Decimo anniversario della guerra imperialista contro l’Iraq. Riflessioni sulla barbarie della guerra, al tempo delle guerre umanitarie
mar 22nd, 2013 | Di Lorenzo Dorato | Categoria: Primo PianoNel 1945 finiva in Europa e nel mondo l’apocalisse della seconda guerra mondiale. Una guerra spaventosa che causò tra i 50 e i 60 milioni di morti di cui ben più della metà civili, un numero simile di feriti e mutilati e arrecò impressionanti distruzioni alle città europee, giapponesi e cinesi, facendo scomparire in pochi anni sotto le bombe e il fuoco pezzi interi di civiltà secolari.
Barbarie suprema dell’imperialismo, logica naturale del mostruoso conflitto su scala sempre più ampia tra potenze capitalistiche lanciate alla conquista della supremazia l’una sull’altra.
Alla fine dell’apocalisse ebbe inizio per l’intera umanità un ‘epoca di speranzosa rinascita. La convinzione che “non sarebbe più potuto accadere” si diffuse nell’immaginario collettivo e l’ottimismo della ricostruzione e della crescita economica del trentennio del dopoguerra diedero l’illusione che l’apocalisse fosse ormai un fenomeno relegato ai libri di storia e all’epoca infelice dei totalitarismi impazziti. Del resto furono tre gli elementi che contribuirono a far sì che non scoppiassero nuove devastanti guerre su scala mondiale tra capitalismi e tra nazioni capitaliste e nazioni del blocco socialista: in primo luogo l’ equilibrio gepolitico e militare tra le due super-potenze USA e URSS; in secondo luogo la potente arma di dissuasione reciproca rappresentata dall’atomica; in terzo luogo, nel campo capitalista, l’indiscussa e schiacciante supremazia economica e, soprattutto, militare degli USA rispetto ai paesi europei.
Tutto ciò non impedì in ogni caso lo scoppio di terribili guerra “periferiche” di carattere schiettamente imperialista condotte dagli Stati Uniti per consolidare la supremazia in aree del mondo dagli equilibri instabili: Vietnam, Corea, Angola per citare i casi più eclatanti. E non impedì, ovviamente, il susseguirsi di colpi di Stato, invasioni militari lampo, massacri per conto terzi, repressioni di oppositori politic etc etc, da parte delle potenze imperialiste (Stati Uniti in primis) contro gli Stati che intraprendevano propri percorsi “pericolosi e devianti”.
Dopo il 1991, implosa l’Unione Sovietica, l’ottimismo sulla supposta fine dell’epoca delle micidiali guerre contemporanee si consolidò ulterioremente nell’immaginario occidentale. La caduta del comunismo doveva rappresentare la fine dei mostri totalitari e il mito della pax mondiale liberal-democratica a guida statunitense divenne sempre più consolidato. Al contrario, il crollo dell’URSS, significò esattamente l’opposto di ciò che veniva propagandato, ovvero l’inizio di un ciclo di guerre contro ogni paese non allineato portatore di una linea politica autonoma non del tutto conforme con le aspirazioni dei padroni del mondo.
Da allora la guerra smise di chiamarsi guerra per diventare “missione di pace”, “esportazione di democrazia e diritti umani”, “difesa di popoli oppressi”.
Iraq 1991, Jugoslavia 1994-1999, Afganistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, destabilizzazione della Siria in corso. Questa la sequela di guerre contemporanee condotte sotto la bandiera della democrazia e dei diritti umani e dei bombardamenti intelligenti di precisione.
Il mito della guerra umanitaria è stato affiancato dal mito della guerra veloce, fatta di attacchi mirati ai centri del potere, bombe intelligenti, minimizzando il numero delle vittime e portando rapidamente alle condizioni per una pace prospera e una rapida ricostruzione. Questa duplice mitologia (fini umanitari e danni limitati) è stata alla base della passiva o attiva accettazione delle guerra contemporanee da parte di una forte maggioranza delle popolazioni europee, ridotte al non pensiero dalla propaganda di guerra costruita su menzogne, fotomontaggi, costruzioni ideologiche e diffusione della paura.
In questo modo, l’orrore reale della guerra, lo stesso sperimentato soltanto 70 anni fa da chi in Europa oggi ha 70-80 anni e ha potuto raccontare in via diretta alla generazione che ne ha oggi 40 o 50, è stato sotterrato sotto la valanga di mistificazioni ideologiche sulla guerra giusta e, se non sana, comunque tollerabile e giustificabile per via di fini superiori.
