “concetto” schiavi, donne e bambini, facendo dunque valere un umanismo ristretto perché non ancora universale), rappresentava il telos della produzione, in un quadro storico in cui le stesse divinità olimpiche erano intese come uomini perfettamente riusciti. Di conseguenza, come si sostiene nel primo libro di Das Kapital, la forma dello scambio nelle società precapitalistiche era esprimibile con la formula “M-D-M”: in tali società «la circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione di valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni» (Marx 1867, p. 185), nella cornice del metron.

Con l’avvento della modernità capitalistica l’obiettivo cessa di essere la riproduzione della società in quanto tale e la soddisfazione dei bisogni umani e diventa il “cattivo infinito” dell’arricchimento, la crescita in costante aumento del capitale, la Verwertung des Werts resa possibile da una sostituzione dei bisogni umani finiti con un proliferare incontrollato e caotico di desideri illimitati, funzionali alla metafisica dell’illimitatezza posta in essere dal nuovo sistema.

La formula in cui si compendiava la struttura delle società premoderne – “M-D-M” – viene sostituita dal nuovo paradigma “D-M-DI”, in cui DI è maggiore rispetto a D. Lo scopo della produzione diventa il guadagno fine a se stesso, innestato sui desideri illimitati e inesauribili di cui si sostanzia il mondo capitalistico: «la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura (die Bewegung des Kapitals ist daher maßlos)» (Marx 1867, p. 185). La nuova forma produttiva compendiata dalla formula “D-M-DI” (a cui seguiranno un DII, un DIII, un DIV sempre maggiori, e così via all’infinito) è la cifra della nuova metafisica dell’illimitatezza e del “cattivo infinito” su cui viene costituendosi la modernità capitalistica. In ciò risiede, per inciso, la scoperta marxiana secondo cui il plusvalore, e dunque il movimento illimitato della valorizzazione, è la segreta teleologia del mondo moderno.

In una misura che eccede l’ambito strettamente economico a cui sembra confinarlo Marx, il metron deve allora essere inteso come la cifra espressiva della grecità in quanto tale, e dunque come un concetto che fa da sfondo e da sostegno a tutte le realizzazioni fiorite in terra greca. Si tratta di una determinazione che è, a un tempo, geometrica, sociale, politica, economica e religiosa e che, forse, potrebbe essere tratteggiata nei termini di una funzione sociale collettiva, che copre un’ampia gamma di espressioni culturali e di funzioni simboliche che spaziano dalla misurazione delle proporzioni geometriche intese in senso sociale (Pitagora) alla distinzione socio-politica tra crematistica ed economia (Aristotele), dalle riflessioni dei cosiddetti Presocratici sull’arché della fusis alle considerazioni di marca ontologica di Parmenide sull’eterna immutabilità dell’essere, dalle realizzazioni artistiche incardinate sull’ideale dell’armonia e della giusta proporzione delle parti alla condanna del pleonechtein come eccesso rispetto al giusto limite (Platone), dalla tragedia come dramma scaturente dal superamento dei limiti ad opera dei comportamenti inscritti nel registro della ubris (Eschilo, Sofocle ed Euripide) alla commedia come eccesso che induce irresistibilmente alla risata (Aristofane).

Tale funzione sociale collettiva trova nella finitudine e nella limitatezza ontologica dell’uomo come ente che ha un inizio e una fine il suo riferimento e testimonia della sua centralità nel mondo greco, come appare evidente se se si considera, con l’Hegel delle Vorlesungen über die Ästhetik, che le punizioni inflitte dagli dèi ai mortali si davano sempre nella forma dell’illimitatezza vissuta come supplizio: dall’infinito tentativo di Tantalo di estinguere la propria sete e di saziare la propria fame all’ininterrotto vorticare nel cielo della ruota infuocata di Tizio, da Sisifo con il suo macigno all’orribile supplizio di Prometeo, condannato in eterno a vedersi il fegato divorato dalle aquile. Tali punizioni, spiega Hegel, «sono la brama del dover-essere, lo smisurato, il cattivo infinito (schlechte Unendlichkeit). Il giusto senso divino ha considerato questo proceder-sempre-oltre (das Hinausgehen ins Weite und Unbestimmte), questa brama, come una dannazione e non vi ha visto affatto uno scopo supremo per l’uomo» (Hegel 1817-1829, p. 164).

