Come se ne esce? Con una Rivoluzione
apr 24th, 2012 | Di Redazione | Categoria: Dibattito PoliticoPubblichiamo un interessante articolo di Cesare Allara e, di seguito, una risposta di Costanzo Preve, che apre il dibattito sul tema della rivoluzione
La Redazione
di Cesare Allara
Per decenni si è pensato che il capitalismo vigente nell’Occidente industrializzato fosse la migliore forma di organizzazione sociale. Addirittura, nel 1976 Enrico Berlinguer arrivò a teorizzare che il socialismo poteva esser meglio realizzato sotto l’ombrello della NATO che non nei paesi cosiddetti “comunisti”. La quasi totalità delle forze politiche che avrebbero dovuto rappresentare gli interessi delle classi popolari ha assunto, a partire perlomeno dagli anni Settanta, il capitalismo come orizzonte del loro agire politico. Insomma, tutti precursori di Francis Fukuyama, regimi comunisti antidemocratici e quindi il capitalismo come fine della storia.
Non si è capito allora, e ancora oggi si stenta a prendere atto che non viviamo più in quella che Hobsbawm definì “l’età dell’oro”, e che i cosiddetti “trent’anni gloriosi” del capitalismo caratterizzati dal welfare state e dalla piena occupazione sono stati una breve parentesi storica e sono finiti da un pezzo. La giunta Monti-Napolitano ricorda ogni giorno che gli italiani hanno vissuto per decenni “al di sopra delle loro possibilità”, ovviamente riferendosi solo a lavoratori e pensionati. Solo qualche giorno fa, Mario Draghi ha detto esplicitamente che il welfare state (letteralmente stato del benessere) laburista europeo, quello che ci accudiva “dalla culla alla tomba”, conosciuto in Italia come “stato sociale”, è morto o è in via di rapida estinzione perché non più compatibile con questa fase del capitalismo e con gli attuali livelli di crescita. Se Mario Draghi ha ragione, e a mio avviso ce l’ha, coloro che alla giunta Monti-Napolitano chiedono equità nelle manovre “lacrime e sangue”, sono dei cretini o forse degli ignoranti, ma più probabilmente sono degli opportunisti che cercano solo di coltivare un bacino elettorale per mantenere una poltrona nelle istituzioni.
Per concludere, sul piano sociale non è più possibile un compromesso socialdemocratico, termine che si ritrova solo più nei libri di storia. Sul piano dei diritti dei cittadini, la Costituzione del 1948, fondata sulla solidarietà sociale, non è più compatibile con l’attuale fase del capitalismo e va modificata in senso liberista, come incessantemente richiede il nostro caro leader Giorgio Napolitano, che invece ne dovrebbe essere il custode. Sul piano economico si continua a far finta di non capire che l’unica chance di Monti per tentare di riavviare l’economia italiana consiste in una drastica riduzione del costo del lavoro ottenuta attraverso la totale deregolamentazione del mercato del lavoro e la cancellazione dei diritti dei lavoratori, sperando in questo modo di rendere attraente il nostro paese agli investitori internazionali. Parlare di “accanimento ideologico” o “integralismo accademico” di Monti sull’articolo 18 come ha fatto in questi mesi “Repubblica”, protestare per costi insopportabili per le imprese che la riforma comporterebbe come fa la Marcegaglia, o esultare per aver “salvato” l’articolo 18 come fanno CGIL-CISL-UIL e PD, fa parte di quel “teatrino delle parti sociali” di cui ha parlato il ministro Fornero che serve a coprire l’ormai totale libertà di licenziamento dei lavoratori dipendenti.
