L’invincibilità del neocapitalismo
set 5th, 2012 | Di Eugenio Orso | Categoria: Contributidi Eugenio Orso
La sopraggiunta incapacità di suscitare le forze produttive, la caduta tendenziale (e inarrestabile) del saggio medio di profitto, la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro che diventano incompatibili con l’involucro capitalistico (e lo “sfondano”), lo spettro incombente del sottoconsumo nonostante la crescita demografica, per molti anni hanno alimentato le speranze di coloro che attendevano la fine del capitalismo e la liberazione dell’uomo.
Le teorie del crollo del capitalismo, da Rosa Luxemburg a Paul Sweezy, da Valdimir Lenin a Henryk Grossman, hanno tenuto banco per decenni ed hanno avuto in qualche modo origine, come molte altre teorie del passato e l’intero corpus teorico marxista-engelsiano, dall’opera originale e dal pensiero di Karl Marx.
Per quanto riguarda Grossman, ricordiamo brevemente, in questo accenno al crollismo novecentesco, la notissima opera dal titolo esplicito La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, la cui pubblicazione ha preceduto di poco il disastroso crollo del ’29 e la successiva, disastrosa depressione conclusasi con il secondo conflitto mondiale, suscitando per questo un grande interesse.
Se l’”incubo” permanente dei capitalisti borghesi – e la maggiore minaccia per la tenuta del sistema – era rappresentato da un livello del saggio medio di profitto in costante discesa, Grossman ha analizzato a fondo la situazione, oltre Marx, individuando un insieme di forze, dei gruppi sociali, definibili secondo una certa ottica “parassitari” – fra i quali spiccavano commercianti, professionisti, domestici, e persino i preti – che consumavano senza produrre, riducendo inesorabilmente e sistematicamente il profitto capitalistico di natura produttiva.
Il prevalere degli “improduttivi”, consumatori ma non produttori negli spazi della fabbrica, avrebbe contribuito a far cadere i profitti, fino alle estreme conseguenze?
Così non è stato, ed anzi, le società capitaliste più “avanzate”, in cui tendevano a prevalere i “colletti bianchi” sugli operai e sui proletari, il ceto medio sul tradizionale proletariato di fabbrica, hanno conosciuto qualche decennio di espansione e di gloria.
Non parliamo poi della rilevanza economica, politica e sociale che ha avuto la grande storica querelle riguardante sottoconsumo e sovrapproduzione, insufficienza dei salari e scarsità di domanda, capaci di pregiudicare la crescita capitalistica tradizionalmente intesa, una querelle che ha attraversato buona parte del novecento, impegnando marxisti, keynesiani, monetaristi e liberisti, e che continua, nonostante si sia già consumata la sconfitta di marxisti e keynesiani, anche all’inizio del ventunesimo secolo.
Ma il sistema capitalista, lungi dal collassare definitivamente e aprire la strada al nuovo, lungi dal preludere alla sequenza finale socialismo – comunismo, quale definitivo approdo dell’umanità, è mutato “geneticamente”, diventando altro da sé ed imponendo, dopo il collasso sovietico, la legge neoliberista globalizzante in ogni angolo del mondo.
Oggi che il capitalismo è mutato di forma ed è qualitativamente cambiato, rispetto a ciò che era all’epoca di Marx, ed anche ai tempi di Lenin, Luxemburg, Grossman e Sweezy, fino al punto che possiamo considerare il neocapitalismo un nuovo modo storico di produzione sociale, discutere del crollo imminente del capitalismo senza che vi siano scricchiolii decisivi, mentre si susseguono le crisi neocapitalistiche lambendo aree geopolitiche vaste e interi continenti, ricorda un poco la condizione degli avventisti nordamericani ottocenteschi i quali, aspettando la fine del mondo fissata alla tal data e per la tal ora (ad esempio, per il 22 ottobre 1844), si riunivano in preghiera su una collina, e poi, constatato con sorpresa che l’ora era arrivata e il mondo era ancora lì, e che non vi sarebbe stato (ancora per un po’) un nuovo avvento e l’inizio dell’atteso regno dei giusti, se ne andavano scornati e delusi.
