“Uscita dell’Italia dolorosa ma inevitabile”
giu 19th, 2012 | Di Maurizio Neri | Categoria: Politica internaIl teorico (serio) del partito anti-euro
Marco Palombi intervista Alberto Bagnai
Materiali per servire ad un più consapevole dibattito sull’euro. Avremmo potuto chiamare così questa chiacchierata con uno dei pochi economisti italiani che sulla moneta unica ha sempre espresso quelle che un eufemista definirebbe profonde perplessità.
In realtà, Alberto Bagnai, che insegna politica economica a Pescara e in Francia, pensa che occorra uccidere l’euro proprio per salvare l’Europa e non per disfarla: per questo il nostro – allergico tanto al pensiero economico mainstream, quanto ai fulminati della Spectre massofinanziaria alla Paolo Barnard – ha deciso da un paio d’anni di uscire dalla cerchia dell’accademia per divulgare una verità che per lui è semplice quanto evidente: la moneta unica è stato un brutto affare. Per spiegarlo, riempie il suo blog di articoli chiari e divertenti, numeri e riferimenti bibliografici che lasciano poco spazio ai dubbi. Non bastandogli il blog, peraltro, sta organizzando un convegno scientifico a Pescara per il 22 e 23 giugno. Titolo: Euro: manage it or leave it. Le sue teorie sono spesso spiazzanti per i non addetti ai lavori; per questo non gli abbiamo posto domande in senso stretto, ma l’abbiamo costretto a interagire con un ipotetico europeista un po’ naif e sinceramente democratico, le cui informazioni derivino esclusivamente dagli editoriali pubblicati dai due più grandi quotidiani italiani. Ecco il risultato.
L’euro va bene, è che c’è la crisi dei debiti sovrani.
I maggiori economisti internazionali, a partire da Paul Krugman e Paul De Grauwe, non la pensano così. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil). Ma i mercati puniscono prima Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Gli squilibri di bilancia dei pagamenti, causati dalla moneta unica, cosa ormai riconosciuta anche dal Fmi, che hanno portato all’accumulazione di debito privato.
Debito privato?
Spiego: se un paese compra all’estero più di quanto venda, dovrà farsi prestare dall’estero la differenza. Un deficit di bilancia dei pagamenti porta così a debiti verso l’estero, prevalentemente privati. Ma perché il resto del mondo continua a far credito? Semplice: per finanziare la vendita delle proprie merci. E’ banalmente il meccanismo in atto tra Cina e Usa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso i paesi periferici.
Ma tutti scrivono che il problema sono i debiti pubblici?
A valle certamente. Ma a monte il problema nasce perché le banche – i cui crediti sono i debiti dei privati – hanno prestato largamente, realizzando profitti: quando la crisi economica ha messo famiglie e imprese in difficoltà, lo Stato ha salvato le banche, tassando le famiglie, per via della storia del too big to fail. E ora il debito è pubblico.
Ma Giavazzi e Alesina dicono che è colpa nostra che non abbiamo fatto le riforme.
Forse potevamo approfittare di più del dividendo dell’euro, però è anche vero che nei primi anni il debito pubblico era sceso di oltre 10 punti. La spesa pubblica però non l’abbiamo potuta ridurre di più perché l’euro, penalizzando il nostro commercio, ci sottraeva domanda estera: se avessimo diminuito anche quella pubblica saremmo cresciuti ancora di meno.
Ma la Germania le riforme le ha fatte e infatti va bene: vende pure in Cina.
Intanto non è vero: la bilancia commerciale della Germania con la Cina era negativa ed è peggiorata. Sa, invece, dov’è migliorata? Coi paesi dell’Eurozona, con noi. Questo perché le riforme del mercato del lavoro in Germania si sono tradotte in una sostanziale precarizzazione, volta a comprimere i salari. E’ una svalutazione interna, quella che oggi viene chiesta a noi: non va dimenticato, però, che la Germania per assorbirne il costo sociale fu costretta a violare per prima il Patto di stabilità, sussidiando una pletora di sottooccupati (e quindi, indirettamente, il suo sistema industriale). Ma ora a noi chiede austerità, mentre occorrerebbero politiche di rilancio dell’economia, come riconosce anche l’International Labour Office delle Nazioni Unite.
Comprimere i salari? L’operaio tedesco guadagna il doppio dell’italiano.
In Germania non c’è solo l’operaio strutturato e non c’è solo la Wolkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job… Risultato: dopo le riforme i salari reali in media sono calati del 6,5%.
L’euro, comunque, l’abbiamo fatto per avere stabilità.
Veramente oggi ci viene detto da illustri protagonisti dell’entrata nell’euro che questa valuta è stata adottata e terrà perché conviene alla Germania.
Conviene anche a noi: dove andavamo con la liretta nel mondo globalizzato…
I manuali di economia ci spiegano che gli agganci a una valuta forte spesso servono a imporre agli attori sociali di un paese ‘disciplina’ con lo spauracchio del vincolo esterno. Pensi a quanto non sono cresciuti i salari italiani in questi anni e a cosa sta accadendo con l’articolo 18, che pare non interessi tanto agli industriali italiani quanto a quelli tedeschi, come ci ha ricordato a suo tempo il nostro premier.
