La Guerra sociale della classe globale
nov 25th, 2012 | Di Eugenio Orso | Categoria: Capitale e lavorodi Eugenio Orso
La Guerra Sociale in atto
Dovrebbe essere evidente alla gran maggioranza dei lavoratori dipendenti del pubblico e del privato che in Italia siamo entrati nella fase finale dell’Attacco Neoliberista al Lavoro. Dopo il “modello” di relazioni industriali di Sergio Marchionne, pensato per scardinare il sistema della contrattazione nazionale e bypassare lo statuto dei lavoratori nell’industria, dopo la parentesi relativamente “soft” di Maurizio Sacconi (Libro bianco, o verde, contro i lavoratori) e Renato Brunetta (tornelli di controllo per il pubblico impiego), ministri nel precedente governo, l’affondo finale contro i lavoratori è stato affidato, dalle Aristocrazie finanziarie, al direttorio di Monti che Lor Signori hanno insediato in Italia. Ciò che non hanno capito, tutti quelli che nell’autunno 2011 hanno festeggiato, in piazza, l’estromissione di Berlusconi e l’avvento di Monti, è che ora si fa sul serio, quanto a Lavoro, pensioni, salari e diritti. Men che meno hanno compreso che siamo in guerra, che lo scontro è ineguale, a “senso unico” e questa volta non si fanno prigionieri. Monti e Fornero hanno potuto andar oltre Berlusconi, Sacconi e Brunetta, grazie all’appoggio, palese od occulto, dei sindacati ascari e della sinistra ammaestrata, realizzando qualche obiettivo importante (riduzione delle pensioni, scardinamento dell’art. 18, compressione del pubblico impiego). L’ultima novità, in ordine di tempo, sono gli interventi pianificati, da concordare con le solite “parti sociali” condiscendenti, per gli esuberi nella pubblica amministrazione centrale dello stato, e quindi per favorire una drastica riduzione, nel tempo, degli organici e degli occupati. Dopo il settore privato tocca al pubblico, e dopo la precarizzazione del Lavoro si passa ad aggredire una volta e per tutte l’impiego stabile, anche in quelli che furono i suoi più inattaccabili “santuari”. Decisa con la “spending review” di Monti e Bondi una riduzione generalizzata della spesa pubblica attraverso tagli lineari, con la scusa del suo contenimento a parità di servizi (cosa che è praticamente impossibile), si sono create formalmente le premesse per ridimensionare l’occupazione nel settore pubblico. Negli anni precedenti, la lunga fase preparatoria ha comportato l’avvio di una campagna mediatica e propagandistica, addirittura diffamatoria, contro i lavoratori dell’amministrazione pubblica centrale e locale, descritti sparando nel mucchio come dei pesi morti e degli autentici “fannulloni”. I Nullafacenti, pessimo elaborato del professor Pietro Ichino, sinistroide ex comunista vendutosi al liberismo, ha avuto una grande eco (mediatica) e ne è una prova evidente. Lo stesso ex socialista berlusconiano Renato Brunetta si è dato da fare, contro i lavoratori, scrivendo e pubblicando La fine della società dei salariati (comparso nel 1994). Alla criminalizzazione dei dipendenti statali hanno contribuito giornali, televisioni, economisti ed esponenti politici, preparando il terreno per i futuri interventi nel settore. La riduzione delle dimensioni occupazionali del pubblico impiego procederà a braccetto con la compressione delle dimensioni economiche dello stato sociale. E’ ovvio che si tratterà di una riduzione secca di posti di lavoro, per altro ammessa senza falsi pudori da molti “organi d’informazione” sistemici. L’obiettivo potrebbe essere quello di sopprimere mezzo milione di posti nel pubblico, di qui al 2014 o al 2015. Nelle condizioni attuali, destinate ad aggravarsi il prossimo anno e gli anni successivi, il settore privato non sarà in grado di “creare” nuovi posti di lavoro in alternativa al pubblico, arginando il dilagare della disoccupazione giovanile, che si dichiara furbescamente di voler combattere. Le politiche neoliberiste imposte al paese non mirano a quel risultato (come spesso affermano ministri, politici, economisti e giornalisti per nascondere la realtà), cioè alla sostituzione dei posti di lavoro pubblici, e impieghi in aziende decotte, con nuova occupazione nel privato in quadro di “competitività sul mercato globale”, sostenendo e incrementando in tal modo l’occupazione complessiva, ma rivelano scopi esattamente opposti. Per molto tempo l’apparato ideologico-massmediatico e accademico ha diffuso allarmismi (in sé giustificati) sui livelli di disoccupazione nel paese e sulla caduta degli indici di produzione nazionali, imputandoli all’inevitabile, ossia vendendoli come una conseguenza “naturale”, addirittura destinale, di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari chiamata globalizzazione e pilotata autoritariamente dall’alto. E’ ormai ovvio che hanno mentito sapendo di mentire, per non far comprendere alla classe dominata quali sono i reali scopi del “libero mercato” e qual è la sua vera natura. Non ci sono destini inevitabili in atto e non c’è un orizzonte futuro di democrazia globale e di crescita a vantaggio dei popoli, raggiungibile soltanto se si entra nelle logiche globaliste operando le dovute “riforme” e favorendo le necessarie “liberalizzazioni”. Al contrario, sono state proprio le politiche neoliberiste, le controriforme, le privatizzazioni e le liberalizzazioni finora applicate a portarci fino a questo punto, con il rischio di scivolare sempre più in basso. Hanno mentito anche sul ruolo internazionale dell’Italia, perché la “crescita” non arriverà mai, soprattutto continuando con le politiche neoliberiste, e al paese, nei contesti della sedicente economia globale, è riservato fin d’ora un ruolo di secondo o terzo piano, fino alla sua irrilevanza più completa. Perciò, com’è addirittura banale da comprendere (tanto più, con il senno di poi), tutte le vecchie litanie riflesse dai media e recitate dai politici liberaldemocratici, come il “ce lo chiede l’Europa!”, o i discorsetti propagandistici in difesa dell’euro, celavano la volontà della classe dominante di applicare ovunque, a qualsiasi prezzo per le popolazioni, i precetti e gli schemi dell’economia neoliberista. Giacché l’imbroglio ha funzionato e ha dato ottimi frutti, tutto ciò continuerà, anche se pochi collaborazionisti politici e giornalistici, oggi, si azzardano a ricorrere all’ormai trito e ritrito “ce lo chiede l’Europa” come ad una formula magica. I tassi d’impopolarità raggiunti dall’unione europide, dall’euro e dalla politica di matrice liberaldemocratica, in Italia e altrove, non costituiranno però un vero ostacolo all’applicazione concreta di tali politiche, che potrà proseguire fino alle estreme conseguenze, raggiungendo un punto di non ritorno. Ciò sarà possibile in assenza di segnali consistenti di una diffusa e destabilizzante reazione popolare. In altri termini, per ora il Nemico di Classe e di civiltà sta camminando sul velluto e spera di poterlo fare anche nei prossimi anni. Questo drammatico discorso non riguarda soltanto l’Italia, o la Grecia, ma è destinato ad assumere sempre di più una dimensione europea, fino a investire paesi come la Francia e la stessa Germania, complice nello “sfruttamento” dei popoli d’Europa più esposti alla pressione del debito e alla minaccia dello spread. Fin tanto che non vi sarà una vera opposizione, fuori dai castranti schemi liberaldemocratici, fin tanto che vi saranno soltanto “utili idioti” indignados (già morenti), sindacati gialli che di tanto in tanto sbraitano a vuoto per imbonire i lavoratori, simpatici grillini in ascesa che aspirano al parlamento liberale, vecchi comunisti in discesa fermi alla seconda o alla terza internazionale, o peggio, i dannosi esaltati di alba dorata che aggrediscono immigrati, gay e barboni come se fossero i veri responsabili dei disastri sociali, la stabilità del sistema di potere in essere e gli interessi sovrani della classe dominante non correranno alcun reale pericolo. Tanto più che si vieta tassativamente ai governi sottomessi di interferire con le dinamiche finanziarie, e di spostare i carichi fiscali dal Lavoro alla finanza, colpendo in modo efficace le rendite e la creazione del valore azionario, finanziario e borsistico. L’ultimo esproprio in un ordine storico, quello attuale neocapitalistico, è rivolto principalmente contro il Lavoro, i ceti medi morenti e in generale le vecchie classi subalterne in via di dissoluzione, e questo proprio nell’occidente “sviluppato”, che fu il cuore di una limitata ma significativa promozione sociale. Appropriarsi il patrimonio pubblico, sottomettendo definitivamente gli stati, è una prassi neocapitalistica che procede con la “globalizzazione dei mercati” e la compressione del Lavoro. Si presti la dovuta attenzione alla circostanza che le ostilità non sono rivolte soltanto contro la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo – in questo momento sotto bombardamento continuo – ma anche contro il popolo americano, ed in particolare contro l’estesa “middle class” che popola quel paese e che si avvia verso il declino. Nella stessa Germania i redditi popolari, pur ancora alti rispetto ai nostri o a quelli dei greci, da tempo stanno perdendo terreno. Anche in Germania hanno preso piede il lavoro temporaneo e quello precario, e la nazione tedesca è costretta a misurarsi come tutte le altre con l’”economia globale”, a subire la doppiezza di governi controllati, o almeno influenzati, dal Libero Mercato. Non c’è paese che possa sottrarsi agli attacchi globalisti contro il Lavoro e i Lavoratori. La Guerra Sociale della classe globale combattuta contro di noi, negli ultimi decenni, fa tornare alla mente il lungo assedio di Sarajevo, in cui gli assedianti sparavano dalle creste dei monti contro una popolazione quasi completamente inerme, beneficiando della loro posizione strategica e del monopolio delle artiglierie.
