Costanzo Preve sull’attualità e l’inattualità di Gramsci
mar 2nd, 2013 | Di Costanzo Preve | Categoria: Dibattito Politico, IntervisteIntervista a cura di Saša Hrnjez
SH: Qual è il tuo giudizio complessivo su Gramsci?
PREVE: Sono un grande estimatore di Gramsci, ma lui da circa vent’anni non è più letto in Italia, perché è morto insieme con il vecchio PCI che l’aveva trasformato nel suo pensatore nazionale del riferimento. Perciò, una volta venuta meno la funzione di legittimazione, tutti hanno dimenticato Gramsci. Invece è un grande pensatore, per cui secondo me è meritevole di esere riesaminato. Detto questo, non dimentichiamo mai che Gramsci non era un filosofo di professione. Aveva studiato letteratura all’Università di Torino e i suoi principali interessi erano lingusitici e letterari. Essendo sardo, lui voleva lauerarsi in letteratura italiana con una tesi di esame comparativa fra la lingua sarda e quella italiana. Poi entrò nel Partito Socialista e cominciò una carriera politica socialista e poi comunista. Ma non dimentichiamoci che Gramsci non era un professore universitario di filosofia, ma era sostanzialmente un politico di formazione letteraria. Fatta questa premessa, che però è molto importante, definirei Gramsci come filosoficamente neoidealista (fa parte del neoidealismo italiano, come Gentile, Croce, e anche De Ruggiero) e politicamanete comunista. Gramsci morì nel 1937, e morì nella clinica Quisisana di Roma, sostanzialmente libero. Nessuno sa ancora chi abbia pagato la clinica. C’era la tesì che l’abbia pagato il Partito Comunista, che allora era illegale, oppure l’ambasciata sovietica, oppure lo stesso Mussolini, perché il direttore della clinica era il medico personale di Mussolini. Ma lui non è morto in prigione…
SH: Sì, ma sapevano che sarebbe morto a breve. Lo hanno lasciato morire fuori prigione quando capirono che il decesso sarebbe stato certo…
PREVE: Sì, lui era molto malato, non mi ricordo precisamente di che cosa, e morì molto giovane; nato nel 1891, morì 3 anni prima della Seconda Guerra Mondiale. Sul comportamento di Gramsci sono fiorite molte leggende, per esempio che avrebbe detto ad una suora: «preghiamo insieme». Questo non vuol dire che Gramsci si fosse convertito al cristianeismo. Voleva dire «preghiamo» come se fosse un mantra, per tranquilizzarsi. C’è poco rispetto per il dramma di Gramsci. Lui era sposato con una signora russa, Julia Schucht, con cui ha avuto due figli. Il primo lo ha conosciuto, il secondo mai. Sua cognata, cioè la sorella di Julia, era un’agente dei servizi segreti sovietici, per cui andava a trovarlo in prigione e riportava quello che diceva ai sovietici. Gramsci era circondato da serpenti, forse amorosi, ma serpenti… Dovendo indicare qual è la fonte principale di Gramsci, io direi Sorel. C’è il mito secondo cui sarebbe Labriola, ma è un mito che hanno creato per sostenere ad ogni costo una tradizione italiana di marxismo per ragioni nazionalistiche legate al vecchio PCI: la via italiana al socialismo! In realtà l’autore fondamentale per capire la filosofia di Gramsci, se vogliamo proprio cercare un autore, è il francese Sorel. Tieni conto che ai primi del Novecento la lingua inglese era pressoché sconosciuta, come oggi lo è il russo, una lingua di nicchia. Invece il francese era sostanzialmente conosciuto da tutti gli italiani colti; perciò bisogna considerare che gli autori francesi erano letti come quegli italiani, direttamente. E l’autore fondamentale per capire Gramsci era Sorel, che era filosoficamente un bergsoniano. Bergson si vantò, come ha detto Croce, che non aveva mai letto Hegel. Quando Benedetto Croce andò a trovare Bergson a Parigi gli disse: «queste cose le ha già dette Hegel». Bergson rispose: «Io non ho mai letto Hegel». Questo non vuol dire niente, perché una persona intelligente arriva da sola a certe conclusioni. Dunque Sorel. E volendo dire qualcosa di più, aggiungerei che la filosofia della prassi è una forma di neoidealismo, ma un neoidealismo diverso sia da Gentile che da Croce, è quindi una forma originale di neoidealismo. Solo che questo non viene ammesso perché bisogna inventarsi ad ogni costo che Gramsci fosse materialista, anche se non lo era, ovviamente. Perciò c’è stata una mistificazione durata cinquant’anni, perché egli non credeva in Dio, e allora si pensava che dovesse essere anche materialista. Invece la sua filosofia è idelismo puro. Sono dell’opinione che sia necessario prima inserirlo in questa grande scuola antipositivista di Gentile e di Croce, e poi staccarlo dal loro abbraccio. Lui aveva elementi sia dell’uno che dell’altro. Di Gentile aveva come elemento la filosofia della prassi, di Croce lo storicismo, cioè la riduzione di tutta la realtà alla storia, con l’esclusione della Fenomenologia dello Spirito e della Scienza dela Logica. Però questo era mediato dalla sua fondamentale accettazione del materalismo storico, inteso come teoria dei modi di produzione e come comunismo politico. Direi, per finire, che Augusto Del Noce, Ugo Spirito e adesso Diego Fusaro possono avere tutte le ragioni del mondo per ridurre Gramsci a Gentile, però non è vero.