Se il capitalismo del secondo millennio, a parere di Marx, era retto da due soli, ma fondamentali pilastri – i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive – essendo tutto il resto definibile sovrastruttura, il neocapitalismo finanziarizzato dell’era della globalizzazione può contare su molti pilastri che lo sostengono, ed uno di questi è rappresentato proprio dalla crisi strutturale.
Elenchiamoli tutti, gli elementi strutturali neocapitalistici, in un ordine cronologico, per avere un’idea un po’ più precisa della situazione, delle grandi differenze fra il capitalismo di Marx e quello attuale: [1] rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive (riuniti in uno perché lo sviluppo delle forze dipende strettamente dai rapporti di produzione in essere), [2] l’ideologia di legittimazione sistemica (l’economia liberista e mercatista non è scienza, ma ideologia e come tale ha la funzione di legittimare il sistema), [3] manipolazione antropologica e culturale dell’uomo (delle classi dominate, in particolare) attuata su vasta scala (utilizzando, a tale scopo, sia la precarietà lavorativa sia la potenza dei media), [4] creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, che contiene in sé la “classica”, marxiana estorsione del plusvalore dal lavoro nella fabbrica, [5] crisi come assetto strutturale neocapitalistico, e perciò destinata a mutare di forma e di aspetto, ad aggredire paesi e mercati nuovi, ma non a scomparire nei tempi futuri.
Sfuggendo alla trappola dell’economicismo, che esalta gli aspetti economico-finanziari e trascura il resto, comprendiamo che i punti di forza neocapitalistici (i pilastri sui quali si regge l’intera costruzione) sono di varia natura e origine, ed accanto a quelli economico-finanziari, come ad esempio la creazione del valore finanziaria che subordina l’estorsione del plusvalore nelle produzioni industriali, vi sono l’ideologia di legittimazione (rivolta soprattutto a favorire l’integrazione di colti e semicolti), elemento strutturale e non sovrastrutturale come credeva il grande Marx, e la fondamentale manipolazione antropologico-culturale delle masse, per adattare l’uomo alla precarietà, spegnere sul nascere le tensioni sociali e impedire la diffusione di un vero antagonismo.
Oggi sappiamo che crisi non significa imminenza del crollo, fine del capitalismo, svolta della storia, ma semplicemente che è in atto un ennesimo esproprio di risorse per velocizzare la creazione del valore, per modificare gli assetti sociali, per comprimere ancor di più i redditi da lavoro e per ridurre al lumicino la sovranità degli stati nazionali.
La stessa lotta di classe è ormai uno strumento in mani neocapitalistiche, utilizzato durante le crisi dalla classe globale dominante, allo scopo di orientare nel senso voluto gli assetti sociali e politici di interi paesi e di aree geopolitiche importanti.
I tagli alla sanità pubblica, nei paesi del welfare “avanzato”, significheranno vita media in discesa e morte per soggetti deboli, marginali, senza reddito e malati, e rappresenterà una strada praticabile (ma non la sola) per ridurre i numeri di una forza-lavoro in eccesso, esuberante rispetto alle esigenze del nuovo capitalismo.
La promozione sociale e il miglioramento delle condizioni materiali di vita delle popolazioni (delle classi subalterne largamente maggioritarie), rappresentano un ostacolo per questo capitalismo, e non più una via per sostenersi, creare consenso intorno a sé e fagocitare intere generazioni di subordinati, come accadeva nello scorso secolo, nei tre decenni che seguirono il secondo conflitto mondiale.
La droga semilegalizzata dal lato del consumo e il gioco d’azzardo legalizzato capillarmente diffuso (ambedue molto presenti in Italia, purtroppo), al di là degli ovvi risvolti di natura economica, sono strumenti di dominazione efficaci per controllare le masse-pauper, fiaccarne la resistenza e ridurne il numero (attraverso l’uso prolungato e l’abuso di droghe, spesso letali).
Sia la ludopatia sia la ketamina, o peggio, la nuova devastante droga krokodil “low cost” che viene dalla Russia e che mangia letteralmente le carni degli sventurati consumatori, sono utili per comprimere negli spazi neocapitalistici milioni di dominati, privandoli progressivamente della possibilità di critica al sistema e della loro stessa dignità personale.