Le stesse persone, i cui genitori e i cui nonni hanno vissuto l’atrocità dei bombardamenti, dell’occupazione militare, delle privazioni fisiche, dell’umiliazione, si sono trovate ad approvare la stessa identica barbarie esportata in luoghi lontani ed esotici, forse troppo estranei per poter provare empatia e vergogna. L’ agghiacchiante entusiasmo delle masse, il 9 Maggio 1936, all’annuncio della realizzazione dell ‘impero, dopo l’occupazione dell’Etiopia e il 10 Giugno 1940, all’annuncio dell’entrata nella seconda guerra mondiale dell’Italia, tanto esecrato (e giustamente) da chi, a posteriori, capì cosa significava una guerra sulla propria terra e sulla propria testa, è lo stesso entusiasmo “democratico” (e più vigliaccio, visto che la partita oggi si realizza sempre in trasferta) di chi nel 1999 applaudiva i bombardamenti su Belgrado, di chi applaudiva l’invasione dell’Afghanistn nel 2001, i missili su Tripoli nel 2011 e le operazioni di guerra israeliane a Gaza nel 2009. Mistificazione, inganno mediatico, raggiro di coscienze pulite, disinformazione televisiva? Sicuramente le ragioni dell’accettazione della retorica della guerra moderna “giusta” sono molte, ma non dobbiamo credere che il grado di “devianza” e “manipolazione criminale” sia così diverso da quello delle masse urlanti del 9 Maggio 1936 e del 10 Giugno 1940. Cambia la forma, cambia l’ideologia, cambia la retorica, ma la sostanza e la responsabilità ultima rimane la stessa.
Uno spiraglio di presa di coscienza sugli orrori della guerra si verificò nel 2003 con la brutale aggressione anglo-americana dell’ Iraq. Ma, quell’apparente sprazzo di lucidità, altro non fu che lo specchio del posizionamento specifico delle forze progressiste europee e della Chiesa cattolica, in quella che venne propagandata come una guerra “illegale” e “fuori misura”, dunque da esecrare, in contrapposizione con le guerra sante benedette dall’ONU, avallate e dalle amministrazioni democratiche USA e dai corrispondenti vassalli europei. La tragica fragilità e strumentalità del movimento di opposizione alla guerra in Iraq nel 2003, che portò in tutte le piazze europee milioni di persone, si rivelò in maniera lampante nel 2011 con la vigliacca aggressione alla Libia, in cui l’Italia, contro i suoi stessi interessi capitalistici, si prestò vergognosamente alla cessione delle fondamentali basi militari che permisero il facile bombordamento del suolo libico. Un’aggressione appoggiata con il massimo entusiasmo da (quasi) tutta la compagine culturale di centro-sinistra (con il presidente Napolitano in testa). Alle manifestazioni contro la guerra, in quei terribili giorni, era difficile contare più di un centinaio di persone. Dal milione in piazza contro la guerra di Bush alle poche centinaia in piazza contro il massacro della Libia si può dire che il tracollo sia stato quanto meno grottesco.
La semplice spiegazione di quella tragica regressione va trovata nella totale ristrettezza di un’autentica concezione antimperialista e nell’egemonia massiccia di posizioni pacifiste (autentiche e non ambigue) o pacifinte (strumentali al diritto del più forte e frutto di semplice manipolazione ideologica da parte del potere). Nel 2003 la bandiera più diffusa nelle manifestazioni non era quella dell’Iraq (paese aggredito brutalmente da una coalizione di assassini onnipotenti), ma quella della pace accompagnata spesso dagli slogan “né Bush, né Saddam”. Insomma posizioni ambigue facilmente risucchiabili, al momento opportuno, dalla retorica dei diritti umani e della guerra giusta finalizzata a portare la pace, come si è poi evinto chiaramente dall’assordante silenzio durante l’aggressione alla Libia.
La ricostruzione di un solido movimento contro le guerre imperialiste deve ripartire proprio dalla presa d’atto dell’esistenza di aggressori e di aggrediti. Presa d’atto che deve sapere andare al di là delle valutazioni di politica interna su un paese che sta subendo un’aggressione.
Ma tale ricostruzione, in maniera se vogliamo più semplice e diretta, deve anche ripartire dalla coscienza di cosa è realmente la guerra, dell’orrore cui sempre e comunque conduce. Ripartire dalla coscienza della falsità dei miti della guerra senza danni collaterali, delle bombe intelligenti. Ripartire da una riflessione su cosa significa ritrovarsi il paese invaso da truppe straniere di occupazione, bombardato dal cielo, immerso nel caos di un’anarchia dove vige la legge della giungla, distrutto nella dignità, nell’ordine relazionale e sociale, nell’integrità territoriale e morale. Basterebbe del resto parlare con i nostri nonni per ravvivare una memoria storica che ci riguarda molto da vicino e che non può morire. Perché se muore quella memoria, muore la possibilità di discernere, giudicare e prendere posizione.
Il 20 Marzo, due giorni fa, è ricorso l’anniversario decennale dell’invasione anglo-americana dell’Iraq (con il criminale supporto ex-post dell’Italia). Le cifre sui morti di questa atroce guerra che ha letteralmente annientato un paese precedentemente prospero (soprattutto in termini relativi all’area mediorientale) sono difficili da stimare. Diversi studi azzardano cifre estremamente differenziate (da un minimo di 30.000 ad un massimo di 1 milione di morti).In ogni caso un numero impressionante di vittime, di feriti e mutilati, un paese distrutto, tesori d’arte cancellati dalla faccia della terra, biblioteche incendiate, segni di civiltà millenaria scomparsi, bimbi malati e deformati perché nati e cresciuti tra fosforo e uranio. Proprio la stessa identica apocalisse che molti pensavano relegata ai libri di storia e all’epoca dei cosiddetti “totalitarismi”.
Per ravvivare la memoria su un conflitto spesso dimenticato dai media, che continua a causare vittime ogni giorno, avendo aperto le porte di un’interminabile guerra civile che sta disintegrando il paese, riporto un interessante articolo tratto dal sito osservatorioiraq.it
http://www.osservatorioiraq.it/iraq-il-conflitto-pi%C3%B9-sanguinoso-del-secolo
di Francesca Manfroni
Durante l’occupazione straniera dell’Iraq, ed esattamente nel periodo 2003-2011, sono stati uccisi 116.903 civili contro 4.804 militari stranieri, soprattutto americani.
Le cifre dimostrano che la Seconda Guerra del Golfo potrebbe rivelarsi il più sanguinoso conflitto del secolo e uno dei peggiori per vittime non militari.
“La proporzione di 24 a 1 è la più alta mai registrata”, confessa Barry Levy, medico e professore presso la Tufts University (USA) e co-autore dello studio apparso su Lancet.
Per stilare il numero di civili iracheni uccisi durante gli 8 anni su cui si sofferma il rapporto, i ricercatori hanno fatto riferimento anche alle statistiche dell’Iraq Body Count (IBC), un’iniziativa indipendente nata per far luce sulle conseguenze delle violenze contro la popolazione civile.
Un orrore che potrebbe assumere contorni ancor più drammatici a detta di Mike Spagat, ricercatore presso l’Università di Londra, secondo il quale i civili uccisi per ogni vittima militare potrebbero arrivare a 30, incrociando i dati IBC con le rivelazioni fatte da Wikileaks nel 2010.
Ed è lo stesso Iraq Body Count a pubblicare il conteggio delle vittime di questo mese, fino al 21 marzo 2013: 306, di cui 10 nel giorno del decimo anniversario dall’invasione americana, con il bilancio dell’ondata di attentati che hanno insaguinato il paese martedì che si è fermato a quota 79 morti.
Solo durante il 2012, l’IBC ha registrato il decesso di oltre 4.500 persone, un record negativo che vede il numero delle vittime crescere per la prima volta dal 2009.
Il paese resta quindi intrappolato in uno stato di guerra a bassa intensità, dove alla violenza quotidiana si sommano degli attacchi ‘occasionali’ condotti su vasta scala e mirati a uccidere più persone in un colpo solo, proprio come è accaduto il 19 marzo.
Gran parte dello studio è poi dedicato a quello che resta dopo la Seconda Guerra del Golfo: oggi in Iraq si assiste a un deciso aumento delle malattie mentali, a cui si somma la strage silenziosa dei bambini ben documentata dai tanti studi scientifici pubblicati in questi ultimi anni, che paragonano i tassi di malformazione dei neonati di Falluja a quelli di Hiroshima e Nagasaki.
La ricerca sottolinea inoltre gli effetti devastanti sul flusso di profughi (milioni) e sull’elevato livello di contaminazione registrato in alcune aree del paese legato all’uso dell’uranio impoverito.
Abbandonati dal loro governo e dalla comunità internazionale, a partire dal 2003 almeno un iracheno su cinque ha lasciato la propria abitazione per cercare riparo altrove, dentro e fuori dai propri confini.