SH: Ora possiamo approfondire il discorso entrando nei dettagli. Interpreto Gramsci come un hegelomarxista, un filosofo della prassi che lotta su due fronti. Il primo è la metafisica della materia incarnata nel materialismo di Bucharin…
PREVE: … che è una polemica parallela alla critica nei confronti di Bucharin fatta negli anni ’20 da Lukács, che non conosceva Gramsci ma diceva le stesse cose.
SH: Il secondo è la metafisica del soggetto di Gentile. Perciò il tentativo di ridurre Gramsci a Gentile non è nient’altro che riportare Gramsci ad una metafisica del soggetto che lui critica altrettanto come critica la metafisica della materia di Bucharin. Secondo me c’è anche un pericolo in queste riduzioni. Si corre il rischio di portata politica.
PREVE: Ecco, sono totalmente d’accordo e posso firmare questa tua affermazione. Gramsci era convinto, a modo suo, in carcere, di fare una battaglia su due fronti, come dici tu. Da un lato la battaglia contro il materialismo meccanicistico di Bucharin (non è ancora quello di Stalin, perché il DiaMat nasce nel 1931), dall’altro la battaglia contro la metafisica gentiliana dell’atto puro. Secondo me questa impostazione è corretta. Quell’altra, invece, che tu defnisci pericolosa, io direi che è semplicemente sbagliata. Preferirei evitare la parola pericoloso, perché schiaccia troppo un pensatore dentro un’ideologia. Per esempio, Lukács era stalinista, Heidegger era nazista, Gentile era fascista, Popper era liberale ecc., ma se si riduce un autore ad un’ideologia politica, non si discute più del suo contenuto teorico. Basta un’interpretazione corretta, cioè che Gramsci volle combattere una lotta su due fronti: contro il materialismo meccanicistico, deterministico, riduzionistico di Bucharin e contro la filosofia dell’atto puro di Gentile.
SH: Hai ricordato il fatto che Gramsci non aveva una formazione filosofica universitaria, non era laureato in filosofia, ecc… Però, anche se non si occupava esplicitamente di ontologia o di gnoseologia, le sue riflessioni sono anche ontologiche. Anzi, direi che lui ha offerto spunti notevoli per l’ontologia stessa attraverso la filosofia politica. Mi spiego: per esempio quando parla di rivoluzione passiva confrontandosi con la dialettica di Croce, Gramsci dice che nella rivoluzione passiva l’antitesi viene assorbita dalla tesi, sottomessa, controllata, e così la sintesi diventa soltanto un rafforzamento della tesi, il suo consolidarsi attraverso la neutralizzazione dell’elemento antitetico. Lui la chiama “dialettica addomesticata”.
PREVE: E secondo me questo è molto intelligente.
SH: Poi lui propone e delinea un’altra dialettica con un altro tipo di sintesi, dove l’antitesi è il vero motore che porta a una sintesi nuova, rompendo con la tesi. Gramsci qua coglie il meglio del meglio della dialettica hegeliana, cioè dà una interpretazione radicale di Hegel che si distingue dal conservatorismo crociano. L’Aufhebung non è un compromesso moderato. Perlomeno, non è soltanto questo.
PREVE: Sì, un grande pensatore coglie un metodo anche senza avere letto autori in tedesco o in greco e arriva per conto suo al punto fondamentale. La critica che Gramsci muove a Gentile è un ritorno a Hegel, passando per Fichte, d’accordo, però è un ritorno a Hegel nel senso che lo spirito realistico comunitario di Gramsci era quello di Hegel. Tieni conto che i suoi Quaderni sono in gran parte dedicati alla letteratura italiana, a Pirandello, a Machiavelli, al moderno Principe; le osservazioni filosofiche sono marginali e non coerentizzate. Se noi le vogliamo coerentizzare, l’esito a questo punto è questo: Gramsci è un allievo di Hegel, più che di Fichte. Il fatto che lui definisce il marxismo come “filosofia della prassi” non è casuale. È vero che in prigione era obbligato a scrivere “filosofia della prassi”, però la sua è certamente una filosofia della prassi, secondo me nel senso di Sorel e non di Gentile. Anche se, come ogni pensatore originale, non deve essere legato troppo a un autore precedente. Se dovessi fare una genealogia del pensiero di Gramsci, metterei prima Sorel e poi l’influenza generazionale del neoideliasmo italiano, cioè Gentile e Croce (ma non soltanto) nella loro polemica contro il positivismo. Siccome l’Italia ha avuto un positivismo italiano, è chiaro che Gramsci, essendo italiano, polemizza contro la variante italiana del positivismo, che era quella del Partito Socialista di Turati. Però non esagererei il rapporto con Gentile. Ovviamente esiste un rapporto, ma direi che si tratta di un rapporto indiretto, mediato dal clima culturale, non di più. Fare un passo avanti, dicendo che Gramsci è un allievo di Gentile, è sbagliato.
SH: Quando Gramsci parla di Gentile nei Quaderni, lo associa a Bruno Bauer. In una pagina richiama la critica che Marx fa a Bauer nella Sacra Famiglia, che è sostanzialmente una critica nei confronti della fichtianizzazione di Hegel.