In coerenza con questa visione del mondo, la saggezza greca ha stigmatizzato l’illimitato (a-peiron) in ogni sua forma, nella convinzione che la rimozione dei due poli dell’inizio e della fine portasse essa stessa alla fine con lo stesso movimento teorico con cui aspirava a neutralizzarla. È quanto ci insegna l’antico frammento di Anassimandro:


Principio degli esseri è l’infinito… di dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la dissoluzione secondo necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo (DK, 12 B 1).
Con l’alfa privativa di cui si compone, l’apeiron a cui allude Anassimandro rimanda all’idea di “assenza di limiti” e allude tanto all’infinitezza quanto all’illimitatezza, ossia a due orizzonti concettuali che sarebbe improprio e, al tempo stesso, riduttivo ricondurre alla dimensione meramente astronomico-naturalistica. L’infinitezza e l’illimitatezza sono infatti, anzitutto, determinazioni concettuali di ordine socio-politico, indisgiungibili da una riflessione sulla comunità e, nella fattispecie, sulla necessità di mantenerla a debita distanza dall’”indeterminatezza”, ossia dall’assenza di nomoi che ne determinino in modo rigoroso le proporzioni e i nessi, e dall’”illimitatezza”, vale a dire dalla illimitata brama di ricchezze.
Il frammento superstite di Anassimandro si caratterizza, dunque, per un movimento teorico di proiezione delle leggi del microcosmo sociale nella dimensione del macrocosmo naturale: l’illimitatezza, ossia la prevaricazione del metron, frantuma l’unità e l’ordine della “natura-del-tutto” (fusis tòn olon), comportando la “colpa” del trascendimento della giusta misura sociale e della disgregazione delle stabili strutture comunitarie della polis. Qualora l’opera di “conservazione” della giusta misura della comunità dovesse fallire, se ne dovrebbe necessariamente “pagare il fio” (diken didonai) tramite la dissoluzione della comunità stessa «secondo l’ordine del tempo». La rimozione del limite porta essa stessa alla fine di tutte le cose.

È, d’altro canto, lampante, nel frammento di Anassimandro, la sovrapposizione semantica del lessico naturalistico-fisico (arché, apeiron) con quello politico-giuridico (dike, adikia), con alcune delicate “zone di scambio” prospettate da concetti ambivalenti, a un tempo naturalistici e sociali, come quello di fthorà, che allude alla “corruzione” intesa sia, fisicamente, come dissoluzione dei corpi fisici sia, socialmente, come disgregazione della struttura comunitaria della polis. Da tale sovrapposizione semantica è lecito inferire che, nell’ottica anassimandrea, la stessa legge di compensazione che regola l’universo fisico ritma anche i rapporti tra gli uomini nella loro esistenza comunitaria[9]. Il principio dell’illimitatezza era demonizzato in ogni sua possibile manifestazione, in quanto in esso venivano ravvisate le tracce della possibile dissoluzione della comunità.

Da queste pur cursorie determinazioni dovrebbe emergere, per un verso, lo scarto tra la metafisica greca del finito e quella capitalistica dell’infinito e, per un altro verso, come il pensiero di Marx si configuri come un umanesimo[10], perché pone in relazione dialettica, nella dimensione storica schiusasi con il moderno, un ente finito (l’uomo), esistente in un ambiente anch’esso finito (la natura terrestre, con i suoi limiti ecologici e ambientali), con un processo illimitato e illimitabile, l’accumulazione capitalistica, il moderno apeiron di Anassimandro, che, se non sarà arrestato in tempo, costringerà il genere umano a diken didonai. Scrive Marx nel suo Hauptwerk[11]:


L’impulso alla tesaurizzazione è per natura senza misura. Il denaro è,
qualitativamente ossia secondo la sua forma senza limiti; cioè è rappresentante generale della ricchezza materiale, perché è immediatamente convertibile in ogni merce. Ma allo stesso tempo ogni somma reale di denaro è limitata quantitativamente, e quindi è anche soltanto mezzo d’acquisto di efficacia limitata. Questa contraddizione tra il limite quantitativo e l’illimitatezza qualitativa del denaro risospinge sempre il tesaurizzatore al lavoro di Sisifo dell’accumulazione. Al tesaurizzatore succede come al conquistatore del mondo: la conquista di un nuovo paese è solo la conquista di un nuovo confine (Marx 1867, p. 148).