Ormai però siamo dentro e dobbiamo restarci: servono gli eurobond e la Bce deve diventare come la Fed.
Faccio un esempio. In Italia abbiamo sotto gli occhi 150 anni di unione monetaria, politica, fiscale, eccetera, e quali sono i risultati? Il Mezzogiorno è oggi in una condizione di deficit strutturale per 17 punti del suo Pil, che colma con risorse prese dal resto del mondo, fra cui trasferimenti fiscali dal Nord Italia. Ma al Nord non tutti sono contenti. Ecco, se applicassimo a livello europeo questo meccanismo di “unione di trasferimento”, nel Nord Europa si affermerebbero (come sta succedendo) dinamiche politiche “leghiste”, molto pericolose.
Lei non starà dicendo che dobbiamo uscire dall’euro?
Temo sia doloroso ma inevitabile, e dovremmo gestire questo processo anziché subirlo. Non commettiamo l’errore di identificare l’Europa con l’euro. L’euro è solo l’undicesima moneta dell’Unione, quella che funziona peggio: l’Europa c’era prima e ci sarà dopo.
L’uscita dall’euro è una catastrofe. La lira si svaluterà: per comprare la frutta servirà una carriola di banconote.
Si fa molto terrorismo, ma di fatto nel medio periodo il cambio recupera il differenziale di inflazione accumulato col paese di riferimento negli anni del cambio fisso. Così è successo in Argentina, così successe anche all’Italia quando uscì dallo Sme nel 1992. Nel caso attuale, la svalutazione sarebbe attorno al 20%.
E quindi avremo il 20% in più di inflazione…
In realtà tutti gli studi negano ci sia un rapporto diretto tra svalutazione e inflazione: sempre a stare agli studi scientifici, è lecito attendersi un aumento dell’inflazione fra i 2 e i 4 punti (non certo 20!). Le ricordo cosa successe nel ’92 dopo una svalutazione del 20%: l’inflazione scese dal 5 al 4%.
C’è qualche problema, ma ora i tecnici metteranno a posto i conti.
In realtà il governo Monti sta facendo delle scelte tecnicamente sbagliate, che mettono in visibile difficoltà il paese, applicando a noi le ricette che non hanno funzionato in America Latina negli anni 80 e 90.
In maggioranza c’è il Pd che si batte per introdurre elementi di sinistra nelle leggi del governo.
La fiducia nel mercato di certa sinistra è commovente: nessuno sfrenato pensatore liberale e liberista ne ha altrettanta. Però quando la sinistra aderisce a politiche di forte destra, alla fine succede solo una cosa: vince la destra.
Sull’euro avevano detto:
Guido Carli, Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, 1971:
“Il perseguimento dell’unione monetaria con forte anticipo sull’integrazione delle economie può danneggiare alcune di esse e non consente una distribuzione fra i paesi membri dei vantaggi e degli svantaggi connessi con il processo di unificazione. L’integrazione riguarda i fattori produttivi, le istituzioni in cui tali fattori sono organizzati, le norme che ne regolano e ne promuovono la circolazione, i prelievi fiscali e previdenziali, i trasferimenti di reddito compensativi. Senza l’integrazione delle economie, la rinuncia dei paesi membri all’uso autonomo del tasso di cambio e degli altri strumenti di politica monetaria può danneggiare alcuni di essi”.
Rudiger Dornbusch, economista del MIT, Foreign Affairs 1996:
“La critica più seria all’Unione monetaria è che, abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio, trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi (…) Diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia”.
“Una volta entrata l’Italia, con una valuta sopravvalutata , si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira”.
Bettino Craxi, intervista del 1997:
“Si presenta l’Europa come una sorta di paradiso terrestre, ma per noi nella migliore delle ipotesi sarà un limbo e nella peggiore un inferno. Bisogna riflettere su ciò che si sta facendo: la cosa più ragionevole sarebbe stato richiedere e anzi pretendere, essendo noi un grande paese, la rinegoziazione dei parametri di Maastricht”.
Martin Feldstein, professore ad Harvard, Foreign Affairs,1997:
“Invece di favorire l’armonia intra-Europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e l’integrazione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa”.
“Una caratteristica particolarmente critica dell’Unione monetaria europea è che non c’è alcun modo legittimo per i paesi membri di ritirarsi: l’esperienza americana durante la Guerra di secessione del Sud fornisce alcune lezioni sui pericoli di un trattato che non offre via d’uscita. Le aspirazioni francesi all’uguaglianza e quelle tedesche all’egemonia non sono compatibili: gli effetti economici avversi di una moneta unica controbilancerebbero abbondantemente qualsiasi guadagno che si otterrebbe dalla facilitazione del commercio”.
Dominick Salvatore, economista della Fordham University di New York, American economic review, 1997:
“Muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’Unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale e l’atteggiamento della Bce, che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri”.
Paul Krugman, professore a Princeton, premio Nobel per l’economia, Fortune, 1998:
“L’Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania, per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro”