Maduro: una vittoria necessaria
apr 28th, 2013 | Di Maurizio Neri | Categoria: ResistenzeLa delicata situazione della Rivoluzione Bolivariana dopo le elezioni del 14 aprile
di Atilio Boròn (*)
Fonte: Centro di Iniziativa Proletaria
Era fondamentale che Nicolàs Maduro vincesse, e ha vinto. Ma ha vinto con fatica, il che richiede di esaminare le cause della perdita sofferta dal chavismo e del notevole aumento della destra. È stata una vittoria che ha messo in evidenza la debolezza metodologica dei pronostici che, da un lato e dall’altro, prevedevano una larga vittoria del candidato chavista.
Riguardo al verdetto delle urne, la prima cosa da dire è che il suo rifiuto da parte di Henrique Capriles non è in alcun modo sorprendente. È quello che indica di fare in questi casi il manuale di comportamento della CIA e del Dipartimento di Stato quando si tratta di delegittimare un processo elettorale in un paese il cui governo non si sottomette ai diktat dell’impero.
Anche se la distanza tra l’uno e l’altro è stata molto piccola, non vi è nulla di eccezionale alla luce della storia venezuelana: nelle elezioni presidenziali del 1978 Luis Herrera Campins, candidato del Copei, ottenne il 46,6% dei voti contro il 43,4 del suo rivale di Azione Democratica. Differenza: 3,3 per cento, e il secondo riconobbe immediatamente il trionfo del suo avversario.
Prima ancora, nel 1968, un altro candidato del Copei, Rafael Caldera, giunse alla presidenza con il 29,1 per cento dei suffragi, imponendosi sul candidato di AD, Gonzalo Barrios, che aveva ottenuto il 28,2 per cento dei voti. Differenza: 0,9 per cento e problema risolto.
Più vicino nel tempo, è in contrasto con l’ostinazione di Capriles l’atteggiamento dell’allora presidente Hugo Chàvez che, nel referendum costituzionale del 2007, ammise senza mezzi termini la sua sconfitta quando l’opzione per il NO ottenne il 50,6 per cento dei voti contro il 49,3 per cento dei SI alla riforma che egli caldeggiava. Nonostante che la differenza fosse di poco superiore all’uno per cento, Chàvez riconobbe immediatamente il verdetto delle urne. Una bella lezione per l’ottenebrato perdente.
Risultati elettorali molto stretti sono più frequenti di quanto si pensi. Negli Stati Uniti, per non andare molto lontano, nell’elezione presidenziale del 7 novembre 2000 il candidato democratico Al Gore si impose nella votazione popolare con il 48,4 per cento dei voti, contro il repubblicano George W.Bush, che ottenne il 47,9 dei suffragi. Come si ricorderà, una manovra fraudolenta effettuata nel Collegio Elettorale dello stato della Florida – il cui governatore, casualmente, era Jeb Bush, fratello di George W. – operò il miracolo di “correggere gli errori” in cui era caduto un settore dell’elettorato della Florida rendendo possibile l’ascesa di Bush alla Casa Bianca. Insomma: chi aveva vinto perse e viceversa; un bell’esempio di sovranità popolare della democrazia statunitense. Nelle elezioni presidenziali del 1960, John F. Kennedy, con il 49,7% dei suffragi, si impose su Richard Nixon che raccolse il 49,6. La differenza era appena dello 0,1 per cento, poco più di 100.000 voti su un totale di circa 69 milioni, e il risultato fu accettato senza discussioni.
Ma in Venezuela le cose sono diverse e la destra grida “brogli” ed esige di ricontare ogni voto, quando già Maduro ha accettato il riconteggio delle schede. Fa pensare, ciò nonostante, l’intollerabile ingerenza dell’ineffabile Barak Obama che non ha detto una parola quando gli rubarono l’elezione di Al Gore, ma ieri sera ha trovato il tempo per dire, per bocca del suo portavoce, che era “necessario” e “prudente” ricontare i voti dato il risultato “estremamente contraddittorio” delle elezioni venezuelane. Accetterebbe egli che un governante di un altro paese gli dicesse quello che deve fare davanti alle poco trasparenti elezioni statunitensi?
