Lotta di classe, lotte di classe

mag 9th, 2013 | Di | Categoria: Dibattito Politico, Interviste

 

B. Settis e S. Taccola intervistano Domenico Losurdo

LosurdoAbbiamo incontrato Domenico Losurdo nell’occasione della presentazione a Pisa del suo libro La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza 2013. Docente a Urbino di storia della filosofia e del pensiero politico, vicino all’area del Partito dei Comunisti Italiani ed alla tradizione marxista-leninista, Losurdo si è fatto conoscere nel mondo con le opere che hanno presentato documentatissime “controstorie” dell’ideologia dominante. Qui infatti Losurdo prende di mira le agiografie salottiere di Habermas e Dahrendorf e cerca le radici della lotta di classe nel pensiero di Hegel e Marx – e, quel che abbiamo voluto discutere, il suo futuro nel grande scontro geopolitico globale che oppone il gigante cinese all’impero americano.

Ormai da più parti c’è stato un “ritorno a Marx” da tutti più o meno conclamato. Anche lei nel suo libro sottolinea questo fenomeno e scrive: “ai nostri giorni i magnati del capitale e della finanza si sentono costretti talvolta a rileggersi Marx, di prima o di seconda mano” (p. 362). In effetti il numero di intellettuali, filosofi, sociologi sedicenti marxisti , alcuni dei quali discretamente popolari (come Zizek), sta progressivamente aumentando. Recentemente, addirittura sul Time si è potuto leggere un articolo che parla della vendetta di Marx e del ritorno della lotta di classe. Scavando un po’ più a fondo, però, questo ritorno a Marx appare un po’ confuso: non tutti pongono la stessa attenzione sugli stessi concetti; alcuni, ad es., arrivano a definirsi marxisti semplicemente perché attribuiscono nel nostro mondo un ruolo determinante, oltre che dominante, all’economia. Come bisogna considerare allora questa ripresa di Marx? Come un orizzonte fruttuoso che permette l’apertura di interessanti prospettive filosofiche e politiche, oppure come una prosecuzione di quella sterilizzazione del marxismo che Lukàcs denunciava nella sua Ontologia dell’essere sociale?

L’interesse per Marx si comprende molto bene. Dinanzi ad una crisi economica che infuria non sono molti gli autori che possono spiegare questa crisi. Anzi, per diverso tempo nel mondo capitalista si era detto anche che era stata superata anche l’analisi marxiana della crisi e che ormai il capitalismo era immunizzato dal fenomeno della crisi indagato da Marx. Non c’è dubbio che ci sono i tentativi di sterilizzazione di Marx, però ci troviamo in una situazione diversa rispetto a quella analizzata da Lukàcs, nel senso che nei tempi in cui parlava Lukàcs bene o male c’era una cultura marxista abbastanza ampia e diffusa, oggi invece no. Allora io credo di poter dire che, per un verso, questo interesse per Marx è senza dubbio positivo.

E dunque, alla luce di questo contesto culturale e di quello politico internazionale e nazionale (qui in Italia, ad es., la recente ed ennesima sconfitta della sinistra comunista), quale sarebbe la centralità e il ruolo della lotta di classe?