PREVE: Personalmente sono un ammiratore di Fichte. A mio parere Hegel certe volte è troppo ingiusto verso Fichte, perché Hegel riduce Fichte al cattivo infinito kantiano che non si determina mai. In realtà la vera ragione dell’ostitlità di Hegel nei confronti di Fichte è perché Fichte parla del presente come epoca della compiuta peccaminosità. Invece Hegel pensa che il presente sia buono, sia un’unione di reale e razionale. Hegel deve fare una rottura con Fichte e con Kant, ma secondo me la fa troppo grossa, troppo ingiusta. Se mi si chiede se sia migliore il codice fichtiano o quello hegeliano, direi che quello hegeliano è migliore, ma con meno insulti a Fichte, perché secondo me lui non aveva alcun altro modo di rompere con Kant se non conservandone il cattivo infinito come tensione della Gattungswesen verso la sua realizzazione. Sulla rottura, continuità/discontinuità tra Fichte e Hegel hanno scritto migliaia di libri, per cui la bibliografia è sterminata. Però, a mio parere, bisogna individuare quale è il punto fondamentale, che non è solamente la polemica sul kantismo come dicono i manuali, quando parlano del cattivo infinito. È anche quello, ma il vero punto fondamentale è che Fichte fa una filosofia della storia a base giusnaturalistica, mentre invece Hegel respinge completamente il giusnaturalismo, senza fare concessioni. Fichte definisce la sua epoca storica come epoca della compiuta peccaminosità, perchè viene dopo la distruzione illuministica, ma non ha ancora preparato il suo superamento. Hegel non poteva essere d’accordo su questo perché altrimenti non avrebbe potuto dire che il reale è razionale e non avrebbe potuto fare un compromesso – chiamiamolo così – con il mondo prussiano tedesco. Questo è punto fondamentale. Fichte muore precocemente nel 1814 e non è in grado di interagire quando Hegel sviluppa il suo pensiero. Perciò sparare troppo su Fichte è sbagliato, per cui ha torto Hegel a farlo, anche se è comprensibile. Lukács ha torto a sparare contro Fichte e Bruno Bauer.
SH: Ma il giovane Lukács era fichtiano.
PREVE: Il giovane Lukács era fichtiano, poi nel 1926 scrive un testo (inserito negli Scritti politici giovanili), in cui coglie l’occasione di una recensione di una monografia su Fichte per prendere le distanze da lui e per dire che ha ragione Marx a rompere con Bruno Bauer, e quindi anche con Fichte. Dice le stesse cose di Gramsci.
SH: Il ripresentarsi della rottura con il fichtismo nella storia di filosofia è indicativo, e non a caso si ripete sia in Lukács che in Gramsci. Il punto sta nel come intendere la prassi. Essi sostanzialmente arrivano alla conclusione che la prassi non si può ridurre a Tathandlung, a pura forza negativa, soggettiva dell’autocoscienza. Perciò ha senso la“correzione” hegeliana secondo la quale anche l’oggetto, la realtà storica, si autonega attraverso le proprie contraddizioni, e non viene soltanto negata dall’esterno.
PREVE: Sì, la dialettica fichtiana, ripresa poi da Gentile, annulla l’oggetto nel soggetto. È vero che Gegenstand non è Objekt, ma è anche vero che in Marx è anche Objekt – l’Objekt della conoscenza del capitalismo delle classi. È vero che l’oggetto per Marx è fondamentalmente un Gegenstand che è contrapposto alla classe del soggetto, ma rimane un residuo oggettivato: la struttura delle classi sociali, per dire nel modo althusseriano. Sono d’accordo con te, ma semplicemente l’unica cosa che vorrei dire è che sarei meno severo e più benevolente nei confronti di Fichte
SH: Si può essere benevolenti se i due sistemi filosofici hanno un rapporto puramente speculativo, astratto, ma se teniamo conto del contesto storico-sociale in cui una certa interpretazione emerge, secondo me è giustificato essere anche più severi.
PREVE: Ecco, stiamo discutendo finalmente di una cosa molto importante, e per cui forse mettendo a paragone le nostre opinioni possiamo avvicinarci all’oggetto, perciò finisci il tuo ragionamento.
SH: A questo punto spiego perché la riduzione di Gramsci, che è un hegelomarxista, a Gentile mi sembra un pericolo, e lo faccio nei termini dialettici accenati prima. Promuovere una filosofia della prassi insistendo sul potere negativo del soggetto che trasforma la realtà attraverso l’azione autocosciente, e così via, definisce un’antitesi, oggi, rispetto alla tesi dell’ideologia dominante che è proprio quella che vuole lasciare il mondo intransformabile. Ma questa antitesi, pur essendo un punto di partenza giusto, in fondo è metafisica, perché perde completamente la dimensione dell’oggettività e della storia, e in quanto tale si presta ad essere assorbita nella tesi, cioè sottomessa alla ideologia dominante, e sappiamo bene come va a finire. Intendo dire che il capitalismo contemporaneo si può benissimo riappropriare e nutrire dell’“attualismo”, come anche dei discorsi sul bisogno di fare, di agire e di trasformare, il che diventa un vebalismo e un eroismo vuoto dell’autocoscienza che parla della prassi ma non la fa, rimanendo chiusa in se stessa, appunto perché staccata dalla storia.
PREVE: Sono perfettamente d’accordo. Solo che io continuo a valutare il fatto che un giudizio storico su Fichte in primo luogo, e poi anche su Hegel e Kant, deve essere contestualizzato nel momento storico. Tutti questi pensatori giocano un ruolo distinto e in parte complementare. Cioè, noi abbiamo Fichte che fa una correzione di Kant uscendo dall’empirismo trascendentale e entrando nell’idealismo; Hegel secondo me corregge Fichte attraverso una prima fase schellinghiana, che secondo me è un equivoco, perché Scheling è peggio ancora di Fichte, secondo la mia opinione. È un errore ipostatizzare, cioè esagerare la prima tesi su Feuerbach di Marx, in cui dice che bisogna considerare l’oggetto non solo come Objekt, ma come Gegenstand, che effettivamente è un fichtismo. Ora, secondo me questo è vero. La filosofia di Marx è la filosofia della prassi…
SH: Dopo la prima c’è la seconda tesi su Feuerbach; secondo me vanno lette insieme. Cioè la seconda dice che la verità del pensiero, in quanto verità oggettiva, si dimostra nella prassi. Marx parla di Diesseitigkeit, “immanenza” del pensiero, Gramsci invece fa una traduzione sua, traducendola parola tedesca con “carattere terreno”, se non sbaglio. Ecco, in questa tesi secondo me Marx sposta l’accento sull’aspetto oggettivo, cioè il pensiero si misura rispetto alla prassi, e non viceversa, e dalla prassi (intesa anche come Bestehende Praxis, l’essere sociale) il pensiero trae il potere e la realtà.