Economia formalmente criminale (droga, armi, schiavi, traffico di organi umani) ed economia legale procedono appaiate, e il referente ultimo è sempre lo strato più alto della classe dominante, l’Aristocrazia globale o Strategic global class.
I continui tagli ai redditi da lavoro e alle pensioni, combinati con la diffusione del lavoro precario, oltre ad avere benefici effetti sui profitti che alimentano, in posizione subordinata, la creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, sostituiscono progressivamente il profilo neocapitalistico del precario-escluso, aderente alle dinamiche neocapitalistiche, a quello “tradizionale” del produttore-consumatore, caratteristico del capitalismo del secondo millennio.
La merce, il lavoro, la fabbrica hanno ancora importanza e sono imprescindibili, ma il nuovo capitalismo ha trovato altre strade per incrementare più rapidamente il capitale, e con lui il potere della nuova classe dominante globale.
E’ ancor vero e verificabile ciò che ha affermato Karl Marx nell’ottocento, e cioè che lo scopo del capitalismo non è tanto la produzione di merci, ma l’incremento senza fine dei capitali investiti attraverso plusvalore e profitto, ed è altrettanto vero ciò che ha scritto Max Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, se lo scopo perseguito dai dominanti è l’incremento del profitto e non la “salvezza dell’anima”, ma le differenze fra questo capitalismo e quello dello scorso millennio, sul quale si concentravano le speranze crolliste di comunisti, antagonisti e rivoluzionari, sono invero notevoli.
In primo luogo, lo “spirito del capitalismo”, sciolto ogni vincolo di natura politica, religiosa, comunitaria ed etica che lo imbrigliava, è libero come mai fu nei due secoli precedenti, di aleggiare incontrastato su tutte le società umane, riconfigurandole brutalmente e rapidamente secondo le sue esigenze riproduttive.
In secondo luogo, la complessità strutturale neocapitalistica rende la costruzione sistemica più solida, retta dai cinque pilastri fondamentali prima elencati, e consente una riproduzione più agevole, rendendo improbabili scossoni insurrezionali (o addirittura rivoluzionari) e non necessarie le “concessioni” politiche e di reddito ai dominati che riducono i profitti e il potere della classe superiore
In terzo luogo, la nuova classe dominate globale, a partire dall’Aristocrazia finanziaria fino ad arrivare allo strato “lower” della classe, è culturalmente diversa dalla vecchia borghesia proprietaria, e non corre il rischio di fare pericolose e destabilizzanti concessioni – anticapitalistiche, antagonistiche, critiche – alla coscienza infelice che animava parte della borghesia.
Se borghesia e capitalismo hanno proceduto appaiati per un paio di secoli, il capitalismo ha mostrato, con il cambio di evo dal secondo al terzo millennio, di poter fare a meno della borghesia, nella sua veste rinnovata di nuovo modo storico di produzione, “plasmando” una classe dominante cinica, apolide, deterritorializzata, completamente aderente alle sue dinamiche.
La metamorfosi dell’ordine sociale che il neocapitalismo ha innescato riguarda, ovviamente, non soltanto i dominanti, ma il fondo della piramide sociale.
E’ in corso la formazione della classe povera del futuro, espropriata sia delle risorse materiali che consentono l’emancipazione sia della coscienza politico-sociale, del solidarismo e della lotta di classe, ed è per tale motivo che l’impressionante “passività sociale”riscontrabile in occidente e nell’Europa eurounionista (non solo in Italia) consente all’Aristocrazia globalistico-finanziaria dominante di perseguire, in tutta tranquillità, i suoi obiettivi di trasformazione delle società umane.
Ingegneria sociale (formazione della Pauper class e dissoluzione dell’ordine sociale precedente) e ingegneria politica procedono appaiate nella realizzazione del progetto demiurgico neocapitalistico.