Di qui la già ricordata conclusione che Marx trae dalla fatica sisifea della produzione: «quindi il movimento del capitale è senza misura (maßlos)» (Marx 1867, p. 185). Si tratta di un’espressione che trova un suo remoto precedente nella considerazione di Solone, secondo cui «limite alcuno di ricchezza non c’è né si scorge per gli uomini» (fr. 1 Diehl, 71). Il movimento smisurato dell’arricchimento, coessenziale al capitale, coincide con quella che Aristotele e il mondo greco stigmatizzano come “crematistica”, il potere che dissolve la comunità sacrificandola sull’altare della rimozione dell’inizio e della fine[12]. Lo Stagirita, del resto, intravede con sguardo critico le logiche totalizzanti della crematistica, il fatto che essa tende a saturare l’immaginario umano non meno della realtà socio-politica, facendo sì che gli uomini agiscano e pensino «nella convinzione che sia questo il fine e che a questo fine deve convergere ogni cosa» (Politica, I, 9, 1258 a 13-14)[13].

Più precisamente, la ricchezza inseguita dalla crematistica «non ha limiti rispetto al fine e il fine è precisamente la ricchezza di tal genere e l’acquisto dei beni» (Politica, I, 9, 1257 b 29-31). La conseguenza che Aristotele ne trae si inscrive a pieno titolo nell’orizzonte espressivo della cultura greca del metron: «appare necessario che ci sia un limite (peras) a ogni ricchezza» (Politica, I, 9,1257 b 32-33), per evitare il precipitare della comunità in quello che il Politico platonico chiama, con una splendida immagine, «il mare infinito della disuguaglianza» (Politico, 273 e).

La Politica di Aristotele ci permette di distinguere, in prospettiva, le due diverse concezioni dell’economia politica che innerveranno il moderno, riconducibili rispettivamente alla “cattiva crematistica” e all’arte di amministrare la casa (economia come nomos dell’oikos)[14]. La prima concezione si configura come il frutto di un’”autofondazione” dell’economia su se stessa e sulla base dell’attribuzione al mercato di una logica provvidenzialistica di tipo immanente: in accordo con questa concezione, il legame sociale incentrato sullo scambio mercatistico fa venire meno qualsiasi altro Assoluto, perché sfocia esso stesso nel monoteismo fatalistico del mercato e nella sua rimozione di ogni confine sia retrospettivamente (l’inizio), sia prospetticamente (la fine).

Opposta a questa prima concezione è la seconda: l’economia politica deve rispondere non alla condizione entropica del mercato feticizzato, ma al “sistema dei bisogni” sociali dell’uomo situato in comunità. Di conseguenza, deve configurarsi come una disciplina dipendente dalla politica. Quest’ultima deve informarla di sé e tenerla sempre a contatto con i reali bisogni della società, senza mai perdere di vista la finitudine umana come proprio obiettivo: sarà questa la prospettiva della «coscienza infelice» (Preve 2007, p. 100) di Fichte, Hegel e Marx e della loro reazione alla feticizzazione crematistica del mercato, reazione volta al ristabilimento di una prospettiva incardinata sul “giusto limite” e, per impiegare il lessico di Polanyi, sulla embeddedness dell’economico nel tessuto della società.

Questa dinamica di reazione alla metafisica dell’illimitatezza affonda le sue radici nell’evoluzione stessa del capitale: dopo la sua autoposizione tramite il movimento di naturalizzazione, a partire dal XVIII secolo comincia a prendere forma l’idea del possibile trascendimento del sistema capitalistico, ossia, appunto, la sua possibile fine e l’inizio di una realtà diversamente strutturata. La fase astratta (autoposizione del capitale) cede il passo alla fase dialettica, in cui la coscienza infelice borghese costituisce un’alleanza (ora virtuale, ora realmente operante) con le lotte del servo per il riconoscimento del proprio lavoro (le lotte di classe operaie), trovando nella dimensione del futuro il proprio telos ideale, nella duplice forma della fine del vecchio e dell’inizio del nuovo. La temporalità “futuro-centrica” su cui viene costituendosi il sistema nella sua fase dialettica è altamente instabile, perché, per un verso, è ricalcata sul cattivo infinito della crescita lineare-accelerata del valore (D-M-DI) nella speranza che domani esso sia maggiore rispetto a oggi e a ieri e, per un altro verso, si regge sulla tensione verso un futuro diverso e migliore, rivelandosi un prezioso strumento simbolico della “coscienza infelice borghese”, che prende a colonizzare l’avvenire con progetti di emancipazione e di superamento del capitalismo.

