Dalla crisi del marxismo a un marxismo della crisi?
feb 22nd, 2010 | Di Piero Pagliani | Categoria: Dibattito Politicodi Piero Pagliani
Il progetto imperiale statunitense è in visibile riflusso. L’elezione di Barack Obama ne è il sintomo più vistoso. Ormai solo gli ottusi senza speranza non riescono a capire che quella attuale è una crisi capitalistica sistemica che, quindi, non lascerà gli assetti geopolitici come li ha trovati. Ciò che è in crisi non è la finanziarizzazione minata dai titoli tossici, non è l’economia reale lasciata senza ossigeno creditizio e tradita da finanzieri e manager attratti dalle chimere della speculazione finanziaria: ciò che è in crisi è il ciclo capitalistico di accumulazione globalmente egemonizzato e coordinato dagli Stati Uniti, ciclo iniziato alla fine della II Guerra Mondiale, l’evento che risolse la grande crisi del ’29 e consentì di riempire il vuoto egemonico mondiale lasciato dal declino dell’impero britannico. Il resto sono conseguenze, sintomi, fenomeni ed epifenomeni collegati.
L’11/9 e ciò che ne è seguito ha costituito un tentativo degli USA di contrastare il declino della loro egemonia occupando le aree considerate strategiche per posizione geografica e per materie prime indispensabili (innanzitutto gli idrocarburi fossili): Medio Oriente e Asia Centrale. L’Heartland, il Cuore della Terra. Da lì si poteva tenere sotto controllo quello che sembrava il future competitor globale: la Cina. E si potevano tenere a distanza i suoi possibili alleati più pericolosi, la Russia e l’India.
Era ciò che in un saggio del 2003 avevo chiamato “imperialismo preventivo”.
Un concetto che non ebbe assolutamente seguito nella sinistra no-global, alteromondista, di classe e con altre qualifiche “antagoniste” e “radicali”; e men che meno in quella moderata.
In quest’ultima nemmeno ci si accorgeva dei sintomi di una crisi incipiente e quando la crisi si è conclamata si è voluto vedere lo zampino di oscure forze politiche ed economiche; per giunta proprio quelle che in rarissimi casi si sottraggono oggettivamente all’egemonia statunitense di cui la sinistra moderata (con la copertura di quella “radicale” e con poche eccezioni personali) sono i paladini.
Nella prima, invece, si continuava a immaginare un neocolonialismo rapinoso rappresentante degli interessi di un Capitale concepito come un Behemoth sostanzialmente unitario. E’ solo in questa prospettiva che si può infatti sostenere la trasformazione del comunismo da movimento politico che si inserisce con durezza nelle contraddizioni intercapitalistiche (si ricordi il treno blindato tedesco con cui Lenin arrivò in Russia per fare la rivoluzione) in un salmodiante “andare verso gli oppressi” molto simile all’andare verso il popolo di manzoniana memoria, ovvero un tutto indistinto dove la lotta di classe, la mensa della Caritas, le rivolte degli indios latinoamericani o dei contadini asiatici rientrano nello stesso quadro ideale di resistenza. Ma resistenza a cosa? Al capitalismo neo-liberista, dove l’aggettivo “neo-liberista” nasconde di tutto: dalle nostalgie keynesiane-assistenzialiste magari sposate con la teoria dei “beni comuni”, allo statalismo lasalliano confuso allegramente col comunismo marxiano.
Ma, finalmente, ecco la crisi dell’odiato neoliberismo. Esultiamo! I più moderati già prevedono la rivincita del welfare-developmental state (sempre concepiti come anticamera del socialismo) e i più audaci addirittura la crisi del capitalismo tout-court, vuoi perché si è rifatta viva la “caduta del saggio di profitto” come “previsto” da Marx, vuoi perché ormai il capitalismo è “immateriale” e non fa che approfondire l’ineffettualità della “legge del valore” che dovrebbe stare alla sua base. Oppure perché il capitalismo (neo-liberista) ha polarizzato la popolazione mondiale in un 20% di ricchi e in un 80% di dannati della terra dimostrando, come già “previsto” da Marx e da Engels, di non essere in grado nemmeno di mantenere i propri schiavi (ora globalizzati) e in aggiunta – novità teorica – di devastare le risorse ecologiche. O infine per un mix di queste motivazioni.