L’autentica invasione degli spazi politici, in cui i dominati, quando erano proletari o appartenenti al ceto medio, avevano ancora qualche accesso e qualche peso, ha consentito di stabilire nuove forme di governo nate nell’alveo degenerativo della liberaldemcrazia occidentale, come la dittatura indiretta della classe globale che utilizza, per “regnare” sui vecchi stati nazionali colonizzati, governi “tecnici” non eletti (Mario Monti in Italia e fino al 16 maggio 2012 Lucas Papademos in Grecia), o governi “politici” di natura elettiva (insediatisi grazie a elezioni pilotate e manipolate, ponendo sotto ricatto la popolazione, come l’attuale governo greco di Antonis Samaras), ma completamente subordinati, per quanto riguarda le politiche e le scelte strategiche, agli interessi globalisti (e così sarà, probabilmente, anche in Italia, dopo Monti).
La riduzione degli spazi di (autentica) alternativa politica e l’atomizzazione sociale hanno avuto un’enorme importanza, per l’affermazione del nuovo capitalismo, poiché in questo modo i nemici sono stati uccisi “nella culla”, o addirittura ancora prima, provocando aborti.
Già queste poche righe dovrebbero far comprendere che c’è il rischio, per i pochi che veramente si oppongo al sistema, di cadere nello sconforto più totale, e di considerare invincibile il neocapitalismo, generatore di crisi continue (dal terziario avanzato ai sub-prime, dal debito pubblico degli stati ai prossimi, futuri attacchi a nuovi mercati) di crescenti squilibri sociali e distruzioni ambientali, di de-emancipazione di massa e di nuova schiavitù del lavoro (con conseguente e capillare diffusione, nel mondo del lavoro e nella società, del profilo di neoschiavo precario).
C’è poi la novità che le riforme concepite all’interno del sistema per preservarlo cambiandolo (e non fuori e contro il sistema stesso), della portata di quella keynesiana che ha cambiato il volto del capitalismo del secondo millennio, oggi non sono più possibili, e che, quindi, la via riformista (responsabilità sociale dell’impresa, capitalismo sociale di mercato, patrimoniale sui ricchi, tassazione delle transazioni finanziarie, rinnovamento dell’unione europoide con la nascita di veri “stati uniti d’Europa) costituisco soltanto vuote e vaghe formule che servono ad ingannare la popolazione, altrettanti imbrogli, praticati senza pudore da una sinistra, in certi casi ex comunista ed ex filo-sovietica, attualmente miglior servo politico del neoliberismo, esattamente come quella italiana del Pd che sostiene Monti, od anche come quella che ha sostenuto Hollande contro Sarközy in Francia.
L’attuale riformismo, millantato da una sinistra al servizio delle Aristocrazie globali, si configura come un nuovo strumento (in tal caso politico e sociale) di dominazione neocapitalistica, e costituisce, nella realtà, un supporto sistemico che “tiene lontane le masse”, illudendole, dalla tanto esecrata Rivoluzione (della quale si è proclamata frettolosamente la morte, dopo il collasso sovietico) e dai temuti avventurismi “populistici” (nella lunga involuzione da Peron a Berlusconi).
Se la via rivoluzionaria oggi non sembra praticabile, per l’indisponibilità totale delle masse, idiotizzate, pauperizzate, neutralizzate politicamente, per l’assoluta scarsità di forze antagoniste, ed anche la via riformista non è più praticabile, trattandosi di un inganno utile soltanto per favorire la tenuta sistemica, si può concludere che il neocapitalismo è veramente invincibile e sarà destinato a reggere nei secoli, riconfigurando a suo talento l’ordine sociale e le società umane in occidente, in Europa e nel mondo intero?
L’invincibilità, in tal caso, significherà veramente, per la prima volta nella storia umana, la fine della storia?
Personalmente non lo credo, anche se tutto sembra confermarlo, anche se la potenza sistemica è tale, oggidì, da consentire alla classe dominante di prevenire (non soltanto reprimere a posteriori, come in passato) ogni accenno di rivolta e di alternativa.
Non credo nell’invincibilità e nella quasi eternità del nuovo capitalismo (per quanto molto più “corazzato” del capitalismo che storicamente lo ha preceduto, generandolo dalle sue “rovine” sociali, culturali e politiche) perché i principali punti deboli, che si riveleranno entro il prossimo decennio, se non già entro questo tormentato decennio di cambiamenti e crisi, sono sostanzialmente tre:
1) L’impossibilità di spingere oltre un certo limite, accelerandola come sta avvenendo ora, la compressione materiale e psicologica dei dominati, senza dover far fronte a caos, rivolte, destabilizzazione dei centri neocapitalistici di sub-potere nazionale e insurrezioni diffuse.