È in questa cornice storica che, come ha sottolineato Rorty, «con Hegel, gli intellettuali hanno iniziato a spostarsi dalla fantasia di un contatto con l’eterno a quella della costruzione di un futuro migliore» (Rorty 1995, p. 215). La filosofia comincia allora a essere concepita come il solo strumento adeguato per ricostituire la comunità sociale perduta o in fase di dissoluzione[15]. Più precisamente, la filosofia è “ricomposizione” (Wiedervereinigung) su nuove e più solide basi di una preventiva “scissione” (Trennung), dovuta al capovolgersi della virtù in regno animale dello spirito. Tale capovolgimento è causato dallo scatenamento del binomio letale costituito dal mercato e dal predominio dell’intelletto astratto, che tutto frammenta e scompone, rivelandosi in ciò funzionale alle logiche di destrutturazione dell’Intero e di atomizzazione sociale promosse, sul piano socio-politico, dal pensiero illuministico.

Si comprende in questa luce la differenza tra l’idealismo bimondano di tipo geometrico dei Greci, che pensa la comunità tramite la mediazione delle figure geometriche assunte come modelli perfetti e immutabili dell’equilibrio sociale (l’essere di Parmenide, i numeri di Pitagora, le idee platoniche, ecc.), intendendo la polis come «spazio politico geometrizzato» (Vernant 1965, pp. 85-127) dalla compresenza di metron e dike attuata grazie al logos, e l’idealismo monomondano di tipo storico di Fichte, Hegel e Marx, che intende la giusta sintesi sociale come risultato di un processo temporale che implica la mediazione del divenire-altro-da-sé imposta dall’alienazione.

Si tratta di un idealismo “monomondano”, secondo la formula di Lukács[16], in quanto si regge su una Weltgeschichte pensata con un solo concetto di tipo trascendentale-riflessivo, come teatro della trasformazione e dell’universalizzazione della libertà secondo l’ordine del tempo. Con le parole di Hegel, «la totalità è possibile nella più alta pienezza di vita solo quando si restaura procedendo dalla più alta divisione» (Hegel 1801, p. 14), ossia quando si agisce «per restaurare con le proprie forze l’uomo contro la disgregazione dell’epoca e per ristabilire quella totalità che il tempo ha lacerato» (Hegel 1801, p. 99), ripensando in modo nuovo la fine e l’inizio come possibilità di trascendimento dell’esistente e di restaurazione di un cosmo basato sul metron ma portato a un livello più alto perché mediato dal negativo. Come reazione alle dinamiche del capitale, il pensiero filosofico può allora porsi il problema della fine e dell’inizio, e più precisamente della fine del cosmo mercatistico e dell’inizio di una nuova comunità come momento di una più alta sintesi sociale che torni a incorporare l’economico nel tessuto sociale del mondo etico.

3. Ripensare la fine e un nuovo inizio

Per poter essere pienamente “corrispondente al proprio concetto” (begriffsmässig), il capitale deve transitare per il negativo della fase dialettica, superarlo e, in tal maniera, raggiungere – hegelianamente – una condizione “speculativa”, senza più opposizioni interne e contrasti di alcun tipo, saturando ogni poro dell’esistenza umana e paralizzando ogni istanza critica. Deve “naturalizzarsi”, ossia diventare a tal punto impalpabile e onnipervasivo da non dover nemmeno più essere nominato e individuato:  deve neutralizzare sul piano della temporalità il “futuro-centrismo” della fase dialettica, condizione essenziale per la progettabilità di un avvenire non capitalisticamente strutturato.

Se, nella fase astratta, dominava un tempo naturalizzato e non storico, funzionale alla destoricizzazione del sistema produttivo e alla rimozione simbolica dell’inizio e della fine, nella fase dialettica subentra invece una temporalità “futuro-centrica”, sospesa tra le logiche dell’illimitatezza del profitto e la programmazione di un avvenire non capitalistico. Infine, nella fase speculativa di cui siamo abitatori la destoricizzazione del modello astratto viene riproposta con ancora più forza perché passata per il “negativo” della fase dialettica: corrispondente al proprio Begriff, il capitalismo non aspira che a mantenersi tale in eterno, operando dunque, sul livello immaginativo, con un duplice e simmetrico movimento di eternizzazione del presente e di desertificazione dell’avvenire, in modo da scongiurare preventivamente l’eventualità di un futuro diverso.

Può così tornare ad affermarsi, trionfalmente, il modello del capitalismo “naturalistico” come solo-mondo-possibile perché “naturalmente” già da sempre dato: se nella fase astratta la storicità non poteva essere pensata, in quella speculativa viene demonizzata tramite la criminalizzazione incessante di ogni pensiero che osi programmare e perseguire futuri diversi. Anche in questo, d’altra parte, risiede uno dei tratti che fa della nostra società quella che Hölderlin avrebbe etichettato come una «dürftige Zeit» (Hölderlin 1801, II, pp. 114-115), in cui i crimini di Stalin e dei comunismi novecenteschi sono ideologicamente utilizzati in vista di un’integrale rilegittimazione del capitalismo, a prescindere dai crimini e dagli orrori di cui è esso stesso stato (e continua a essere) protagonista. Solo in questa cornice, inoltre, si spiega l’odierna egemonia della spazialità (globalizzata) sulla temporalità, su cui hanno insistito le analisi di David Harvey[17].

All’ontologia blochiana del “non-ancora”, in grado di far balenare l’immagine di futuri diversi e di orientare la prassi, si sostituisce un assolutismo mistico della realtà che presenta fatalisticamente il mondo-così-com’-è come un destino intrascendibile, annullando la stessa pensabilità di un avvenire diverso e reimponendo brutalmente la soppressione della pensabilità dell’inizio e della fine. Se dapprima il sistema aveva bisogno del futuro per potersi pensare come una realtà destinata a diventare globale, ora che ha guadagnato tale statuto può accontentarsi di un presente eternamente riprodotto a ritmi sempre più intensi, in coerenza con il movimento di accelerata valorizzazione del valore. Ne scaturisce quella condizione che altrove abbiamo indicato con l’endiadi di accelerazione senza futuro e di nichilismo della fretta e che costituisce, a suo modo, il coerente compimento dell’ideologia già smascherata da Marx, nel 1847, allorché rilevava che per l’economia politica «c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più» (Marx 1847, p. 103).

È nell’”orizzonte unico” della merce che il capitalismo diventa «speculativo» (Preve 2007, pp. 112-117), poiché – data la sua natura pienamente “totalitaria” e “assoluta” – vede ormai se stesso riflesso in ogni determinazione del reale. Ogni cellula della realtà è stata colonizzata dall’illimitata mercantilizzazione posta in essere dal fondamentalismo economico, nella transizione da un sistema dicotomico e conflittuale (dialettico-antitetico) a un capitalismo assoluto, monocratico, totalitario e imperiale. Ne è scaturita quella société du spectacle dipinta da Debord[18], in cui il valore d’uso delle merci tende a zero e quello di scambio all’infinito e le merci stesse, divenute soggetti autonomi, si “spettacolarizzano”, specchiandosi ovunque in se stesse e rivelando, eo ipso, che la “forma merce” è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Di qui il desolante paesaggio postmoderno di un mondo in cui ciascuno di noi ha venduto l’anima al capitale, accettando l’alienazione come propria perenne condizione esistenziale in cambio di vantaggi materiali.

In questo scenario, le sole immagini della fine permesse sono quelle sorvegliate panopticamente dall’industria culturale e dalla litania che essa continua a trasmettere in ogni sua prestazione (cinema, radio, tv, romanzi, ecc.): questa in cui viviamo è la realtà com’è, come sempre è stata, come deve essere e come sempre sarà. Così si spiega, allora, l’odierno trionfo del genere apocalittico nel cinema, che ha sostituito quello degli anni Sessanta e Settanta, ossessionato dalla presenza degli alieni e dalle loro invasioni (secondo il modo in cui l’industria culturale rappresentava il “pericolo comunista”): l’elemento ideologico risiede nell’addomesticamento del pensiero della fine tramite la sua fruizione innocua («apocalisse con spettatore», si potrebbe dire parafrasando Blumenberg), in forza della quale si assiste alla fine di tutte le cose e, al tempo stesso, si è sempre comodamente seduti sulla poltrona del mondo mercatistico contrabbandato come senza inizio né fine (tutto può finire, ma non il mercato!).

Da questa “spettacolarizzazione derealizzante”, come potremmo chiamarla unendo fecondamente Baudrillard e Debord, emerge inoltre nitidamente un altro tratto caratterizzante del nostro tempo: se la modernità, vuoi anche in forza del processo di secolarizzazione che alcuni interpreti hanno creduto di scorgervi, era abituata a pensare la salvezza collettiva nonostante la fine individuale (è questo il tratto comune dell’universalismo illuministico, idealistico e marxista), l’odierna età postmetafisica ha rovesciato il nesso, scegliendo la salvezza individuale nonostante la catastrofe collettiva: come sottolineato da Beck, «il modo in cui si vive si trasforma in una soluzione biografica a contraddizioni sistemiche» (Beck 1986, p. 197).

La rinuncia alle utopie sociali di trasformazione si reincarna così nell’individualismo cinico del “si salvi chi può” (mors tua, vita mea)[19], che si accontenta di volgere il più possibile lo stato di cose a proprio favore e che può essere compendiato nel rassegnato motto del Candide: il faut cultiver notre jardin. La figura che meglio esprime il capovolgimento dialettico del progetto universalistico di emancipazione in quell’universalismo cinico degli egoismi chiamato “globalizzazione” è l’”ultimo uomo” nietzscheano: egli è nichilisticamente consapevole del fatto che Dio è morto e che, per ciò, tutto è possibile per il singolo individuo disincantato nella “gabbia d’acciaio” di quella Tecnica planetaria che – come l’industria culturale non si stanca di ripetere – è la sola realtà che, non avendo avuto un inizio, non potrà neppure avere una fine. E questo mentre la logica illogica dell’illimitatezza sta conducendo sempre più rapidamente a quella fine di tutte le cose che essa stessa rende difficile pensare e contrastare, costringendoci a vivere in quella forma precaria che Günther Anders definiva «esserci-ancora-appena» (Anders 1956-1961, I, p. 50).

È in questa cornice che siamo oggi chiamati a pensare e ad agire noi ergastolani del presente, ripensando la fine del mondo-così-com’-è e il possibile inizio di un futuro diverso,  “defatalizzando” la morfologia dell’esistente, smascherando l’odierna ideologia dell’immodificabilità del mondo e agendo in vista della trasformazione dello stato di cose, affinché si dia una fine dell’esistente che non coincida con la fine di tutte le cose; è questa la sola via possibile «per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi» (Anders 1956-1961, I, p. 1).

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Note

[1] Cfr. Tagliapietra 1997, pp. 236-237.

[2] Cfr. Id. 2010, pp. 35 ss.

[3] Cfr. Heidegger 1927, p. 315: «la morte, come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile. La morte, come fine dell’Esserci, è nell’essere di questo ente, in quanto esso è-per-la-fine».

[4] Ci permettiamo di rinviare al nostro Fusaro 2010, pp. 288-364.

[5] Cfr. Garaudy 1994, p. 13.

[6] Sul Sessantotto come mito di fondazione del capitalismo assoluto-totalitario, e dunque come un momento interno alla logica dialettica del capitalismo stesso, di cui costituisce il decisivo punto di passaggio verso l’odierna “individualizzazione antiborghese e ultracapitalistica”, si veda Preve 1998.

[7] Cfr. Heidegger 1953, pp. 63 ss.

[8] Una lettura del mondo greco attenta alla centralità del metron come determinazione metafisica si trova nei seguenti autori: Vernant 1965; Capizzi 1982; Mondolfo 1958, Thomson 1955; Preve 2006; Grecchi 2007.

[9] Come ha rilevato Jaeger in riferimento al pensiero di Anassimandro, «dalla vita sociale della polis egli trasferì il concetto di dike nella natura, e spiegò il nesso causale del divenire e del perire delle cose come una contesa giudiziaria, nella quale esse debbono tributarsi reciprocamente ammenda e risarcimento per la propria ingiustizia secondo la sentenza del tempo» (Jaeger, 1934-1947, p. 214).

[10] Su questo punto, si veda l’ormai classico Mondolfo 1968.

[11] Su Marx allievo dei Greci, cfr. Preve-Grecchi 2005. Rimandiamo anche al nostro Fusaro 2007.