La Guerra Sociale, le prospettive e il Lavoro
Nei prossimi mesi, anche se si verificheranno disordini, con un accenno di reazione più consistente ed estesa delle masse-pauper, non dobbiamo aspettarci che le Aristocrazie finanziarie, i loro sub-dominanti e i loro collaborazionisti locali allentino la presa, fino a togliere l’assedio, proprio ora che siamo entrati nella fase finale dell’Attacco al Lavoro. Prioritaria, per la classe dominante, è la completa vittoria nella Guerra Sociale “a senso unico”, per giungere rapidamente alla soluzione finale del problema dei lavoratori e dei loro diritti. In Italia, esaurita la fase finale di attacco i tre “mercati del lavoro” esistenti, in via di ulteriore trasformazione – lavoro stabile tutelato, lavoro precario flessibilizzato e lavoro nero o informale – si appiattiranno sull’unico modello neoliberista, che implica progressive svalutazioni economiche dei redditi da lavoro e la completa rinuncia ai diritti per lavorare e sopravvivere. Questo è il target globalista, quasi raggiunto in Grecia e facilmente raggiungibile in Italia. Leggendo distrattamente in rete negli ultimi giorni, ho appreso che i capi di stato maggiore delle armi greche, al netto di eventuali indennità, percepiranno uno stipendio netto mensile inferiore a quello di un comune impiegato tedesco! Meno di duemila euro per il capo di una delle tre armi e poco più di duemila per il capo di stato maggiore delle tre armi. Naturalmente per loro ci saranno le indennità, a rimpinguare la paga, ma la cosa è oltremodo significativa. Non parliamo poi del lavoro intellettuale, degli stessi professori universitari, e per quanto riguarda la massa anonima dei lavoratori greci ancora occupati, cinque o seicento euro mensili potranno bastare e avanzare. Evidente, in questo, una rapida “cinesizzazione” del fattore lavoro destinata a estendersi al resto dell’Europa occidentale. C’è da credere che si arriverà a una tale situazione anche in Italia, dopo la Grecia, e non ci vorranno di certo decenni per raggiungere il punto di non ritorno. Ecco un risultato importante, atteso dai dominanti globali in occidente e parzialmente conseguito, che testimonia l’approssimarsi della vittoria sui dominati nella Guerra Sociale scatenata dai neoaristocratici. Per quanto riguarda specificamente il Lavoro, in Italia vi sono state tre fasi di attacco, limitandoci al periodo che va dai primi novanta a oggi: (a) l’introduzione dei contratti di precarietà per flessibilizzare il fattore e abbatterne il costo aggirando la legge 300, (b) i tentativi (in buona parte di riusciti) di bypassare lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e neutralizzare l’art.18 anti-licenziamenti dello stesso, nel settore privato, onde flessibilizzare il lavoro stabile a tempo indeterminato, e attualmente (c) le ostilità rivolte contro i lavoratori pubblici, per demolire gli ultimi “templi” della stabilità lavorativa e comprimere la spesa dello stato. Libertà di licenziamento, contrattazione individuale (a scapito del più debole, cioè del lavoratore), applicazione generalizzata dei contratti a termine e della precarietà sono altrettante parole d’ordine neoliberiste per “mettere sotto” definitivamente i lavoratori, spostando risorse in quantità crescente dal Lavoro al Capitale Finanziario. Per sconfiggere il Lavoro e annichilire la socialità, non è stato però sufficiente procedere a colpi di controriforme dirette contro i lavoratori. Si è reso necessario aggredire la sovranità nazionale, politica e monetaria, degli stati trasferendo altrove le decisioni strategiche in termini di politica monetaria, economica e sociale, perché la precondizione necessaria per la realizzazione della giustizia sociale, per il sostegno all’occupazione e ai redditi popolari, per la stessa emancipazione di massa (che teoricamente dovrebbe supportare e rendere possibile la democrazia) risiede proprio nella piena sovranità degli organismi statuali. In senso anti sovranista ha agito l’”europa dell’unione” che nei primi novanta ha sostituito la comunità europea, attraverso la