2) La finitezza delle risorse naturali che si scontra drammaticamente con l’illimitatezza capitalistica, destinata a raggiungere il suo picco con l’affermazione del nuovo capitalismo finanziarizzato del secondo millennio.
3) La presa di coscienza della nuova classe dominata, la Pauper class, con conseguente “risveglio del Conflitto”, quando il processo di costituzione sarà in una fase un po’ avanzata e l’ordine sociale precedente un po’ più vicino alla sua definitiva scomparsa.
Queste tre valide ragioni, che mettono in discussione la supposta invincibilità neocapitalistica, da sole ci fanno comprendere che nei prossimi anni vivremo “tempi interessanti”, di cambiamento repentino e imprevedibile, di mutamento dei rapporti di forza fra dominanti e dominati, e forse di rovesciamento degli stessi, e soprattutto che la storia non è scritta, non è destinata a fermarsi come un orologio le cui lancette improvvisamente si immobilizzano perché si sono esaurite le batterie
La “fine della storia” non si raggiungerà sotto le bandiere neocapitalistiche, così come non si è raggiunta sotto le bandiere comuniste.
a me fa ben sperare che la globalizzazione, gli scambi commerciali mondiali all’interno di un unico mercato che non va mai a dormire, ha posto le basi per l’ universalizzazione reale del genere umano, sia pur per ora all’insegna del Capitale, che già il Moro colse come deterritorializzato.
L’incontro tra uomini preferibilmente sradicati all’interno della rete globale degli scambi non porta certo direttamente alla consapevolezza incarnata, non intellettualista, dell’unità ontologica fra individuo e genere umano e alla coscienza razionale della natura sociale del lavoro; anzi molti veli oscurano queste verità, ma è indubbio che prima o poi l’assunzione della reale unità del genere dovrà essere assunta come riferimento normativo ideale, ma non più idealizzato.
“[4] creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, che contiene in sé la “classica”, marxiana estorsione del plusvalore dal lavoro nella fabbrica”. Io credo che non bisogna concedere nulla alla menzogna del finanz-capitalismo liberista e neo-con, bisogna ripetere fino a stancarsi che la finanza rimane necessariamente a fianco dell’ unico segmento produttivo che produce plus-valore nuovo di zecca: il settore della produzione primaria. Quel fresco più-di-valore che non fa avvizzire (tesaurizzare) e consumare in fretta il capitale morto, già acquisito.
Poi è vero che sembra che anche nella circolazione monetaria si generi plus-valore ex-novo (mi veniva da scrivere ex-nihilo), ma è profitto derivato che non potrebbe pagare gli interessi sull’investito se, in un punto della catena del valore, non ci fossero o industria o agricoltura che producono plus-valore prima inesistente – e qundi l’estorsione che riproduce sempre di nuovo il rapporto di dominio.
Come ha spiegato Marx, quando il rapporto di composizione organica del capitale sale (aumentando il capitale investito, ma spesso diminuendo il saggio di profitto) perchè la concorrenza richiede ampliamento e rinnovo continuo del capitale costante, lì la finanza assume un ruolo che a volte permette di estorcere più profitto per sè dalla massa del plus-valore accumulato dal capitale investito industrialmente. Ipotizzo una conflittualità intra-capitalistica tra finanza e industria, che forse è la radice del dibattito tra liberisti e neo-keynesiani.
Questa complessa fenomenologia ci conferma che siamo di fronte ad una nuova fase ma non ad un diversa matrice della potenza sociale del Capitale.
effettivamente la desolante fotografia di questa fase storica e’ questa e gli argomenti inconfutabili,certi elementi una volta detti sovrastrutturali,son oggi la struttura che permettono la salute del sistema.Conta anche poco affidarsi a speranze di sconvolgimenti dalle aree una volta dette di sottosviluppo,anche li’ il copione si ripete.A questo punto le strade sono due le condizioni storico-materiali degli sfruttati li porteranno a coniugarsi con le avanguardie coscienti,superando l’attuale condizione,o l’imbarbarimento andra’ avanti in una specie di decadenza da terzo secolo dopo la caduta dell’impero romano
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