Per completare brevemente il quadro, occorre tenere conto di almeno due dati di fatto che un regime mediatico totalmente schierato con Monti censura sistematicamente. Il primo è che la crisi economica comincia progressivamente a contagiare anche quei paesi che tutti gli esperti hanno sempre portato ad esempio per aver fatto le scelte “giuste”, adatte a competere nella globalizzazione. Il secondo, è che dopo aver raggiunto, ma non è assolutamente detto che ci si riesca, il pareggio di bilancio nel 2013, Monti ha blindato le scelte economiche dei futuri governi impegnandosi a dimezzare il debito italiano in vent’anni. Ciò comporterà dal 2014 al 2034, in mancanza quasi certa di crescita economica e in una situazione di collasso economico, manovre finanziarie di 45-50 miliardi ogni anno. La Grecia ormai non è distante.
Come detto, qualsiasi governo uscirà dalle urne nella primavera 2013, sempre ammesso che la situazione economica e la BCE ci permettano di votare (qualcuno si ricorda del referendum greco fatto abortire?), non potrà che ottemperare agli impegni presi precedentemente con l’Europa dal governo Berlusconi e sottoscritti dalla giunta Monti-Napolitano. Negli avvenimenti italiani, in particolare degli ultimi sei mesi, non si può non vedere una serie di coincidenze grandi e piccole, una regia occulta, un “grande vecchio” che manovra una “giustizia ad orologeria” per spianare la strada a Monti, a una sua eventuale rielezione nel 2013 e a blindare i suoi provvedimenti. Vedere in proposito la bocciatura dei referendum elettorali nel gennaio corrente anno per non creare frizioni nella maggioranza governativa che doveva già cercare la quadra sulla “riforma” del lavoro. Oppure il recente scandalo sui fondi della Lega Nord, unico partito che con il passato governo aveva impedito la riforma delle pensioni. Scandalo di cui avevano già da tempo timidamente accennato alcuni quotidiani, e che serve a sputtanare ulteriormente una classe politica totalmente corrotta e che sa di esserlo. Un ricatto che serve a mettere ulteriormente in sicurezza il governo “tecnico”: chi si oppone a Monti finisce in tribunale.
Se si resta all’interno di queste logiche liberiste, non vi è altra soluzione che quella che la giunta Monti-Napolitano sta mettendo in atto. Come se ne esce? Sul piano economico se ne esce con la cancellazione del debito, con l’uscita dall’euro, con l’uscita da questa Europa delle banche. Se ne esce uscendo da quella vera e propria associazione per delinquere che è la NATO che ci obbliga a spendere miliardi per comprare aerei che serviranno ad uccidere, per sbaglio ovviamente, la popolazione dell’Afghanistan, come prima fu per quella libica e quella serba. Se ne esce uscendo dal capitalismo, per quanto possibile. Coloro che dicono che soluzioni del genere avrebbero conseguenze estremamente negative soprattutto per le fasce deboli della popolazione, mi ricordano la vignetta di quel cieco che diceva di aver paura di un salto nel buio. Insomma se ne esce con cambiamenti radicali, con una rivoluzione appunto.
Come si fa una rivoluzione nel XXI secolo? Non in un paese dell’ancora cosiddetto Terzo Mondo, ma in un paese occidentale. Non una pseudo-rivoluzione arancione o viola o di altri strani colori, ma una rivoluzione anti-liberista. Come fa un popolo europeo a riconquistare la piena indipendenza e sovranità? E’ ancora possibile un “assalto al cielo” dopo le esperienze novecentesche? Domande cosmiche le ha definite un amico a cui le ho poste. Non sono un esperto in rivoluzioni perché non ne ho mai fatte in vita mia, anche se mi sarebbe piaciuto, e da giovane ci speravo. Non sono fra coloro che pur non avendone mai fatte, viaggiano sempre col manuale del perfetto rivoluzionario in tasca e segnano con la matita rossa gli errori, o presunti tali, commessi da coloro che una rivoluzione bene o male l’hanno fatta. Mi limito perciò ad alcune constatazioni da cui trarre eventualmente utili indicazioni.