Potremmo prendere le mosse da Habermas (che nel mio libro è criticato). Habermas negli anni ottanta diceva che la lotta di classe di cui parla di cui parla Marx è superata, e che questa ha cominciato a declinare a partire dal 1945 perché ormai si stava affermando lo stato sociale, sia con governi socialdemocratici che con governi conservatori. Oggi, invece, tutti possono vedere che lo stato sociale viene smantellato ad opera sia di governi conservatori che di governi socialdemocratici. Però, indipendentemente da questo, la tesi di Habermas è sbagliata già nel momento in cui veniva formulata. Nel 1945, infatti, era appena finita la Seconda Guerra Mondiale con la sconfitta del tentativo hitleriano di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale edificando le Indie tedesche in Europa Orientale (così si esprimeva Hitler); nel 1949 c’è a vittoria della rivoluzione cinese, a partire dalla quale c’è uno sviluppo del  movimento rivoluzionario anti-colonialista su scala planetaria; questo movimento rivoluzionario si manifestava con modalità diverse negli stessi USA, perché non si può separare la lotta di emancipazione degli afroamericani dalla lotta di emancipazione dei popoli coloniali nel suo complesso. In Habermas allora ci sono due errori di fondo: per un verso egli analizzava molto male la situazione del suo tempo e non vedeva le gigantesche lotte di classe che si stavano sviluppando a partire dal 1945 (lo stesso stato sociale che si affermava a partire da quell’anno era il risultato di una gigantesca lotta di classe e del conseguente prestigio dei partiti comunisti); d’altro canto egli non conosceva assolutamente la teoria marxiana della lotta di classe. Nel libro ho cercato di spiegare che la teoria marxiana della lotta di classe è una teoria generale del conflitto, una cosa che dovrebbe essere immediatamente evidente. Come si fa a ridurre in Marx la lotta di classe al conflitto tra capitale e lavoro? Questo è certamente un aspetto; ma quando Marx dichiara che la barbarie della società borghese si rivela in tutta la sua repellenza soprattutto nelle colonie, è evidente che dobbiamo considerare come lotta di classe emancipatrice anche la lotta dei popoli coloniali per scuotersi di dosso la schiavitù. D’altro canto, Engels in particolare parla anche dell’oppressione della donna come prima forma della lotta di classe. E quindi è chiaro che in Marx la lotta di classe è tutto ciò che ha a che fare con le lotte per la divisione del lavoro. Ecco questo Habermas non l’ha capito, ma, secondo me, non lo capisce larga parte della cultura di sinistra odierna, compresa quella che va per la maggiore. Nel libro, ad esempio, io critico Zizek perché contrappone la lotta anti-capitalista alla lotta anti-imperialista e perchè denuncia una certa sinistra che, a suo parere, invece di concentrarsi solamente sulla prima forma di lotta perde tempo, in qualche modo, anche con nella seconda. Anche in questo caso, secondo me, vediamo un’incomprensione sia della teoria di Marx che del mondo contemporaneo. Incomprensione di Marx perchè basta dare uno sguardo alle opere complete di Marx ed Engels per accorgersi dell’ampio spazio dedicato alla lotta di emancipazione del popolo irlandese dal popolo polacco (per non parlare, poi, dei popoli coloniali). Ma, come ho detto, c’è anche un’incomprensione della situazione della società del nostro tempo. Già Mao negli anni trenta in Cina parlava di “identità di lotta di classe e di lotta nazionale”. Una formulazione questa, a mio parere, molto felice: nel momento in cui l’imperialismo giapponese, invadendo la Cina, cercava di schiavizzare non una singola classe della società cinese, ma il popolo cinese nel suo complesso, è evidente che la lotta di classe passava attraverso la lotta di emancipazione nazionale. Questo lo aveva spiegato già Marx in una lunga lettera a proposito della situazione irlandese del suo tempo. Dinanzi all’espropriazione sistematica dei contadini irlandesi e della loro deportazione e decimazione ad opera dei coloni inglesi, in quel caso dice Marx la questione sociale si presenta come questione nazionale, e cioè la lotta di classe si presenta come lotta nazionale. E, se noi esaminiamo il novecento, vediamo come questo secolo sia stato caratterizzato da alcune gigantesche lotte di classe presentatesi come lotte nazionali. Se un esempio può essere rappresentato dalla già citata resistenza del popolo cinese all’invasione giapponese, l’altro grande esempio clamoroso è evidentemente Stalingrado. Se noi leggiamo Hitler o, ancor meglio, i Discorsi Segreti di Himmler ci rendiamo delle pretese colonialiste del Terzo Reich. In questi scritti, infatti, è apertamente ammesso il bisogno di schiavi. Alla luce di questo è possibile riconoscere nell’espansione a Est del Terzo Reich un tentativo di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale fino al punto da reintrodurre sostanzialmente la schiavitù a danno delle razze inferiori, destinate per un verso ad essere decimate in modo da lasciare spazio alla germanizzazione del territorio in Europa Orientale e per un altro verso i sopravvissuti dovevano lavorare a guisa di schiavi neri al servizio della razza dei signori. Non riesco, perciò, a capire che logica è questa per cui un conflitto in fabbrica per ottenere un aumento salariale è considerato lotta di classe (ed è giusto oltre che sacrosanto) e la lotta di un intero popolo per evitare il destino di schiavitù a cui l’ha condannato la razza dei signori non lo sarebbe. Mi pare, insomma, che ci sia un duplice errore: una mancata comprensione sia del testo di Marx, sia della realtà storica e sociale. Semmai ci si deve chiedere in che modo oggi si manifesta questa lotta di classe gigantesca che è stata la lotta anti-colonialista.

Proseguiamo su questa linea. Warren Buffett, che ama fare la parte del grande borghese illuminato, ha fatto diverse volte questa battuta: “nel mondo è in corso una lotta di classe e la sta vincendo la mia classe”. Si tratta del concetto di “lotta di classe dall’alto” di cui si è parlato spesso e di cui Luciano Gallino nel suo ultimo libro ha chiamato “la lotta di classe dopo la lotta di classe”; cioè sopita in Occidente la lotta del lavoro contro il capitale, è il capitale ad aver guidato l’offensiva neo-liberista. Lei che ne pensa di questo concetto di “lotta di classe dall’alto” o, se preferisce, di “lotta di classe dopo la lotta di classe”?

Se ci atteniamo al testo di Marx, noi dobbiamo distinguere da subito i tre tipi di lotte di classe emancipatrici di cui parlano Marx ed Engels (la lotta del lavoro dipendente contro le classi proprietarie, il lavoro dei popoli coloniali per conseguire l’emancipazione, la lotta per porre fine alla schiavitù domestica delle donne). Ma, non c’è ombra di dubbio, che già in Marx la lotta di classe non è solo la lotta emancipatrice. Per esempio, quando egli parla della feroce repressione della rivolta operaia del giugno 1848 a Parigi la definisce una gigantesca lotta di classe. Quindi, non è una novità che c’è anche una lotta di classe che si oppone all’emancipazione. Io non uso ancora il termine “dall’alto” e mi fermo a definirla “lotta di classe contro l’emancipazione conservatrice o reazionaria”. D’altro canto, quando Marx ed Engels scrivono nel Manifesto del Partito Comunista che la storia è storia delle lotte di classe, è chiaro che non si fa riferimento soltanto all’iniziativa delle classi subalterne o dei popoli coloniali, ma si fa riferimento anche alle classi dominanti. Mentre, invece, quella di “lotta di classe dall’alto” e di “lotta di classe dal basso” è un’altra distinzione che possiamo fare. La lotta padronale è, per definizione, una lotta di classe dall’alto; ma non è che non ci possa una lotta di classe dall’alto di segno progressivo. A tal proposito, una parte consistente del mio libro è dedicata al momento in cui, dopo la conquista del potere nella Russia Sovietica, Lenin nel 1919 dice che la lotta di classe continua e che ha semplicemente cambiato le sue forme: di fatto il potere non era più gestito dalle classi sfruttatrici, e quindi è chiaro che anche la lotta di classe progressiva si sviluppava per un verso dal basso e per un altro verso dall’alto. Mentre, invece, per quanto riguarda quella di cui parla Gallino o di cui parla Buffett, noi dobbiamo dire che è una lotta di classe dall’alto di cui sono protagoniste le classi sfruttatrici o i paesi imperialisti.

Ed è una lotta di classe che al momento in Occidente sembra aver maggior successo…

Non c’è dubbio. Secondo me, in Occidente – ed è giusta anche la limitazione spaziale – c’è una lotta di classe. Una lotta di classe che noi, rispondendo ad Habermas, possiamo collocare nel secondo dopoguerra e il cui obiettivo è quello di smantellare lo stato sociale.

A questo proposito viene in mente il libro  Breve storia del neoliberismo di David Harvey che parte dall’idea la prima forma di sperimentazione neoliberale sia stata quella inaugurata dal golpe di Pinochet in Cile. Infatti sulla copertina ci sono questi quattro ritratti: Pinochet, Tatcher, Reagan e Deng Xiaoping. Secondo Harvey, Deng Xiaoping è l’autore di una svolta a livello globale paragonabile, o comunque in sintonia, con le riforme neoliberali degli altri tre. Secondo lei, come emerge dal suo libro, è invece colui che propone la configurazione di una sorta di NEP cinese.

Intanto guardiamo ad alcuni dati: nel libro cito alcuni studiosi che dicono che negli ultimi tre decenni in particolare in Cina 600/660 milioni di persone sono state liberate dalla miseria. Pensate, è come se dieci paesi come l’Italia venissero liberati dalla miseria. Dire che questo è il risultato del capitalismo significa, come minimo, fare una celebrazione del capitalismo stesso. Secondo me, un simile ragionamento non corrisponde minimamente alla realtà. Poi, d’altro canto, basta guardare ai giorni nostri. Ai giorni nostri tutti sanno, o dovrebbero sapere, che il livello salariale in Cina sta crescendo in modo molto rapido, tant’è vero che se per qualche tempo c’è stata una delocalizzazione dell’industrie dall’Occidente in Cina, adesso, invece, le industrie cinesi si stanno delocalizzando dalla Cina in Cambogia, India, Bangladesh, e alcune ritornano persino in Occidente. Secondo me, con tutto il rispetto che si deve a questo autore illustre, quello che Harvey non ha colto è la distinzione che io ricostruisco parlando della NEP attraverso le citazioni non solo di Lenin, ma anche di alcuni testimoni di eccezione come Antonio Gramsci e Walter Benjamin. Walter Benjamin visita Mosca nel 1927 e ci ha lasciato un saggio intitolato “Mosca 1927” che io considero affascinante, in cui nota certamente i nepmen di cui parla anche Gramsci che godono della ricchezza, ma non del potere. A tal proposito, Benjamin fa un’osservazione intelligentissima: mentre nel mondo capitalistico – dice – c’è osmosi tra potere politico e ricchezza economica, questo non si verifica nella Russia sovietica. E questo concetto, spiegato bene anche da Gramsci, non è una novità nella storia del Partito Comunista Cinese. Nel mio libro cito quello che Mao scriveva nei primi anni ’50. Poco dopo la conquista del potere, Mao distingueva tra “espropriazione politica” ed “espropriazione economica” della borghesia, e diceva che mentre la prima doveva essere condotta sino in fondo, non è invece il caso di fare lo stesso con la seconda, perché ci possono essere settori della borghesia o dell’economia borghese che possono contribuire allo sviluppo delle forze produttive (ad esempio, al nuovo potere costituitosi poteva servire la capacità manageriale o la capacità tecnica della classe borghese). Per cui, secondo me, non c’è tra Mao e Deng quella discontinuità radicale che viene suggerita da molti, compreso Harvey. Non c’è, perché questa distinzione teorica essenziale noi la troviamo già in Mao. E Mao, a parer mio, fa un’altra osservazione importante. Immediatamente prima della conquista del potere egli dice che gli USA sperano che la Cina dipenda o continui a dipendere dalla farina americana in modo che la Cina avendo teoricamente conquistato l’indipendenza politica continui ad essere dipendente sul piano economico. Questa medesima osservazione la fa un autore a molta distanza dalla Cina e che non conosceva questa dichiarazione di Mao: Franz Fanon, il grande teorico della rivoluzione algerina. Fanon ha definito l’atteggiamento delle potenze colonialiste una volta che sono costrette a concedere l’indipendenza in questo modo: “volete l’indipendenza? Prendetevela, ma adesso crepate di fame!”. D’altro canto, già in Lenin noi troviamo una simile distinzione. Il rivoluzionario russo, infatti, distingue tra “annessione politica” ed “annessione economica”: la prima è l’annessione coloniale classica, mentre la seconda è evidentemente la capacità di fagocitare, condizionare e vanificare la stessa indipendenza politica. Insomma, io a questi autori dico: ma oggi la lotta anti-colonialista è finita si o no? Perché se noi diciamo che la lotta anti-colonialista non è finita, allora noi dobbiamo dire che questa, nella sua forma classica, si presenta in una realtà come la Palestina, ma non possiamo fermarci solo a questa. Credo di averi ricostruito tutta una storia, per cui in realtà l’imperialismo capitalista tenta di mantenere l’annessione economica pur avendo dovuto rinunciare all’annessione politica di tipo classico. È una storia che è anteriore anche alla storia del movimento socialista. Io prendo le mosse da questa grande rivoluzione che è stata la rivoluzione degli schiavi neri di Santo Domingo (Haiti) guidata inizialmente da Toussaint Louverture. Si tratta di una rivolta nata prima per abolire la schiavitù e poi proseguita per impedirne la restaurazione. Però, oggi, Haiti, un paese protagonista di una grandissima rivoluzione (ignorata, purtroppo, nei libri di storia, ma che dovrebbe essere studiata anche nei libri di educazione civica), è uno dei paesi non solo più povero del mondo, ma in realtà è un paese senza reale indipendenza. È stata, in questo caso, sconfitta l’annessione politica, ma non l’annessione economica. Questo l’aveva capito Toussaint Louverture, che, avendo cercato di mantenere la floridità e la ricchezza di Santo Domingo,  fu accusato di voler restaurare l’antico regime pre-rivoluzionario. Il risultato, però, qual è stato? La sconfitta del progetto di Toussaint Louverture è stata anche la sconfitta dell’indipendenza di Haiti dalle potenze coloniali. È una storia che continua, negli stessi anni di Haiti, quando Thomas Jefferson dice in modo esplicito che la lotta va condotta costringendo gli schiavi ribelli alla starvation, alla morte per inedia. Questo stesso processo si è verificato dopo la Rivoluzione d’Ottobre. A tal proposito, io cito quel bellissimo articolo di Gramsci che, poco dopo la rivoluzione, mette in chiaro che è soprattutto l’amministrazione statunitense a ricattare i paesi e tutti i popoli contigui alla Russia Sovietica con toni simili: “se seguirete il percorso della Russia non vi daremo più il grano e vi condanneremo alla fame assoluta”. E Gramsci, già nel titolo di un articolo pubblicato sull’Avanti, sintetizza così: “o la borsa o la vita”. O l’ordine borghese o, appunto, l’inedia. Questo lo possiamo vedere ancora ai giorni nostri. Pensate a paesi come la Libia. Essa non ha avuto lo sviluppo economico e tecnologico. Allorché è stata aggredita (secondo Todorov sono morti 30mila libici), non è stata in grado di opporre alcuna resistenza. Questo ci rinvia ad un capitolo classico della storia del colonialismo: la prima guerra dell’oppio. Quando l’Inghilterra invia le sue navi da guerra a largo delle coste cinesi, le navi da guerra inglesi sono in grado di colpire il territorio cinese, ma il popolo cinese non è in grado di rispondere agli attacchi e di colpire ola navi da guerra inglesi. Di conseguenza, dopo un po’, la Cina è costretta a capitolare e ad aprire al commercio dell’oppio. Per concludere su questo punto. Due delle più grandi lotte di classe del Novecento sono state lotte in cui si è verificata l’identità di lotta di classe e lotta di nazionale, per utilizzare la formula brillante di Mao. Ai giorni nostri, quest’identità di lotta di classe e lotta nazionale si può verificare anche sul piano economico. Secondo me i paesi che oggi non riescono a scuotersi di dosso il giogo del colonialismo o del neo-colonialismo sono quei paesi che non hanno capito che a un certo punto la lotta anti-colonialista doveva passare dalla fase militare alla fase economica. Questo era teorizzato da Mao e da Fanon, due autori tra loro così distanti. Ma anche Che Guevara parla ripetutamente di “aggressione economica”. Gli USA, infatti, dopo aver tentato la soluzione militare e esser stati sconfitti nella Baia dei Porci, hanno portato avanti nei confronti di Cuba una lotta economica tutt’oggi in atto. Questa cosa la vediamo quotidianamente. Se non capiamo questo, secondo me, non capiamo nulla della lotta di classe, la quale diventerebbe semplicemente qualcosa di limitato che si verifica solo in determinate circostanze, mentre invece per Marx ed Engels è la caratteristica della storia.

Nel suo libro scrive: “la Cina è il paese che più di ogni altro mette in discussione la divisione internazionale del lavoro imposta dal colonialismo e dall’imperialismo e che promuove la fine dell’epoca colombiana, un fatto di portata storica enorme e progressiva” (p. 324). Non è forse azzardato sostenere che, dopo essersi aperta agli investimenti di capitale straniero, la Cina si stia opponendo alla divisione internazionale del lavoro? In questo senso la politica economica dell’URRS si era mossa nella direzione opposta.

Forse si possono prendere le mosse proprio dal fatto che l’URRS ha condotto una politica diversa quando, in particolare dopo il secondo conflitto mondiale, ha contrapposto al mercato mondiale capitalista il mercato mondiale dei paesi di orientamento socialista (il Comecon). Intanto, però, bisogna fare quest’osservazione: si tratta di vedere fino a che punto quella dell’URRS dopo la seconda guerra mondiale è stata una scelta libera o è stata una scelta obbligata, perché in realtà il piano Marschall prometteva investimenti in URRS a condizione che questa avesse capitolato sul piano economico e sociale. Però, anche lasciando da parte questa considerazione di carattere prevalentemente storico, noi dobbiamo tracciare un bilancio. Quando l’URRS è sul punto di crollare, che cosa ci troviamo davanti? Che cosa esportava? Anche all’interno del Comecon, l’Unione Sovietica esportava materie prime e, come unica forma di tecnologia, la tecnologia militare. Non era in grado di esportare null’altro. Questo isolamento dal mercato mondiale (che è anche un isolamento dalla tecnologia, tuttora soprattutto nelle mani dei paesi capitalisti), in parte volontario, ma, secondo me, per gran parte imposto, ha avuto conseguenza negative. Quando Deng Xiaoping ha deciso il mutamento di linea, la situazione era ancora peggiorata per quanto riguarda i paesi d’ispirazione socialista, perché bene o male fino a quando c’era l’URRS non c’era un vero e proprio monopolio occidentale della tecnologia. Quando, invece, l’URRS è caduta in crisi e soprattutto col suo crollo c’era il vero e proprio monopolio occidentale della tecnologia. E quindi, isolarsi dal mercato mondiale significava isolarsi dalla tecnologia e anche, naturalmente, condannarsi all’arretratezza tecnologica. Questo cosa significa? Non c’è dubbio che la Cina per accedere alla tecnologia occidentale ha pagato e sta pagando un prezzo in termini economici e sociali; e non c’è ombra di dubbio che gli USA tuttora continuino a ricattare la Cina (ad es. senza riconoscerle lo status di economia di mercato, così che sia gli USA che l’Europa sono in grado di imporre tariffe protezionistiche in modo molto più agevole). Se la Cina volesse sbarazzarsi di simili minacce, dovrebbe rinunciare a larga parte della sua industria statale. È fuori di discussione che la Cina sia sottoposta di fronte a un ricatto. Un ricatto a cui reagisce facendo anche concessioni.

Se guardiamo il conflitto Cina – USA da una prospettiva internazionale, vediamo che la Cina per minare alla base l’imperialismo americano ha imposto condizioni di lavoro sempre più pesanti ai suoi lavoratori. Condizioni che, pur essendo in miglioramento, non sono paragonabili a quelle degli operaio occidentali. Simili politiche non favoriscono forse l’inasprirsi delle contraddizioni interne al paese piuttosto che la loro risoluzione?

È evidente che l’operaio cinese ha un livello salariale notevolmente inferiore a un operaio occidentale, ma non potrebbe essere diversamente. Stando allo storico inglese Niall Ferguson sembra che all’inizio degli anni novanta il reddito pro capite cinese fosse 1/73 di quello statunitense. Ancora oggi – e si fa presto a fare un calcolo – il PIL della Cina è grossomodo la metà di quella statunitense e, se pensiamo che la popolazione cinese è quattro volta quella degli USA, possiamo dire che il reddito pro capite cinese sarà all’incirca 1/8 di quello statunitense. Come si può, dunque, pensare che in queste condizioni il livello salariale cinese sia il medesimo di quello statunitense. Sono stupito quando coloro che fanno professione di materialismo storico si aspettano da un Paese di ispirazione socialista la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Come possiamo immaginare una società in cui ci sia una redistribuzione di una ricchezza non prodotta? Non ha senso.

Ma come si risolveranno in Cina le contraddizioni interne? Per via della lungimiranza del Partito Comunista Cinese o per via di una lotta di classe interna?

Intanto, io faccio la considerazione che persino nell’Italia dell’immediato dopoguerra la CGIL diretta dal grande Di Vittorio inizialmente ha puntato più alla lotta contro la disoccupazione che alla lotta contro i bassi salari. E non c’è dubbio che questa è stata anche la politica dello stato cinese, che per tutta una fase ha puntato più sul processo di industrializzazione e di urbanizzazione piuttosto che sugli alti salari. Adesso, però, la Cina sta dichiarando in modo esplicito che punta sugli alti salari e che intende cambiare il modello di sviluppo e puntare sui consumi interni. Infatti, i livelli salariali stanno crescendo a ritmo molto rapido. Tanto è vero che una delle preoccupazioni del gruppo dirigente cinese è di accelerare lo sviluppo tecnologico in modo che la Cina non si trovi in una situazioni per cui i livelli salariali sono alti ma la tecnologia ancora arretrata rispetto all’Occidente.

Detto questo, io concordo con la tesi che in Cina c’è anche una lotta di classe interna. Anche nel libro non nego questa cosa e, anzi, dico che non si sa come andrà a finire. Il problema, secondo me, è questo: se l’aspetto principale della lotta di classe, per quel che riguarda la Cina, è quello interno o quello, invece, che contrappone la Cina al resto del mondo capitalistico. Rispondere a questa domanda è semplice. Basta riformularla: i cinesi hanno potuto liberare 600/660 milioni di persona dalla miseria assoluta grazie alla lotta operaia dal basso o, in primo luogo, grazie a una politica condotta dall’alto? Per me non ci sono dubbi. Si tratta in primo luogo (non dico esclusivamente) del risultato di una politica condotta dall’alto. E oggi, se riuscisse il tentativo che è in corso da parte degli USA e dell’Occidente di regime change, ci sarebbe un drammatico peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari cinesi. In questo senso, tuttora l’aspetto principale – ma ripeto, non esclusivo – della lotta di classe in Cina è quello che vede il gruppo dirigente cinese cercare di sviluppare l’economia, accedere ai livelli più alti della tecnologia. Tanto è vero questo, che oggi, ai giorni nostri, un quotidiano tedesco come la Frankfurter Allgemaine Zeitung ha detto che il nuovo gruppo dirigente cinese si prepara a una “colossale redistribuzione del reddito”. Ed è vero anche che non sono pochi i ricchi che fuggono dalla Cina, nonostante non riescano a portarsi dietro tutta la ricchezza che vorrebbero. A questo proposito, ripeto, conviene leggersi quella pagina bellissima di Benjamin sulla distinzione tra ricchezza economica e potere politico. Secondo me, in autori come Harvey c’è una doppia incomprensione: non solo della realtà cinese, ma anche del testo di Marx. La distinzione tra potere economico e potere politico compare già in Marx e permette di scoprire la ricchezza assoluta della sua analisi.

Una cosa di fronte alla quale Marx non si era mai trovato era un paese protagonista di una rivoluzione anti-coloniale che riusciva a imporsi sul piano mondiale, come hanno fatto l’URRS e la Repubblica Popolare Cinese. Che cosa dire riguardo alla politica estera della Cina? La questione è come questa che è l’emancipazione della Cina dall’imperialismo statunitense poi si riverbera sui paesi con cui essa ha contatti. Contatti, questi, che vanno dagli investimenti in Africa all’appoggio della rivoluzione emancipatrice in Sud America, fino a comportamenti difficili da decifrare riguardo alle tensioni militari (pensiamo, ad es., a quando non pose il veto sull’intervento militare in Libia, mentre poi recentemente ha messo il veto sull’intervento in Siria).