PREVE: Secondo me sarebbe bene evitare di legare troppo Gramsci a Gentile o a Croce – o Marx a Fichte o a Hegel – perché sarebbe meglio considerarli separatamente. Dal punto di vista della critica dialettica, tu hai perfettamente ragione e nel mio linguaggio, che è convergente con il tuo, direi che in Marx l’oggetto è contemporaneamente Gegenstand e Objekt, e prevalentemente Gegenstand, ma il soggetto non lo crea come un atto puro (come direbbe Gentile) ma lo media con la realtà, che Marx definisce base materiale del mondo. Sostanzialmente dire che Gramsci è gentiliano è un errore. Ma oggi nessuno parla più – penso all’establishment universitario – né di Gramsci, né di Gentile.
SH: Secondo me Gramsci può essere alleato di Gentile soltanto in misura in cui hanno il nemico comune, cioè il positivismo.
PREVE: È vero, ma è un’alleanza puramente contingente. Gentile alla fine dell’Ottocento scrisse un libro chiamato La filosofia di Marx che Lenin lesse in francese e apprezzò tantissimo, cosa molto curiosa. Questo libro è composto di due parti. Nella prima Gentile esprime il suo disprezzo per il socialismo. Nella seconda parte parla molto bene di Marx, sostenendo che Marx è un idealista, tesi che sostengo anch’io, anche se ci sono arrivato autonomamente, senza Gentile, ma per altre strade, dopo un ripensamento di Althusser, Sartre, Marcuse, Lukács. Ecco, questo libro è interessante, ma non è la fonte di Gramsci; la fonte di Gramsci è semmai Sorel.
SH: Ma perché insisti così su Sorel?
PREVE: Sorel alla fine dell’Ottocento in Francia aveva già fatto perfettamente una filosofia della prassi, al cento per cento, solo che l’ha fatta in lingua francese e non tedesca, trascurando Hegel, Fichte, ecc. Siccome Sorel era un ingegnere, non un esperto di filosofia di professione, ha scritto una filosofia della prassi senza alcun riferimento all’idealismo tedesco. Se lo leggi, ti rendi conto che la vera fonte di Gramsci è Sorel. Lo stesso Gramsci da giovane si definiva soreliano, solo che Sorel ha avuto poca fortuna. Dato che scriveva su riviste di centro, di sinistra e di destra, cominciò ad essere diffamato come filofascista, cosa completamente falsa e folle. Tanto è vero che Lukács ne La distruzione della ragione definisce Sorel un confusionario, cosa pesante nel linguaggio di Lukács.
SH: Parliamo ancora della filosofia della prassi in Gramsci, come sinonimo del materialismo storico e come erede dell’hegelismo; lo dice esplicitamente. È nota una sua definizione della filosofia della prassi come filosofia dell’atto impuro, cioè reale – aggiunge Gramsci – nel senso profano della parola.
PREVE: Gramsci sicuramente interpretava il marxismo come filosofia della prassi, ma questo non era una novità assoluta. Negli anni ’20 e ’30, anche il cosiddetto “marxismo occidentale” di Korsch, di Lukács, lo interpretava come una filosofia della prassi. In Gramsci c’è un particolare richiamo alla tradizione del neoidealismo italiano; Gramsci utilizzava liberamente la terminologia filosofica dell’idealismo italiano per applicarla alla sua particolare concezione del materialismo storico. Ora, il materialismo storico equivale alla filosofia della prassi? Si può rispondere sia affermativamente, sia negativamente. Si può rispondere che il materialismo storico non può essere che la filosofia della prassi che consiste nella modificazione attiva del soggetto di un oggetto, il Non-Io, che appare non come Objekt, ma come Gegenstand. Oppure si può sostenere, in modo althusseriano, che il materialismo storico è una scienza della struttura dei rapporti di produzione che viene prima, o comunque insieme, alla modificazione della prassi. Si può rispondere in entrambi modi. La mia risposta personale è che il materialismo storico è una filosofia della prassi, ma non è soltanto una filosofia della prassi.
SH: Trovi accettabile l’espressione “atto impuro”?
PREVE: Accetto completamente l’atto impuro, cercando di capire cosa intendesse dire Gramsci con il termine “atto impuro”. Evidentemente è una polemica con l’atto puro di Gentile. Perché altrimenti non capirei come mai ci fosse quest’inisistenza sull’atto impuro anziché puro. Io penso che l’atto impuro fosse per Gramsci una prassi che doveva tenere conto della resistenza della società classista, la quale deve essere superata. Per cui non bastava dire che c’è un Non-Io, ma che c’era una società classista, perché il classismo rendeva possibile all’atto di manifestarsi nella sua purezza. Questa è la mia intepretazione, ma ti dico che non sono sicurissimo di essa.
SH: Se invece interpretassimo l’atto impuro in termini hegeliani come idea del soggetto mediato, e in quanto mediato “sporcato” dalla sostanza?
PREVE: In questo caso la sostanza è una metafora della struttura classista della società.
SH: E anche del mondo storico…
PREVE: Certamente anche del mondo storico; siccome il mondo storico è caratterizzato dal classismo, non è una insistenza vuota quella sul classismo, vale la pena sottolinearlo
SH: O in termini marxiani possiamo dire: l’atto impuro è il lavoro mediato con la materia, che corrisponde dialetticamente alla natura trasformata dal lavoro.
PREVE: La natura mediata dal lavoro è certamente un concetto della filosofia della prassi gramsciana. Però tenderei a dare un’interpertazione un po’ diversa, quella che ti ho detto prima, del classismo.
SH: Questa idea dell’impurità è interessante, perché Laclau definisce l’egemonia gramsciana come universalità contaminata dalla particolarità, un’universalità impura, diciamo così. È un modo di dialettizzare il concetto di egemonia in Gramsci.
PREVE: Qui abbiamo a che fare con due diversi problemi: il primo è cioè se Laclau interpreti correttamente il pensiero di Gramsci; il secondo è capire cosa intendesse Gramsci per egemonia. Ma personalmente l’espressione di Laclau mi sembra strana e poco pertinente, perché non la capisco bene, nel senso che mi sembra una complicazione ulteriore di qualcosa più seplice. Nel linguaggio gramsciano la concezione di egemonia si contrappone al concetto di dittatura senza egemonia. Gramsci, non dimentichiamolo, era interno a una polemica tra socialisti e comunisti, che negli anni ’20 e ’30 sostenevano, con Lenin, il concetto di ditattura del proletariato. Al tempo di Tito e di Brežnev non ci credevano più, mentre allora ci credevano ancora. Gramsci, che conosceva bene l’articolazione sociale italiana (i contadini, la loro mentalità, ecc.) si rese conto abbastanza precocemente che il comunismo era minoritario in Italia. Lo era anche in Russia, ma in Italia era sicuramente minoritario. Non riusciva ad uscire dal suo carattere minoritario ma avrebbe dovuto allargarasi, e definiva tale allargamento egemonia, cioè pensava che la classe operaia dovesse far valere i propri valori, quelli dell’organizzazione produttiva, all’interno dell’intera società. Perciò secondo me Laclau crea una teoria …
SH: Ma quello che dici riconferma che l’egemonia è pensabile nei termini universale-particolare, cioè una classe particolare diventa classe universale, diventa rappresentante di tutta la società.
PREVE: Questa è la concezione che c’è anche in Lukács in Storia e coscienza di classe. Lukács e Gramsci non si conoscevano, ma entrambi negli anni ’20 sono arrivati alle conclusioni simili, secondo le quali l’egemonia era un processo di universalizzazione reale della classe operaia che usciva dalla sua particolarità sindacale-produttiva, in modo che i propri valori potessero diventare quelli dell’intera società. In questo senso Gramsci è un uomo degli anni ’20.
SH: Sarebbe anche sbagliato analizzare il concetto di egemonia nei termini puramente teorici senza tener conto dell’esperienza di quegli anni e di tutte le sconfitte subite.
PREVE: Gramsci, come tutti i grandi rivoluzionari, fa il bilancio storico della sconfitta e cerca di imparare dalla sconfitta per le volte successive. Abbiamo perso qui e qui, pertanto la prossima volta cerchiamo di agire in modo da non essere più sconfitti. Tutti i Quaderni del carcere sono una grande riflessione che gira intorno al concetto di bilancio storico di una sconfitta. Vero, non sono soltanto questo, ci sono gli altri aspetti, ovviamente, ad esempio non è che parlare di Pirandello sia solo riconducibile alla sconfitta. Gramsci secondo me ha vissuto una tragedia: la tragedia dei comunisti che ci credono. Perchè i comunisti si dividono in due grandi categorie: quelli che ci credono costituiscono 10 per cento e le canaglie schifose che fanno il 90 percento. Gramsci faceva parte di quel gruppo, numericamente limitato, dei comunisti del Novecento che ci credevano. Generalmente anche gli altri, le canaglie, quando sono giovani ci credono, però perdono la fede in 3/4 anni, o 5/6, dipende da quando scendono a compromessi con il potere. Invece Gramsci è un raro esempio di persona che ha avuto quella che Lukács chiama “passione durevole”. Come Lukács, che morì comunista a 86 anni. Questo tipo umano non esiste più.
SH: C’è anche un altro momento esplicitamente hegeliano in Gramsci, quando dice che non si può capire niente di filosofia della prassi senza l’identità di reale e razionale. Solo questo basta per capire Gramsci: la nottola di Minerva è tutt’altro che il simbolo di un contemplativismo impotente e passivo.
PREVE: Direi che in Gramsci la verità è concepita come unità dinamico-dialettica fra soggetto e oggetto, non come atto puro del soggetto semplice. Questo è differente dalla certezza delle scienze della natura, per le quali per principio il soggetto è staccato dall’oggetto, e il soggetto riflette l’oggetto. L’appartenenza di Gramsci alla scuola hegeliana, più che a quella fichtiana, secondo me è giusta. Lui era influezzato sia dall’una che dall’altra. L’elemento fichtiano gli è arrivato tramite Sorel, però non è un fichtiano. Questo è sempre dimenticato, e voglio ripeterlo: Gramsci era un allievo di Sorel. Se lo dimentichiamo non possiamo più capire niente. Perché in Italia si è formato un mito ai tempi del vecchio PCI, la cosiddetta tradizione italiana del marxismo per cui Gramsci sarebbe stato allievo di una tradizione che cominca da Vico e passa per Labriola. Questo è magari in parte anche vero, perché in Vico c’è l’idea che il vero è storico, verum ipsum factum. Di vero si parla come fatto, metre nelle scienze della natura il vero è un accertamento del dato.
SH: Ma questa insistenza su Sorel non la condivido. Gramsci, anche se si definiva soreliano, lo leggeva, usava, era ispirato etc. ma non era soreliano, anche come non era gentiliano. Un punto di disaccordo sta nella questione del Partito. Sorel, mi pare, è più sindicalista, mentre Gramsci è sulla linea leninista, il partito come classe organizzata.
PREVE: Questo è vero. La differenza tra Sorel e Gramsci è nella questione del leninismo e del partito. Questo paragone non può essere fatto, perché io parlo di Sorel nel 1905, e tu parli del Gramsci nel 1930. Gramsci una volta entrato nel Partito Comunista, assume completamente la teoria leninista del partito e diventa leninista. A quei tempi era impossibile essere comunisti senza essere leninisti. Il pensiero di Sorel c’era 20 anni prima e io non darei troppa importanza alla differenza tra partito e organizzazione sindacale. Sto parlando dal punto di vista filosofico, cioè la filosofia di Sorel è bergsonismo e slancio vitale. Anche per Gramsci la prassi è slancio vitale. La prassi gramsciana è prassi vitale, naturalmente mediata dal rapporto con il lavoro e con la natura. Penso che una divergenza sul piano organizzativo della forma partito sia vera, però sul piano strettamente filosofico Gramsci è un allievo di Sorel.
SH: Se ci penso, ci sono momenti vitalistici e anche volontaristici in Gramsci. Anche la famosa affermazione “ottimismo della volontà e pessimismo della ragione” punta a una scissione tra volontà e ragione. Ma io considero questa affermazione poco gramsciana, anche se è di Gramsci.
PREVE: E io considero questa frase una sciocchezza.
SH: Per un hegeliano dev’essere assurda..
PREVE: … perché porta a una separazione, dove ci sarebbe la ragione che fa un diagnosi infausta, pessimistica, però c’è la volontà. Secondo me è una frase forse simpatica, ma è una sciocchezza.
SH: Per giunta si scontra con tutte quelle idee dell’unità tra spontaneità e organizzazione, tra direzione (ragione) e irruzione (volontà).
PREVE: Come tutti i pensatori anche Gramsci è contradditorio. Quando era di moda in Italia a me non piaceva, perché vedevo che non era tanto Gramsci, quanto la copertura del Partito di Togliatti e di Berlinguer.
SH: Si nota infatti nei tuoi libri l’assenza di Gramsci. Che secondo me è una mancanza.
PREVE: Sì, tu lo vedi come un difetto. Ora ti rispondo, perché questa critica è giusta, motivata e intelligente. Ogni pensatore che pensa autonomamente deve fare una selezione fra i vari tipi di pensiero con cui si trova di fronte. Perché se i pensatori interessanti ci fossero, solo 20 già sarebbero tanti. È vero che, all’interno del mio pensiero, Gramsci non c’è. Il mio vero problema è stato sempre quello, che ho capito molto presto, che il capitalismo non può essere superato a sinistra, come dice Jean-Claude Michéa, perché la sinistra da un lato, difende lavoro salariato, i poveri ecc., e dall’altro lato recipisce completamente l’ideologia illuministica del progresso e la riproduzione dei costumi come modernizzazione. È chiaro che all’interno di questo mio interesse Gramsci non c’era. Inoltre Gramsci era portatore di una concezione chiamata intellettuale organico, secondo la quale l’intellettuale deve essere organico ad una classe sociale, in questo caso borghesia o proletariato. Siccome io non credo nell’intellettuale organico, perché l’intellettuale deve essere indipendente e se si sottomette coscientemente, da solo, al Partito si chiude in una prigione e diventa una mente prigioniera. Siccome io, sin dagli anni ’60, ho sempre odiato l’idea dell’intelletuale organico – che secondo me non significa assolutamente niente (e infatti oggi si vede il totale fallimento) – Gramsci non mi interessava. Io, da italiano, andavo in Francia a studiare e mi capitava che mi dicessero: «Gramsci è importante». Perché i francesi usavano Gramsci contro la linea politica dogmatica del Partito Comunista Francese, ma io dicevo: «Gramsci non è poi così interessante». Mi guardavano un po’ stupiti del fatto che io, pur venendo dal paese del grande Gramsci, non fossi in grado di apprezzarlo. Questo era inevitabile, ma poi per serietà ho cominciato a leggere Gramsci e mi sono convinto che fosse un’uomo degli anni ’20, interessante ma senza cose da dirci in più, se non nel senso archeologico, come Leibniz. Come un pezzo della storia. Quindi non sono d’accordo con Laclau e con tutti gli altri che cercano in tutti i modi di attualizzare Gramsci. Secondo me il modo migliore di studiare Gramsci è di studiarlo nel suo contesto storico, ma non pensare che Gramsci sia attuale.
SH: Su questa cosa non sono d’accordo. Va bene studiare Gramsci nel suo contesto storico, ma l’attualità sta nel valore dalla sua concezione del mondo prodotta dalla riflessione sopra quel contesto storico.
PREVE: Gramsci non è attuale, perché è portatore di una concezione totalmente aufgehoben, superata. Diceva che l’Italia ha bisogno del moderno principe, ma quello a cui pensava lui non poteva essere un moderno principe, perché il Partito Comunista era prepotente e malvagio. I dirigenti erano dei mentitori.
SH: Ma il moderno Principe era una critica alla burocratizzazione del partito, e anche alla sua militarizzazione.
PREVE: Io sono amico del principale gramscista francese, André Tosel, di cui ho una grande stima personale e umana. Conosco bene i suoi argomenti intelligenti ma non li condivido. Gramsci è un pensatore storicamente situato, congiunturale, almeno che non si consideri tutto come attuale. Anche Platone allora sarebbe attuale e pure San Tommaso.