Detto quanto sopra, come spiegare la fuga dei voti sofferta dal chavismo? Naturalmente non c’è una sola causa. Il Venezuela ha attraversato, dall’apparizione della malattia di Chàvez (8 giugno 2011), un periodo in cui le energie del governo sono state in gran parte dirette a fronteggiare ed affrontare le inedite sfide che la situazione generava per un esperimento politico segnato dall’enorme attivismo del leader bolivariano e per l’iper-presidenzialismo del regime politico costruito dal 1998. Questa caratteristica dava fastidio a Chàvez in un primo momento, ma poi egli finì coraggiosamente per riconoscere che era corretta. Già Fidel lo aveva avvertito, nel 2001, che doveva evitare di trasformarsi nel “sindaco di ogni paese“. In ogni caso, lo sconcerto causato dalla forzata inattività di Chàvez ha colpito profondamente la gestione della “cosa” pubblica, con il conseguente aggravarsi di problemi già esistenti come l’inflazione, la fuga del dollaro, la paralizzante burocratizzazione e l’insicurezza dei cittadini, per citarne solo alcuni.
Problemi a cui, non è male ricordarlo, già si era riferito più di una volta lo stesso Chàvez, per affrontare i quali aveva esposto la necessità del “colpo di timone” annunciato nel primo Consiglio dei Ministri del nuovo ciclo iniziato dopo la vittoria del 7 ottobre 2012, discorso in cui il leader bolivariano aveva fatto un forte richiamo alla critica e all’autocritica, esigendo dai suoi collaboratori il miglioramento radicale dell’efficienza di ministeri e agenzie, il rafforzamento del potere comunale e lo sviluppo di un sistema nazionale di informazione pubblico quali ineludibili pre-requisiti della costruzione del socialismo. Nel suo intervento segnalava che “a volte possiamo cadere nell’illusione che, chiamando tutto socialista … uno può pensare che questo l’ho fatto, è a posto, è socialista, gli ho cambiato nome, è tutto a posto“. Da qui la sua calda esortazione a rafforzare i consigli comunali, la socializzazione dell’economia, della cultura, del potere. Diceva, con ragione, che “non dobbiamo continuare ad inaugurare fabbriche che siano come un’isola, attorniate dal mare del capitalismo, perchè il mare le inghiotte“.
Ma insieme a questi problemi della gestione statale ci sono stati altri fattori che hanno contribuito alla creazione di un malessere sociale, di un malumore pubblico: la destra e l’imperialismo hanno attivamente lavorato, come lo fecero nel Cile di Allende, a sabotare il funzionamento dell’economia ed esasperare l’anima della popolazione attraverso il metodico taglio dei rifornimenti di prodotti essenziali, dell’energia elettrica, con la sospetta attività di gruppi di paramilitari che seminavano il terrore nei quartieri popolari e la continua campagna di denunce e accuse contro Maduro veicolate e ingigantite attraverso i mezzi di comunicazione di massa, facilitando così la diserzione di un numeroso contingente di votanti.
La Rivoluzione Bolivariana affronta una situazione delicata ma ben lontana dall’essere disperata o da provocare la caduta in un angosciato pessimismo. La svergognata intromissione di Washington riflette la sua urgenza di farla finita con il chavismo “ora o mai più“, cosciente che si tratta di una situazione passeggera. Davanti a questa situazione Maduro, come presidente, deve rispondere con serena fermezza, evitando di cadere nelle prevedibili provocazioni messe in atto dai suoi nemici. È innegabile che ha davanti a sé una società spaccata in due, dove la destra per la prima volta dimostra di avere la capacità di inquadrare e mobilitare, almeno nel giorno delle elezioni, il 50% dell’elettorato.
Recuperare il predominio su questo terreno non è impossibile, ma questo dipenderà meno dalla radicalità dei discorsi del governo che dalla profondità ed efficienza delle politiche concrete che Miraflores adotterà; dipenderà, in fondo, dalla qualità della gestione governativa nell’affrontare i principali problemi che colpiscono la popolazione, tema sul quale Maduro ha sensatamente insistito nel suo discorso.
Non bisogna sottovalutare, in questo quadro, il fatto che fino al 2016 l’Asssemblea Nazionale ha un’ampia maggioranza chavista (95 su 165) e che il nuovo presidente potrà contare sull’appoggio di 20 dei 23 governatori della Repubblica Bolivariana. La correlazione di forze, quindi, continua a mostrare un chiaro predominio del chavismo e la risposta di numerosi governi della regione e di fuori – come Cina e Russia, tra gli altri – aggiunge un fattore in più alla necessaria governabilità e all’avanzamento verso un improrogabile compimento del testamento di Chàvez, il già citato “colpo di timone“.
Siamo certi che il coraggioso popolo venezuelano sarà all’altezza delle circostanze e delle sfide che l’attuale situazione prospetta.
(*) Politologo argentino
16 aprile 2013
(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)