moneta unica, le sue istituzioni, i trattati e la banca centrale privata. Una concezione sovranista positiva, nei termini prima descritti, non ha a niente che vedere con l’ideologia nazionalista otto-novecentesca, o con la volontà di potenza imperialistica, ma si armonizza con la socialità e con la volontà di emancipazione del Lavoro e delle masse. E’ proprio contro questi valori e questi principi che è stata diretta l’azione ventennale dell’unione europide in mani globaliste. Nei piani elaborati per il pieno successo nella Guerra Sociale in atto, è previsto l’”accanimento terapeutico” nei confronti dei paesi dell’Europa meridionale e mediterranea in difesa dell’euro. Anzi, l’”accanimento terapeutico”, che a prima vista, superficialmente, può sembrare insensato, crudelmente inutile, frutto di un cumulo di errori pregressi che non si vogliono ammettere e correggere (compiuti fin dalla nascita della moneta unica), fa parte a pieno titolo delle dinamiche neocapitalistiche dell’epoca, e perciò non è un errore, ma una necessità riproduttiva, un’arma utilizzata per piegare definitivamente il Lavoro e le entità statali. Lo stesso euro, moneta straniera sotto controllo privato che ci imprigiona in una “camicia di forza”, non è un errore da correggere, una “svista” clamorosa alla quale si può rimediare rivedendo e implementando poteri e funzioni della BCE, ma è uno strumento di dominazione elitistica che funziona a dovere, raggiungendo gli scopi assegnati. E’ proprio la “terapia” imposta a paesi come la Grecia, la Spagna e l’Italia a favorire l’esproprio di risorse neocapitalistico, la colonizzazione degli stati e la riduzione a un’impotenza sottopagata del fattore-lavoro. Tornando alla metafora del lungo e sanguinoso assedio di Sarajevo, l’”accanimento terapeutico” in difesa dell’euro può essere ben simboleggiato da una batteria di obici che spara da lontano, su un nemico ridotto all’impotenza, senza subire il fuoco di controbatteria.
Aspetti non economici della Guerra Sociale
La stessa idea del Conflitto Sociale, della Lotta di Classe in termini marxisti e marxiani, e quindi delle possibili alternative al sistema, è stata accuratamente distrutta disarticolando le vecchie classi dominate per romperne la compattezza, passivizzarle e favorire la nascita di un nuovo ordine “compatibile” con il neocapitalismo. La conclamata morte dell’idea del Conflitto fra i membri delle classi subalterne disarticolate favorisce le Aristocrazie finanziarie dominanti nella Guerra Sociale neocapitalistica, inibendo le reazioni delle vittime e avvicinando a grandi passi il momento della vittoria finale. Possiamo concludere che la Guerra Sociale oligarchica del presente – ineguale confronto fra un’Acropoli trionfante e un’Agorà ridotta all’impotenza – non ha soltanto scopi economici, che si sostanziano in un assoluto prevalere, nella distribuzione del prodotto, del Capitale Finanziario sul Lavoro, ma consente ai dominanti di raggiungere importanti obiettivi di diversa natura, primo fra tutti l’affermarsi, in tempi brevi, di un nuovo ordine sociale compatibile con le dinamiche neocapitalistiche e la superiorità, su tutto il resto (politica compresa), dei Mercati e degli Investitori. Si è scritto, nel recente passato, che gli obiettivi di politiche come quelle montiane non sono solo ragionieristico-economici, ma anche antropologici, per una trasformazione dell’uomo che le subisce in individuo adatto a vivere il presente e il futuro, nella permanente instabilità generata dall’affermazione del Nuovo Capitalismo. Così la pensa il filosofo Costanzo Preve, e così la pensa anche il sottoscritto. Trattasi di una grande verità, e in effetti, dal punto di vista della riproduzione sistemica complessiva e degli interessi sovrani che questa nasconde, è la manipolazione culturale e antropologica dei dominati a rendere possibili gli espropri oligarchici senza provocare tensioni sociali “distruttive” e insostenibili. Si potrebbe persino affermare, con cinica ironia, che sono proprio la manipolazione antropologica e la distruzione accelerata del vecchio ordine sociale (e di riflesso delle classi dominate novecentesche) a favorire la “sostenibilità” complessiva del modello neocapitalistico. La svalutazione economica del Lavoro, inoltre, ha richiesto una parallela svalutazione culturale dello stesso, che ha reso possibile e addirittura “accettabile”, da parte di chi la subisce, la progressiva riduzione del potere d’acquisto di salari e stipendi verificatasi negli ultimi due o tre decenni. Ma la Guerra Sociale ci rivela anche un altro importante scopo non economico: quello di “temprare” i membri della classe neodominante, per renderli adatti ad affrontare con la dovuta durezza minacce provenienti dal fondo della piramide sociale, nonché i pericoli esterni rappresentati da entità statali non ancora sottomesse o da residuali formazioni di resistenti. In questo ordine d’idee rientra la stessa guerra infinita al terrore (ancora in corso, nonostante il “soft power” obamiano), proclamata dopo l’11 settembre 2001 da G. W. Bush e dalle oligarchie finanziarie che lo manovravano. E’ con la guerra infinita al terrore di Bush junior e dei neocon che la guerra tradizionale esterna (Afghanistan, Iraq), nell’intero occidente si è affiancata minacciosamente al Conflitto Sociale interno, integrandolo in difesa del neocapitalismo. Uno stato di guerra permanente e la “mobilitazione” dei dominanti in difesa del modo storico di produzione prevalente, infine, contribuisce a dissolvere le dimensioni culturali pregresse della vecchia borghesia spodestata, in guisa tale che i membri della nuova classe “alta” non possano maturare alcuno spirito critico nei confronti del Nuovo Capitalismo – come accadde a molti borghesi, almeno fino alla svolta del Sessantotto, nei confronti di “quel” capitalismo – e quindi pregiudicare dall’interno la stabilità del sistema. In seno alla Global class è arduo immaginare che possa nascere, oggi, un Marx, o anche soltanto un Keynes. Inutile descrivere in questa sede i numerosi strumenti di dominazione non economici, non monetari e non finanziari impiegati contro le masse dai dominanti nel corso della Guerra Sociale (politicamente corretto, pacifismo strumentale e “fede” liberaldemocratica, frammentazione territoriale e categoriale delle lotte, divide et impera sociale mettendo i gruppi di lavoratori l’uno contro l’altro, eccetera), perché l’ho già fatto in molte altre occasioni, in diversi articoli, post e saggi rintracciabili in rete. E’ però chiaro che le armi a disposizione del nostro Nemico di Classe in questa guerra, manovrate sapientemente dai suoi mercenari e dai collaborazionisti locali, sono numerose ed efficaci, e soprattutto che gli scopi perseguiti nel conflitto non sono esclusivamente economici. Perciò, chi pensa di poter contrastare il nemico globalista soltanto sul terreno dell’economia – ad esempio rievocando la riforma capitalistica keynesiana attraverso la Modern Money Theory, restituendo così una “funzione propulsiva” ai deficit del bilancio statale e alla spesa pubblica – pur essendo in assoluta buona fede ed essendo lodevoli le sue intenzioni (far conoscere l’economia al popolo come necessaria “presa di coscienza” della situazione), sbaglia nell’analisi e nella prospettiva. In questo caso, si crede possibile il ritorno a un passato economico sepolto, che avrebbe appoggi politici inesistenti, resuscitando così com’erano formazioni sociali novecentesche e modelli di capitalismo ormai defunti. Parimenti, chi crede che l’unico e il solo motivo per cui le masse e il Lavoro sono stati costretti in un angolo è la caduta del saggio medio di profitto capitalistico, ben visibile fra gli anni sessanta e ottanta del novecento, cade in errore offrendo una visione soltanto parziale del problema. Vi è ancora l’eco delle teorie del crollo novecentesche (il saggio di profitto in declino sarà la pietra tombale del capitalismo) e una visione del sistema che si limita ai meri aspetti macroeconomici. Ancor peggio, chi crede nella possibilità di una “riforma neocapitalistica” senza pregiudicare la struttura in essere, ma mettendo semplicemente sotto