Gli eventi accaduti l’anno scorso in Nord Africa e in Medio Oriente, sono stati di due tipi: guerre civili fomentate dall’Occidente che perdurano tuttora in paesi con regimi autoritari in vario modo ostili all’Occidente (Libia, Siria), e rivolte popolari nei paesi con regimi autoritari espressione degli interessi occidentali e non ostili a Israele (Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein). Ogni caso è diverso dall’altro e andrebbe approfondito singolarmente. Anche la repressione delle rivolte è stata diversa: spietata in Bahrein, che ospita la V flotta USA che controlla il golfo Persico, dove sono addirittura intervenuti i tank e le truppe antisommossa saudite, perché USA, EAU e Arabia Saudita non possono assolutamente permettere che la maggioranza sciita e filo-iraniana della popolazione spodesti la fedele monarchia degli Al-Khalifa. Meno pesante è stata la repressione in Egitto, perché l’esercito ha subito garantito la sostanziale continuità delle politiche di Mubarak.
I risultati ottenuti da queste rivolte sono da considerarsi per ora sostanzialmente modesti. Ma, ripeto, non si può generalizzare. Nella maggior parte dei casi, quasi tutti i problemi politici e le contraddizioni sociali che hanno provocato le rivolte sono rimasti a tutt’oggi irrisolti, e la nuova classe politica emersa dalle rivolte è composta da qualche faccia nuova assieme a tanti fedelissimi dei vecchi regimi che si sono riciclati. Insomma, senza voler dire che il sangue versato non è servito a nulla, bisogna però ammettere che i vecchi e nuovi detentori del potere (ad esempio l’esercito egiziano) hanno cambiato qualcosa per non cambiare nulla. E’ mancato un progetto di società diversa, un’alternativa secca atta a soddisfare le richieste di cambiamento che provenivano dai popoli, che è esattamente ciò che distingue una rivolta da una rivoluzione. Né bisogna poi cadere nella trappola dell’Occidente che ha accomunato tutti gli eventi, guerre civili e rivolte popolari, nel termine onnicomprensivo di “primavera araba”, facendo intendere l’inizio di un’era di libertà laddove invece c’è solo la prosecuzione di politiche coloniali in forme propagandisticamente più “democratiche”.
Dopo il crollo del muro di Berlino, in un solo paese al mondo, il Venezuela, è stata fatta una rivoluzione che ha dato a quel popolo la piena indipendenza e sovranità all’interno dei suoi confini. L’esempio del Venezuela ha poi facilitato l’affrancamento dall’imperialismo USA di altri popoli dell’America Latina. E’ mia opinione, che il successo di Hugo Chavez (che Dio lo conservi a lungo) sia soprattutto dovuto al fatto di non aver diviso ideologicamente il suo popolo, ma di aver parlato di concreti e contrapposti interessi fra le classi sociali. Nonché di essersi rifatto alla figura del Libertador Simon Bolivar, patriota venezuelano che contribuì nell’Ottocento all’indipendenza dell’America Latina, sottolineando come le ingiustizie sociali dipendessero dalla mancanza di sovranità e indipendenza del popolo venezuelano e dall’assoggettamento all’imperialismo USA.
Sette anni fa ero presente nella piazzetta antistante la Camera del Lavoro di Milano ad ascoltare il discorso di Chavez in visita in Italia. Sono sempre stato politicamente curioso, e devo dire che quella sera di ottobre del 2005 ho speso bene il mio tempo. Tanto che ricordo ancora oggi perfettamente alcuni passaggi di un discorso appassionante sul socialismo nel XXI secolo che ha tenuto inchiodate un migliaio di persone per quasi un’ora e mezza. Fra le tante, ricordo particolarmente la seguente frase di incredibile attualità: “La libertà senza uguaglianza serve solo ai forti per dominare i deboli”. Il ritorno a Torino e alla realtà italiana fu traumatizzante: nella “sinistra alternativa” si discuteva allora come oggi quasi esclusivamente di liste e alleanze elettorali, di poltrone nelle istituzioni. Insomma dalle stelle alle stalle.