SH: Sì, ma se abbiamo detto che Gramsci è un hegelomarxista, la sua attualità sta già in questa definizione. Un riesame di Gramsci può far parte della riattualizzazione di Hegel e di Marx.
PREVE: Il modo migliore di riattualizzare Hegel è farlo direttamente, senza mediazioni. C’è chi propone di riatualizzare Hegel passando per Marx, Gramsci, ecc., ma secondo me questo approccio è sbagliato. Il modo migliore è riattualizzarlo direttamente nel suo contesto storico e mostrare come Hegel non sia sorpassato perché ha fatto una precocissima critica all’illuminismo, senza però volerlo stroncare. Questo è un problema che abbiamo anche noi oggi. Oggi abbiamo il problema che Hegel ha capito perfettamente, che l’illuminismo distrugge la vecchia prigione, tuttavia al suo posto non sostituisce alcunché. Solo che Hegel non vuole neppure arrivare alla conclusione fichtiana del regno animale dello spirito. Per cui sono contrario alle strategie di riattualizzazione passando per un autore posteriore. Questo non può che portare, in ultima istanza, a delle forme di confusioni e fraintedimenti anche gravi.
SH: Non voglio dire che Hegel non basta a se stesso e quindi ci vuole Gramsci per renderlo più attuale. C’è rischio che uno pensi anche questo, ma non si tratta di ciò. Se Gramsci, pur non essendo uno studioso professionale di Hegel, si rivela hegeliano, a partire anche da quel contesto storico e politico di cui dici tu, allora questo è una conferma del das Ding del pensiero hegeliano che si oggettivizza in diversi autori.
PREVE: I grandi pensatori si distinguono dai piccoli pensatori, perché i piccoli pensatori intercettano qualcosa nel momento storico in cui vivono, ma non ne colgono il nucleo. Hegel secondo me ha capito che la critica di Kant era irreversibile – non si poteva tornare al prima di Kant – ma che quello di Kant era soltanto un empirismo trascendentale, una forma di lockianesimo tedesco, e si portava dietro il fatto che l’illuminismo distrugge senza sostituire. Distrugge la comunità ma non la fa. Questo Hegel lo ha capito nel 1810 ed ancora è attuale oggi. Non bisogna passare per Lukács, Gramsci o Žižek e così via, ma andare direttamente alla fonte.
SH: È anche questione di sviluppo creativo di un pensiero, una sorta di Wirkungsgeschichte del pensiero di un autore, e non soltanto di capire cosa ha detto o voleva dire questo autore.
PREVE: Non è questione di sviluppare creativamente Marx, Hegel o Fichte, ma di creare un codice coerentizzato di pensiero che utilizza gli elementi precedenti. Ad un certo punto sviluppare un pensiero è la fase preliminare, nella prima fase si coerentizza, ma arriva un certo momento in cui si deve volare con le proprie ali. Uno che vola con due ali non deve più coerentizzare nessuno, ma vola con le sue ali
SH: Un altro tema classico marxista è il rapporto tra struttura e sovrastruttura, che Gramsci traduce con “superstruttura”, parlando di un rapporto dinamico tra queste due.
PREVE: Quello che in tedesco si chiama Wechselwirkung, azione reciproca.
SH: Vorrei chiederti cosa pensi di un’interpretazione dei concetti di struttura e di sovrastruttura come concetti relazionali e non tanto come designazione di diversi campi della vita sociale. Cioè, struttura e sovrastruttura visti come modi di rapportarsi con la società, con il mondo della produzione, con l’economia, con lo Stato, la politica, ecc.
PREVE: Secondo me bisogna distinguere ciò che pensa Marx da ciò che pensano gli altri e da ciò che penso io. Marx aveva un’idea della Basis e della Überbau con prevalenza in ultima istanza – questa è l’espressione che usa – della base sulla sovrastruttura. In Marx non c’è soltanto una azione reciproca, ma c’è proprio il primato della struttura sulla sovrastruttura. Filologicamente credo che sia così, è Marx a dirlo. Sulla Basis – che sarebbe rapporto tra rapporti di produzione e forze produttive – si innalza una serie di Überbauen, di sovrastrutture. Allora non c’è solo Wechselwirkung, ma c’è anche il primato della Basis. Dopodiché Engels cerca di combinare le cose, rimanendo sempre un po’ sul vago. Se chiedi a me cosa penso è un’altra cosa. Io penso che sia una metafora ingannatrice, perché di fatto fa diventare struttura solo le forze produttive. In Marx c’erano anche i rapporti di classe, ma le forze produttive hanno il primato, è quello che Robert Brenner ha definito “marxismo smithiano”. Si chiama marxismo, ma in realtà era Smith che pensava questo, per cui si ritraduce il linguaggio di Marx nel linguaggio dell’economia politica inglese del ‘700, con il primato delle forze produttive. Poi, secondariamente, è presente un errore di fondo, cioè la mancata distinzione fra ideologia e filosofia. Perché, secondo me, arte-religione-filosofia non sono sovrastrutture, è l’ideologia ad essere sovrastruttura, ma le altre forme no, perché hanno un’autonomia nella storia dello Spirito, Hegel aveva ragione. Su questa cosa non sono d’accordo con Marx, perché Marx attua una semplificazione e riduzione dell’elemento artistico, religioso e filosofico a elemento puramente ideologico, che è la malattia mortale di Lenin e del leninismo – che trasforma la filosofia in ideologia – il che vuol dire aprire la strada del nichilismo.
SH: Ma, tornando al tema, possiamo intendere sovrastruttura e struttura come modi di rapportarsi e non come due oggetti?
PREVE: È chiaro che la differenza tra sovrastruttura e struttura è una differenza topologica, come direbbe un ingegnere, per cui c’è un sopra e c’è un sotto. Il tavolo è la struttura e sopra il tavolo c’è la tazzina, per cui è un immaginario topografico e spaziale. Secondo me questo inganna, perché non tiene conto del fatto che la cosiddetta sovrastruttura entra talmente e profondamente nella mentalità umana della riproduzione per diventare essa stessa strutturale. Cioè, il cattivo comportamento burocratico dei comunisti alla fine diventa la struttura del regime malato, non soltanto una sovrastruttura.
SH: Appunto, si tratta della produzione di una necessità, cioè si produce politicamente una struttura determinante, stringente se vogliamo, perché determina i rapporti sociali. La struttura è un modo di dire necessità, condizionamento, mentre la sovrastruttura è un modo di rapportarsi con la pràxis dal punto di vista dell’autocoscienza sociale emancipata dalla necessità. Ovvio, è solo una interpretazione.
PREVE: Se parliamo di Marx, con il termine struttura vuol indicare il rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione. Personalmente considero la dicotomia struttura/sovrastruttura come provvisoria all’interno della storia del sapere marxista, cioè una delle categorie come ad esempio le teoria del flogisto in chimica, che ha avuto una sua importanza per un centinaio di anni, ma che doveva essere abbandonato. Certo, la struttura del capitalismo oggi è il capitale finanziario di Wall Street, è evidente. Volendo dire che è struttura quello, siamo d’accordo. Ma secondo me rimanere i prigionieri di alcune categorie è sbagliato. Ma la comunità dei marxisti nel mondo non vuole abbandonare i concetti.
SH: L’ultima cosa che ti chiedo è il rapporto tra Stato e società civile. Gramsci spesso viene interpretato come il teorico della società civile, ma è sbagliato. Non soltanto per il suo elogio di Lenin come grande statista. Ci sono anche brani in cui afferma che la scarsa coscienza dello Stato è un segno della scarsa coscienza di classe e i subalterni rimangono subalterni finché non sono capaci di farsi lo stato.
PREVE: Questo rompe completamente con l’idea dell’estinzione dello Stato. Gramsci non ha mai creduto all’estinzione dello Stato.
SH: Ma questo tema ormai classico è anche più complesso nello stesso Marx e anche in Engels.
PREVE: Marx è pieno di contraddizioni. Parlare di Marx senza capire che è pieno di contraddizioni secondo me non ha più molto senso. Marx non ha mai coerentizzato il suo pensiero. Ha tenuto insieme elementi positivisti, messianici, romantici, illuministi, mescolati insieme, il che alla fine ha dato origine ad un profilo non coerentizzato. Engels e Kautsky lo coerentizzarono, ma dopo la sua morte. Tutto ciò è finito vent’anni fa. C’è ancora? No. Perché non poteva funzionare così, e se non può funzionare crolla. Per esempio, è facile dire: «non siamo statalisti, ma noi siamo per un samoupravljanje (autogestione)». Ma la classe operaia non era egemone. I marxisti sono diventati vittime delle proprie menzogne; la cosa peggiore è credere nelle proprie menzogne. Comandava la burocrazia comunista. Gramsci pensava che la classe operaia non fosse egemone, ma potesse diventarlo. Io non lo penso, ho rotto con questo dogma fideistico.
SH: Però se abbiamo rotto con la classe operaia come il soggetto della futura rivoluzione, allora questo spazio chi lo occupa?
PREVE: Non lo so, onestamente non lo so. Se lo sapessi sarei un pensatore più grande di Marx.
SH: E non pensi che l’uscita dal capitalismo e il passaggio ad una società comunista sia automatica?
PREVE: No.
SH: Vale a dire, ci vuole un soggetto?
PREVE: Sì, ma questa soggettività in questo momento è un punto interrogativo. È sconosciuta. Non voglio fingere di sapere quello che non so. Per il momento io vedo un sviluppo capitalistico in Cina, India, Brasile, enorme, e il dominio del capitale finanziario, pensa al Governo Monti in Italia e così via, e non vedo altro. Fra cent’anni sarà magari diversamente. Forse qualcuno lo vede e ti può indicare il General Intellect, il lavoratore collettivo ecc., le cose di Toni Negri.
SH: Molti marxisti sono ambigui a tal proposito.
PREVE: Sono ambigui perché non hanno il coraggio di dire apertamente che Dio non c’è. Poi, magari come dice Heidegger, solo un Dio può ancora salvaci. Ma questo Dio ora non c’è.
Torino, dicembre 2012.
Gent.mo professore Preve, sono preso da commozione per l’onestà intellettuale (oltre al pathos) che alberga in tutta la Sua intervista. Chapeaux!
Mi sia permessa, tuttavia, qualche glossa.
I) Con Vico si passa dalla formula della scolastica medievale -propria della ontologia classica- ‘verum est esse’ alla formula della ‘Scienza nuova’, ‘verum ipsum factum’ per giungere alla formula scientifica di Marx ‘verum est faciendum’.
II) Forte è il senso del BUND’ in Hegel, senso che attraversa la II metà dell’Ottocento tedesco costellato delle migliori accademie del mondo, per giungere a chi saprà far pensare politicamente il popolo tedesco con le conseguenze tragiche a tutti note.
III) Potrei revocare in dubbio il Suo giudizio sul criticismo kantiano ritenuto un empirismo trascendentale, una sorta di lockianesimo tedesco? Grazie di tutto. Carlo Ghiringhelli