controllo la finanza per ridare un po’ di ossigeno (cioè di risorse) al Lavoro e al sociale, se non è un imbroglione politico, sindacale o accademico in aperta mala fede, muove da una prospettiva completamente sbagliata, perché il sistema è “irriformabile” per ragioni strutturali, e la creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, progressivamente accelerata, è una sua colonna portante irrinunciabile. Se l’economia politica timidamente critica, interna al sistema, non è certo una rarità (pensiamo a celebri premi nobel “liberal” come Paul Krugman), ciò che manca è una Nuova Critica complessiva, articolata su molti piani, dell’Economia Politica Neoliberista – sulla scorta della Critica dell’Economia Politica operata a suo tempo da Karl Marx, nei confronti del primo capitalismo industriale, dall’alienazione umana nei rapporti di produzione alla teoria del valore – ed è questa, soltanto questa, che potrebbe costituire un’arma nelle mani dei pochi resistenti, alimentando una futura ideologia di legittimazione rivoluzionaria. Mentre impazza la Guerra Sociale senza quartiere voluta dalle Aristocrazie dominanti, una cosa che non dobbiamo fare è cadere nella “trappola economicista”, cercando disperatamente di muoverci su un unico terreno, quello economico, un campo minato in cui la superiorità nemica è ormai incontrastata. Fuor di metafora e di teoria, ci sono altri terreni sui quali potrà svilupparsi concretamente, con qualche efficacia, la controffensiva, e ci sono i punti deboli del sistema di potere nemico che già oggi possiamo osservare con sufficiente chiarezza. La vulnerabilità, ad esempio, dei sub-dominanti politici locali, più facilmente e produttivamente attaccabili, più raggiungibili nell’immediato, nonché protetti da difese più deboli di quelle riservate alle Aristocrazie finanziarie. La prima linea del fronte di conflitto, quella per noi perfettamente visibile, è rappresentata proprio da loro, assieme ad altri sub-dominanti e collaborazionisti locali (sindacalisti gialli, accademici prezzolati, banchieri indigeni, alti industriali, opinionisti dei giornali, anchormen televisivi, economisti, politologi e sociologi “di grido”, eccetera, eccetera). Saranno costoro a subire, un giorno, il primo, furibondo contrattacco, quando si inizierà a fare il vuoto intorno ai dominanti globali, per cercare di interrompere i flussi della globalizzazione neoliberista e incidere sulla riproduzione sistemica. Su questo posso ancora nutrire qualche speranza. Chi vuol capire capisca … di più non posso scrivere.
Che dire la lotta e’ posta su diversi piani, ultimo esempio e’ il tentativo, per altro riuscito, di coinvolgere i cittadini sulle primarie del Pd. Dopo la sconfitta subito in Sicilia con la maggioranza astensionistica, il sistema di potere ha armato tutta la sua potenza mediatica e per almeno una ventina di giorni tra televisione, giornali e radio ci hanno bombardato di notizie, particolari, non facendoci mancare assolutamente niente, sulle primarie. Si sono visti candidati che sono stati in televisione alla mattina e alla sera con un’ubiquità incredibile.
La vera posta in palio era il coinvolgimento il più ampio possibile e per le notizie che arrivano parrebbe che questo sia riuscito completamente. Tant’è che tutti i soggetti promotori della controffensiva sull’astensionismo ora convolano felici ed estasiati e anzi sperano di allungare la festa con eventuali tempi supplementari.
Che dire, non c’e stata la capacita’ da parte di nessuno di vedere questa controffensiva, ne di combatterla, anche se chiaramente ad armi impari.
Il cammino e’ obbligatoriamente lungo se la situazione e’ questa.
in questa guerra totale,la componente ideologico-culturale e’ importantissima,il pacifismo strumentale,che da anni vien portato avanti,ricordiamo il bertinottismo anti resistenze armate,ha cancellato ogni memoria e senso di solidarieta’.Il tentativo,riuscito,delle oligarchie ,di rimbambimento istituzionalista,ha avuto il suo ,per ora,apice, nelle primarie,con la sottomissione pecoresca all’ipnosi liberal-democratica.