Su questi numerosi argomenti che ho citato quasi solo per titoli dovrebbe dibattere una forza politica che volesse veramente porsi come alternativa allo sfascio della giunta Monti-Napolitano e della maggioranza che la sostiene. Invece ci sono quelli che forse si sono persi qualche puntata degli eventi italiani e pensano ancora di allearsi col PD per battere le “destre pericolose, populiste, xenofobe” e via delirando. Poi vi sono quelli che usano ancora categorie dello scorso secolo come trotzkismo/stalinismo per leggere gli eventi del XXI secolo. Quelli che basta la falce, il martello e la bandiera rossa e le masse popolari sono pronte a fare la rivoluzione. Quelli che il comunismo “Basta la parola” come il famoso confetto Falqui, sino a quelli che non hanno ancora deciso cosa faranno da grandi e sperano soltanto di occupare in qualsiasi modo un posticino nelle istituzioni. “Signor Arbore, il livello è basso” come diceva il professor Pazzaglia, l’indimenticato intellettuale-filosofo di “Quelli della notte”.
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Sulla Rivoluzione – Risposta a Cesare Allara
di Costanzo Preve
1. Cesare Allara ha messo in rete l’8 aprile 2012 un corposo intervento sulla rivoluzione ( Come se ne esce? Con una rivoluzione ).
Benché Allara sia solo un geometra in pensione, rivela nel suo intervento di essere un politologo più in gamba di Bobbio e di Sartori. E questo per una ragione semplicissima, perché si rifiuta di modellizzare astrattamente la democrazia, il liberalismo, le forme di Stato e di governo, eccetera, separando metodologicamente lo spazio economico dallo spazio politico. Esattamente ciò che Bobbio e Sartori non fanno, per cui poi hanno buon gioco nell’isolare un sistema di regole sospeso nel vuoto.
Oggi parlare di rivoluzione fa passare chi lo fa per irresponsabile estremista potenzialmente totalitario. Non è così, ma è quello che oggi passa il convento politicamente corretto. Per farla breve, sosterrò le seguenti tesi:
a) La rivoluzione non può più essere considerata inevitabile storicamente, come un marxismo utopico e drogato ha fatto passare per un secolo e mezzo. Può anche darsi che non arrivi mai, almeno in tempi storici. Al massimo se ne possono ipotizzare le precondizioni trascendentali (in linguaggio kantiano), culturali (in linguaggio idealistico-hegeliano) e socio-economiche (in linguaggio marxiano).
b) Per pura analogia, dirò ciò che penso di quattro rivoluzioni storicamente già avvenute: Francia 1789, Russia 1917, Cina 1949 e Cuba 1959. Da questo esame comparativo risulterà che oggi non possiamo aspettarci più nulla di lontanamente simile.
c) Mi sento di escludere soltanto due modelli come del tutto improbabili: il modello leniniano della rivoluzione operaia, salariata e proletaria organizzata in partito di tipo comunista, e il modello Negri-Hardt-Badiou delle moltitudini comuniste mondializzate. Ritengo il cincischiarsi intorno una perdita di tempo, e Allara ha fatto bene a parlare provocatoriamente di confetto Falqui. Poteva anche parlare di “dolce Euchessina”, visto che è una persona cortese e non ha voluto scortesemente dire: “Ma va a cagare!”.
d) Naturalmente io non so assolutamente come può avvenire una prossima rivoluzione. Ma ritengo un presupposto fondamentale lo sganciamento dalla globalizzazione, dagli USA e da questa Europa, nonché la fine della pestifera dicotomia Destra/Sinistra, modo infallibile di dividere il popolo potenzialmente riaggregabile su basi ideologiche e paleo-ideologiche.
2. Per un secolo e mezzo il marxismo scolastico, esplicito o implicito, ortodosso o eretico, rozzo o sofisticato, ha abituato a considerare la rivoluzione socialista pressoché inevitabile sulla base dell’analogia storica con la rivoluzione francese del 1789: così come c’era stata una rivoluzione borghese, così prima o poi arriverà inevitabilmente anche una rivoluzione proletaria.
Errore, errore scusabile, ma errore. E questo errore si fonda, a mio parere, su di una confusione teorico-pratica fra borghesia e capitalismo, come se il capitalismo fosse un treno trainato da una locomotiva chiamata borghesia e il macchinista potesse essere cacciato dai viaggiatori stanchi del fatto che non si fermava alle stazioni che volevano loro.
In realtà la borghesia è una classe dialettica, che produce contemporaneamente sia sfruttamento ed estorsione di plusvalore, sia coscienza inquieta ed infelice per la mancata universalizzazione dei valori illuministici ed idealistici di libertà, eguaglianza e fraternità. Karl Marx, che non aveva nulla di proletario, elaborò in modo brillante e profondo questa coscienza infelice borghese unendola a una lettura alternativa della teoria del valore di Smith e Ricardo. Il capitalismo, di cui la fase borghese è soltanto una fase, perché ha avuto una fase pre-borghese, ed è ora in piena fase post-borghese (mai confondere la borghesia con i gruppi strategici della riproduzione capitalistica globalizzata e con la proprietà privata giuridico-catastale dei mezzi di produzione!), è invece un meccanismo tecnico (nel senso di Heidegger), burocratico (nel senso di Max Weber), sistemico e anomico, vero “processo senza soggetto” (nel senso di Althusser e di La Grassa). Per questo la rivoluzione anticapitalistica si identifica filosoficamente con l’umanesimo e politicamente con il comunitarismo.
Dunque la rivoluzione non ha nessuna necessità. Potrebbe anche farsi attendere per secoli o non arrivare mai. Chi parla della sua necessità scientifica deve essere cordialmente inviato al confetto Falqui o alla dolce Euchessina.
3. La rivoluzione francese del 1789 è riuscita o è fallita? Dipende. In primo luogo, seguendo la teoria della nascita aleatoria del capitalismo di Robert Brenner, che io condivido, non c’è stato nessun bisogno del 1789 e della rivoluzione francese per far “decollare” il capitalismo. Mito per pigri. Nel 1640 in Inghilterra e nel 1776 negli USA non ci sono state rivoluzioni, almeno nel significato classista del termine. Il capitalismo è fiorito in Olanda e Inghilterra senza nessun bisogno di rivoluzione. Svegliatevi bambine!
In secondo luogo, la rivoluzione “borghese” della Bastiglia è riuscita, ma perché la borghesia era già al potere, ed è bastata una “spallata”, sia pur pittoresca con ghigliottina e Napoleone.
In terzo luogo, il suo programma originario è fallito completamente con la decapitazione di Robespierre (1794). Il programma originario, di tipo russoviano, prevedeva l’applicazione di un diritto naturale rivoluzionario e di un contratto sociale egualitario. Peggio che andare di notte, da Napoleone a Sarkozy.
4. La rivoluzione russa del 1917 invece, è fallita o è riuscita? Risponderò a modo mio, e scordatevi le tre sinfonie, leninista, trotzkista e stalinista.
La rivoluzione russa del 1917 ha avuto come base sociale e di classe la classe operaia e quella dei contadini poveri, organizzata necessariamente da un partito comunista leninista; senza organizzazione sarebbe ancora a pettinare le bambole e a sfogliare le margherite. Ed appunto perché ha avuto questa base sociale di classe, e non ha saputo, voluto o potuto allargarla è poi fallita nel 1991, sulla base di una controrivoluzione sociale di massa dei nuovi ceti medi “socialisti”, stanche dei metodi trogloditici del livellamento dispotico operaio e proletario. Stalin, lungi dall’essere stato un incidente di percorso o un burocrate termidoriano di destra (come raccontano le vulgate trotzkista e anarchica), è stato il solo modo con cui una classe radicalmente incapace di egemonia pacifica e consensuale, come la classe operaia, salariata e proletaria, ha potuto accedere al potere, sia pure per soli 74 anni (1917-1991).