Eppure quel concetto di “imperialismo preventivo” non mi era venuto in mente come arguto gioco di parole, per spiritosa assonanza con le “guerre preventive” di Bush. Era stato l’esito di una lunga riflessione sulle tesi che alcuni importanti studiosi, specialmente statunitensi, da tempo proponevano e che io filtravo attraverso la lettura di due marxisti italiani maudites ed emarginati: Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve. Ma queste tesi venivano se del caso travisate e più spesso del tutto ignorate, specialmente in un’Italia in tutt’altre teorie affaccendata.
In particolare facevo riferimento a Giovanni Arrighi che già più di dieci anni fa avvertiva che eravamo in vista della fase terminale della crisi sistemica del “ciclo statunitense”.
Oggi qualcuno sembra accorgersene (ma non a “sinistra”). Così vediamo che i giornali della “borghesia” ammettono tranquillamente che “il mondo non sarà più targato Stati Uniti”. Ma, come al solito, “targa” non riesce a prendere un significato molto diverso da “griffa”. Si continua a rimanere sul puro piano dell’economia: a destra come a sinistra, l’unica cosa su cui si conta è che di riffa o di raffa ha da passà ‘a nuttata.
La sinistra “antagonista” o “di classe”, come avrebbero detto la prostituta Gail in Sin City, “è morta ma è troppo stupida per accorgersene”. E così continua a gesticolare, a far finta di attaccare o di difendersi. I suoi cavalli di battaglia sono la democrazia, la redistribuzione del reddito e la de-finanziarizzazione dell’economia. In linea di massima potrei essere d’accordo su tutti e tre gli obiettivi: anche se non sono “comunisti”, sembrerebbero sensati (ad ogni modo li ho dovuti estrarre dalla polvere confusionaria con cui li coprono).
Ma cosa significa tutto ciò nella fase finale – che può protrarsi molto a lungo – di una crisi sistemica globale e non nella generica lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, dei poveri contro i ricchi o degli oppressi contro gli oppressori? Forse occorrerebbe prima capire perché l’economia si è finanziarizzata per poi valutare come e con che forze politiche e sociali de-finanziarizzarla. Forse bisognerebbe capire quali forze sono in conflitto, quali stanno vincendo e quali stanno perdendo e, soprattutto, che sviluppi prospettano a livello di formazione nazionale, europea e poi globale, per decidere quali blocchi sociali e quale alleanze internazionali favorire.
E, per finire, bisognerebbe capire che se di “fascismo” vogliamo parlare, il punto di snodo sta proprio qui, non in Berlusconi, Fini o Bossi e nemmeno nei nostalgici di estrema destra.
L’assetto egemonico planetario nato dalla II Guerra Mondiale è in crisi. L’aspetto decisivo non è tanto che esso sia nato dalla lotta al nazi-fascismo. Questa lotta ne è stata la veste ideologica, importante certo (tutta la mia famiglia ne ha preso parte) ma comunque non quella sistemica, non quella i cui effetti si sono fatti sentire “strutturalmente”. Prova ne è il rimpianto per un’occasione perduta con cui si è a lungo pensato alla Resistenza. Prova ne è la continua denuncia del “tradimento” di una Costituzione nella cui parte programmatica una “rivoluzione promessa” ne ripagava una mancata. Prova ne sono, infine, i crimini “fascisti” e “contro l’umanità” che si sono perpetrati contro la Serbia e l’Iraq proprio sotto la bandiera della lotta al fascismo, per la democrazia e per i diritti umani, onda lunga della lotta contro il “male assoluto”.
Il problema “fascismo” sta dunque altrove. Si situa in quel terreno dove si gioca la partita della rinascita di una sovranità nazionale, dopo l’internazionalismo globalizzato “targato USA” e la sudditanza alla finanza e alla politica statunitense portata avanti da tutti i governi della Seconda Repubblica, con una furfanteria particolare da parte di quelli di centrosinistra, e dall’Unione Europea nel suo complesso.
Credo che non sorprenda che di fronte a un riflusso dello stato-nazione finora egemone e l’apertura lenta e, per ora, cauta di una fase policentrica (l’unica che può far sperare in reali cambiamenti in senso anticapitalistico) gli stati nazionali – dati troppo in fretta per estinti sia dai teorici di destra della “fine della Storia” sia dai teorici di sinistra dell’ “impero” – giocheranno un ruolo rinnovato. In questo contesto, in questo tipo di crisi, se non si vuole gridare nel deserto non si può fare politica senza sporcarsi le mani con i concetti di “nazione” e di “territorio” (David Harvey e Giovanni Arrighi stanno ripetendo da anni che addirittura non si può parlare di capitalismo senza usare quelle due nozioni; e Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa aggiungono che senza di essi non si può parlare nemmeno di anticapitalismo).
Se ciò è vero, come credo che sia vero, allora è evidente il pericolo. Il marxismo ha quasi sempre lasciato ai suoi avversari questi punti centrali. Un po’ per un legittimo rifiuto del nazionalismo razzista imperialistico e coloniale, ma più che altro perché scambiando il modello del “modo di produzione capitalistico” con la complessità del reale, la tradizione marxista non ha visto altro che l’internazionalismo proletario e la rivoluzione mondiale. Ci volle il realismo di Lenin – che pure credeva in entrambe le cose – per criticare l’ostilità di due grandi rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Karl Radek (alias “Parabellum”) all’idea di “autodeterminazione delle nazioni” e per capire in generale che al di sotto del modello operava una realtà “difforme e poco armonica”:
«Il manifesto di Zimmerwald, come la maggior parte dei programmi e delle risoluzioni tattiche dei partiti socialdemocratici, proclama “il diritto delle nazioni all’autodeterminazione”. Il compagno Parabellum (nei nn. 252-253 della Berner Tagwacbt) dichiara “illusoria” la “lotta per l’inesistente diritto di autodeterminazione” e ad essa contrappone la “lotta rivoluzionaria di massa del proletariato contro il capitalismo”, assicurando, nello stesso tempo che “noi siamo contro le annessioni” (questa affermazione è ripetuta cinque volte nell’articolo di Parabellum) e contro ogni specie di violenza ai danni delle nazioni. Gli argomenti di Parabellum si riducono a questo: oggi tutti i problemi nazionali (Alsazia-Lorena, Armenia, ecc.) sono in sostanza problemi dell’imperialismo; il capitale ha superato i limiti degli Stati nazionali; non è possibile “girare all’indietro la ruota della storia” verso l’ideale ormai sorpassato degli Stati nazionali, ecc.»
Dopo una sfilza di critiche a Radek, Lenin aggiunge:
«Gli utopisti piccolo-borghesi, che sognano l’eguaglianza e la pace tra le nazioni in regime capitalista, hanno ceduto il posto ai socialimperialisti. Parabellum combattendo contro i primi combatte contro i mulini a vento, e fa, senza volerlo, il giuoco dei secondi.»
Per poi finire:
«Come Marx nel 1869 chiedeva la separazione dell’Irlanda non per il frazionamento, ma per un’ulteriore libera unione tra l’Irlanda e l’Inghilterra, non per “giustizia verso l’Irlanda” ma in nome degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato inglese, così anche noi consideriamo la rinuncia dei socialisti della Russia alla rivendicazione della libertà di autodeterminazione delle nazioni nel senso da noi indicato, come un aperto tradimento della democrazia, dell’internazionalismo e del socialismo.»
[Lenin, ottobre 1915]
E per fortuna che ai tempi di Lenin non c’era ancora stato il nazismo, altrimenti sono pronto a scommettere che i socialdemocratici, la sinistra “di classe” di allora (e sicuramente lo era molto di più dei nostri attuali “comunisti”), lo avrebbero accusato di essere un idolatra del Blut und Boden. Perché ci si può girare attorno quanto si vuole, ma il concetto di “autodeterminazione delle nazioni” immette inevitabilmente in circolo elementi come “nazione” e “territorio”, “cultura” e “tradizione”. E per non rimanerne intossicati bisogna affrontarli in un’ottica marxista e leninista rinnovata, ovverosia che guarda da qui in avanti e non indietro. Non bastano gli scongiuri, non bastano i “guaritori” che ripetono le litanie della lotta di classe o della ribellione degli oppressi, agitando amuleti a forma di falce e martello.
Comunque, se vogliamo rimanere puri e incontaminati possiamo farlo. Si sappia però che abbiamo verosimilmente di fronte due alternative: o rischiamo di consegnare le prossime mosse a qualcuno che potrebbe congedare nemmeno troppo cortesemente la destra e la sinistra, magari facendoci persino rimpiangere i tempi in cui questi due insopportabili schieramenti giocavano a riflettere l’immagine dell’uno in quella dell’altro (“Tu sei un catto-comunista, toh. E tu sei un clerico-fascista, tié”); oppure rischiamo di lasciare che questi due orribili schieramenti continuino a spadroneggiare, ora l’uno ora l’altro o in condominio, protetti dai loro padrini statunitensi.
Se invece vogliamo affrontare seriamente il problema dobbiamo essere consci dei rischi, delle poste in gioco pratiche e teoriche, delle differenze nette ma anche delle sottili linee rosse di demarcazione. Inutile nasconderselo: si camminerà su territori che quando va bene non sono di nessuno, ma spesso sono borderline.
E’ un lavoro necessario per tentare di evitare catastrofi come quelle già viste nella prima parte del secolo scorso, ma poco piacevole, duro e che espone all’odio di tutto l’establishment di sinistra: si è fortunati quando si è presi per rinstupiditi o impazziti, perché a volte si è persino accusati di essere passati “dall’altra parte” o addirittura di aver fatto un “giro di 180°”. Cioè dall’estrema sinistra all’estrema destra. Personalmente posso dire che forse sono rinstupidito o impazzito, non posso escluderlo da solo, ma le altre accuse sono emerite scemenze: sottoporre a critica alcune categorie e previsioni di una grandiosa e geniale teoria (di cui non ci si vuole affatto sbarazzare) e presidiare i confini di regni di cui si vuole evitare l’invasione, non significa, come è evidente, servire il miserevole apparato pseudo-teorico dell’avversario, ma al contrario guardare nella direzione da cui viene il pericolo reale e non andare invece a combattere i mulini a vento dalla parte opposta.
Dovrebbe poi essere chiaro che criticare la diagnosi e la terapia di un medico non vuol dire né censurare le intenzioni del medico né la medicina nel suo complesso. E tanto meno vuol dire criticare il paziente. E quindi non è accettabile l’accusa di stare abbandonando le “idealità comuniste”, perché al contrario si vogliono proprio verificare le ragioni che hanno sostenuto scientificamente e storicamente quelle idealità, per evitare che la loro parte ancora vitale venga lasciata alla rodente critica dei topi assieme alle scorie e assieme a tutti gli sventolati ideali. Perché è proprio questo ciò che sta accadendo.
Sono scemenze, quindi, a volte sgradevoli, giustificabili solo dal fatto che in un momento di crisi è più istintivo affidarsi a ogni tipo di fedeltà collaudata che non andare a esplorare nuovi mondi. Un po’ come in barca a vela durante una tempesta: gli ingenui cercano di avvicinarsi alla costa, gli esperti cercano di prendere il mare aperto. Anche questo è un rischio, d’accordo. Ma un tipo di rischio differente: si è sballottati dai flutti, il porto di salvezza appare lontano, si rischia di non sapere bene dove si sta andando, ma per lo meno si sa che non si finirà sugli scogli.