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni sarebbero meno del 10% quelli che hanno deciso di rientrare, e spesso coloro che l’hanno fatto non hanno ritrovato la propria casa. Gli sfollati interni sono costretti a vivere in sistemazioni abusive senza accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici.
E ancora: nell’Iraq del 2013 solo il 38% della popolazione ha un’occupazione lavorativa contro un 22,5% di persone che sopravvive con appena 2 dollari al giorno.
Dati altrettanto sconfortanti riguardano i servizi fondamentali: a fronte di sole sei ore di elettricità intermittente al giorno, un iracheno su quattro non ha accesso all’acqua potabile.
Attualmente, un quinto della popolazione fra i 10 e i 49 anni è analfabeta, mentre negli anni Ottanta l’Iraq vantava una posizione di primato nella regione per l’alto livello di istruzione dei suoi cittadini.
Stando alle stime del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, negli ultimi dieci anni 4 milioni e mezzo di bambini sarebbero rimasti orfani e una donna su dieci vedova.
Infine, sono circa 600 mila i minori che vivono in strada senza accesso ai servizi essenziali come il cibo e la casa, e 700 sono invece ospitati nei pochi orfanatrofi del paese.
Lorenzo Dorato
Denis Collin Cette guerre a été menée avec l’accord et le soutien du prétendu “anti-impérialiste” Ahmadinejad … qui soutient le gouvernement chi’ite de Bagdad.
Questa guerra fu combattuta con l’accordo e il cosiddetto “anti-imperialista” Ahmadinejad… il supporto che sostiene il governo di chi’ite di Baghdad.
Mi risulta che l’Iran e gli Hezbollah sono pronti ad accogliere la Resistenza irakena nell’Asse della Resistenza ( Iran, Palestina, Hezbollah, Ba’th siriano ) se il Ba’th irakeno fa autocritica sulla guerra Iran-Irak. Gli antimperialisti devono premere per unirle le forze di resistenza contro il nemico comune, le divisioni si superano con la lotta.
Stefano Zecchinelli
Onestamente non sono accuratamente informato sul ruolo avuto dall’Iran nella destabilizzazione dell’Iraq dopo l’invasione anglo-americana del 2003.
Ho anche difficoltà ad assumere una posizione chiara sulla guerra Iran-Iraq 1980-1988, sulle responsabilità reciproche dei paesi e le cause reali del conflitto. So solo che quella sciagiurata e terribile guerra ebbe un unico vincitore: l’imperialismo che riuscì nell’intento di indebolire le due potenze regionali.
In ogni caso, al momento attuale, come ben detto da Zecchinelli, non c’è nulla di peggio di una divisione in seno ai paesi e alle forze che subiscono le ingerenze dell’imperialismo. Conosco le posizioni di forte critiche della politica regionale iraniana di Denis Collin, ma non credo si possa negare il fatto che l’Iran è da diversi anni (in particolare dal 2005 con l’elezion di Ahmadinejad) sotto la minaccia permanente dell’imperalismo (nord-americano ed europeo).
I conflitti interni all’area medio-orientale sono davvero il peggiore scenario possibile che, purtroppo, è esattamente ciò che si sta verificando e che, con ogni probabilità gli Stati Uniti stessi configuravano come scenario auspicabile a seguito dell’invasione dell’Iraq.
Nello stesso anno contribuì a far rinascere a San Pietroburgo la Pravda , mentre definiva, nel saggio Il marxismo e il problema nazionale, le sue posizioni teoriche (non sempre, però, in linea con quelle di Lenin, di cui non comprendeva la battaglia contro i deviazionisti, né la decisione di prender parte alle elezioni per la Duma ). Tornato a San Pietroburgo (nel frattempo ribattezzata Pietrogrado ) subito dopo l’abbattimento dell’assolutismo zarista , Stalin, insieme a Lev Kamenev e a Murianov , assunse la direzione della Pravda, appoggiando il governo provvisorio per la sua azione rivoluzionaria contro i residui reazionari. Ma questa linea fu sconfessata dalle Tesi di aprile di Lenin e dal rapido radicalizzarsi degli eventi. Nelle decisive settimane di conquista del potere da parte dei bolscevichi Stalin, membro del comitato militare, non apparve in primo piano e solo il 9 novembre 1917 entrò a far parte del nuovo governo provvisorio (il Consiglio dei commissari del popolo) con l’incarico di occuparsi degli affari delle minoranze etniche. A lui si deve l’elaborazione della Dichiarazione dei popoli della Russia , che costituisce un documento fondamentale del principio di autonomia delle varie nazionalità nell’ambito dello Stato sovietico.