Secondo me, si può benissimo criticare la Cina per non aver messo il veto sull’intervento militare in Libia. Come provare a comprendere questa cosa. La Cina ha probabilmente questo orientamento: ritiene che l’ONU possa svolgere una funzione importante. Non bisogna dimenticare che ci sono le correnti più radicali dell’imperialismo che vorrebbero sostituire l’ONU con un’alleanza delle democrazie (una parola d’ordine questa ripresa più volte anche in Italia da personaggi come Marco Pannella ed Emma Bonino, la quale spero proprio non diventi Presidente della Repubblica). È chiaro che l’alleanza delle democrazie è praticamente un’organizzazione per la guerra scatenata dall’Occidente contro tutti i dissidenti. E quindi, la Cina cerca di non mettere fuori gioco l’ONU perché farlo potrebbe significare dare spazio a questo progetto di alleanza delle democrazie, che potremmo figurarci come una Nato che si sostituisce come una sorta di ONU pseudo-democratica. La Cina, pertanto, ha una certa riluttanza a porre il veto da sola e cerca di evitarlo. A tal proposito, è utile ricordare che la Cina una volta ha fatto una proposta per la modifica dello statuto del Consiglio di Sicurezza, per cui si potrebbe porre il veto soltanto se ci sono almeno due membri del Consiglio che si pronuncino contrari. È una cosa che si può discutere, ma il significato è chiaro: questo orientamento cerca di limitare la strapotenza dell’imperialismo statunitense. E non c’è dubbio che la Cina sta cercando di promuovere un contraltare al G8 attraverso il Brigs, che vede la partecipazione di paesi emergenti (che spesso, fra l’altro, hanno una lotto anti-colonialista alle spalle). Ho recentemente letto sul Global Times – ma non so quanto la fonte sia attendibile – che la Cina aspirerebbe ad introdurre nel Brigs anche Indonesia ed Iran. È chiaro che questo sarebbe una sfida agli USA. Non c’è dubbio che lo sviluppo tecnologico e lo sviluppe economico della Cina sta riducendo drasticamente la capacità degli USA e dell’Occidente di procedere all’annessione economica. Gli stessi embarghi che vengono proclamati dall’Occidente e che fini a qualche tempo fa erano micidiali, adesso diventano sempre meno efficaci perché c’è lo sviluppo economico e tecnologico della Cina che ne riduce la portata. Questo vale per Cuba, per l’America Latina e persino per l’Iran. Quale è, infatti, l’accusa principale che gli Stati Uniti rivolgono alla Cina? Che essa contrasta l’ordine internazionale, si mette di traverso alle decisioni della comunità internazionale e vanifica le punizioni inferte dal Consiglio di Sicurezza contro i Rogue States. Questo è indirettamente un riconoscimento del contrappeso che la Cina comincia ad esercitare.

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  1. di Paolo Ercolani | da http://www.criticaliberale.it Domenico Losurdo è uno degli studiosi di filosofia italiani più tradotti al mondo. Tutti i suoi libri hanno visto, infatti, edizioni in inglese, americano, tedesco, francese, spagnolo, ma anche portoghese, cinese, giapponese, greco. Qualche lingua la dimentichiamo sicuramente. Il Financial Times e la Frankfurter Allgmeine Zeitung, fra gli altri, gli hanno dedicato pagine intere. Un trattamento che stride oltremodo con quello che gli viene riservato in patria, dove spesso e volentieri i suoi lavori sono fatti oggetto di un silenzio studiato. Che pur tuttavia non incide sulle vendite, viste le reiterate edizioni dei suoi libri.In questi giorni sta dando alle stampe, per i tipi di Laterza, la sua nuova fatica intitolata La lotta di classe? Una storia politica e filosofica (388 pagine), e per questo Critica liberale lo è andato a intervistare nella sua casa/biblioteca sulle colline intorno a Urbino.

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