[12] Si veda Venturi Ferriolo 1983.

[13] I beni impiegati per lo scambio e non per il loro “valore d’uso” non rispondono, appunto, all’uso proprio, e dunque non vengono usati secondo la loro natura. Per chiarire la differenza che intercorre tra le due determinazioni del valore di ogni realtà, e in che senso una sia secondo natura e l’altra contro, Aristotele adduce un esempio tratto dalla vita di ogni giorno: «ogni oggetto di proprietà ha due usi: tutt’e due appartengono all’oggetto per sé, ma non allo stesso modo per sé: l’uno è proprio (oikeia), l’altro non è proprio dell’oggetto: ad es. la scarpa può usarsi come calzatura e come mezzo di scambio. Entrambi sono modi di usare la scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in cambio di denaro o di cibo, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio (tèn oikeian chresin), perché la scarpa non è fatta per lo scambio» (Aristotele, Politica, I, 9, 1257 a 7-14, p. 18).

[14] Cfr. Polanyi 1957.

[15] Questo punto è stato adombrato da Heine 1980.

[16] Cfr. Lukács 1972.

[17] Cfr. Harvey 1990, pp. 296 ss.

[18] Cfr. Debord 1967.

[19] Cfr. Sloterdijk 1983, pp. 35 ss.

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  1. Sostanzialmente d’accordo, pur avendo letto da sociologo piuttosto che da filosofo, ma a questo punto si apre un problema, tutto nostro naturalmente. Perché, nonostante l’ostilità di numerosi intellettuali (da Marx fino a Bauman passando per Adorno e comprendendo lo stesso Weber – cfr. La scienza come professione) e le sfide che la storia gli ha posto, il mercato ha vinto la sua guerra, conquistando menti e cuori fino all’angolo più remoto di questo piccolo pianeta?
    Per rispondere non basta mettere in campo i limiti degli sfidanti, in particolare i limiti del comunismo storico, che pure sono evidenti. Non basta perché i limiti dell’ordine sociale a base mercatistica sono apparsi, tanto nell’otto quanto e più nel novecento, altrettanto evidenti (due stragi planetarie, una crisi economica e sociale devastante, la “soluzione finale”, l’uso criminale, irresponsabile e inutile della potenza dell’atomo su due città inermi, i massacri vietnamiti e iracheni …), eppure non hanno avuto, né hanno, la minima influenza sul consenso di massa attribuito al mercato. E allora credo si debba cercare altrove.
    Ogni ordine sociale è stabile nella misura in cui contiene e mantiene (anche se non contemporaneamente e non per tutti) una promessa capace di suscitare un sogno e spingere all’azione. La promessa dell’ordine mercatistico è semplice: tu, individuo, tu, atomo sociale, tu, un nulla perduto nel mondo, puoi vivere meglio il tempo che ti è dato. Puoi avere più di quanto avevi e più di quanto hai, purché consideri gli altri individui semplicemente come mezzo e mai come fine del tuo agire. Su questo nucleo s’innestano due fondamentali corollari.
    Il primo: non ci sono limiti, fisici o culturali, né al tuo desiderio né alle tue possibilità di possedere. Non li prevede la teoria economica, non li prevede la filosofia post-metafisica, non li prevede la scienza. Per quanto tu abbia, ti mancherà sempre qualcosa, e chi la possiede è più felice di te. Raggiungi quel livello, se ci riesci, e poi continua, perché la scala è infinita e del resto, complice la tecnologia, le cose da desiderare si moltiplicano. All’infinito, appunto.
    Il secondo: la promessa del mercato non vale per l’aldilà, come nelle religioni (non qui e non ora), e neppure per il futuro, come nel comunismo (non ora ma qui). Vale QUI e ORA, purché tu abbia, o acquisisca, una sufficiente capacità di spesa. Una chiesa o una sezione di partito dispensano solo illusioni, un centro commerciale dispensa COSE; meglio se inutili, comunque affascinanti.
    In una simile prospettiva, per qualsiasi sfidante non c’è partita, e l’eterna Rossella O’Hara che vive dentro ciascun atomo sociale non avrà mai il minimo dubbio sulle proprie scelte di vita.
    Che il problema riguardi la natura umana, che forse solo il capitalismo riesce ad esprimere compiutamente?
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