Bestemmia! Anatema! Sacrilegio piccolo-borghese! Ma andate per favore alla dolce Euchessina e al confetto Falqui.
5. La rivoluzione cinese è riuscita, ma non certo a fare una Cina proletaria ed egualitaria (se non in parte nel periodo 1949-1976), quanto nel fare della Cina una grande potenza economica, politica e militare. Anche in Cina, come in URSS, per un po’ gli operai e i contadini poveri hanno dominato con metodi dispotico-egualitari, e poi c’è stata anche lì la fisiologica controrivoluzione dei ceti medi e dei nuovi ricconi. A differenza della Russia, in cui c’erano i trafficoni sionisti, l’idiota e ipocrita Gorbaciov e l’alcoolista Eltsin, i cinesi avevano una saggezza millenaria, e hanno fatto transitare pacificamente la baracca senza spaccare tutto. Questione di lunga durata con i Chin, gli Han e i Ming. Saggezza confuciana, sovranità nazionale e nessun postumo da sbronza sa vodka.
6.La rivoluzione cubana non ha nessun rapporto con il mito operaio, salariato e proletario. Essa è dovuta ad una avanguardia nazionalista combattente, che Dio benedica Castro e Chavez. Raul Castro, privatizzatore cauto, si è messo in una strada di tipo cinese, ma tiene sempre le redini del potere politico. Per questo le varie Yoani Sanchez e le altre iene sono tanto insoddisfatte. Ma quanto durerà nessuno lo sa. Spero a lungo, ma è un azzardo. E non ditemi che el pueblo unido jamas sera vencido. Finora è sempre stato sistematicamente vinto. E’ vero che c’è sempre una prima volta.
7. In Italia, per opera soprattutto della pigra tradizione inerziale “di sinistra”, la rivoluzione è pensata secondo un modello da confetto Falqui. E’ una sorta di CGIL + FIOM + Landini + CUB + COBAS, rafforzati da centri sociali casinisti e insaporita da salsa FEP (femminista, ecologista e pacifista). Dal momento che appare una base sociale insufficiente anche per i più ingenui, si attuano varie addizioni a fisarmonica, con lavoratori precari, gay, salariati vari, giovani flessibili, immigrati arabi e neri, cattolici progressisti, Ciotti vari, eccetera, fino a raggiungere la stragrande maggioranza del genere umano, sottraendo soltanto Berlusconi, Rosy Mauro e il povero Trota. Questa addizione e questa sottrazione restano sempre e solo virtuali, e cioè del tutto inesistenti. La grancassa mediatica nel frattempo demonizza Stalin, Pol Pot e il caro leader Kim Il Sung, avvertendo educatamente che i centri commerciali sono pur sempre meglio delle utopie totalitarie. La generazione del Sessantotto, nel frattempo pentitasi di essere esistita, ha trasformato il pentimento in una vera e propria organica visione del mondo.
C’è poi la variante centri sociali-marxismo universitario prevalentemente anglosassone, che rifiuta gli orribili burocrati coreani con gli occhi a mandorla, prende atto del fatto che gli operai al massimo possono darci dentro con tamburi e fischietti, e sognano di moltitudini di singolarità unificate magicamente da un impero deterritorializzato. Qui siamo a mio avviso nel delirio puro, ed è appunto per questo che piace tanto. Vogliamo voltare pagina, o no?
8. Voltare pagina è difficile, perché ti chiedono subito che cosa proponi tu, e siccome in effetti non glielo sai dire, allora ti mandano al diavolo e ripiegano, i più moderati su Camusso e Bersani, gli intermedi su uno dei tre porcellini (Vendola, Diliberto, Ferrero), e i più estremisti su di una setta bordighista (Lotta Comunista), staliniana (Rizzo) o trotzkista (Ferrando). Ma così ci si dimostra subalterni, perché solo un subalterno credulone si aspetta che gli scodellino la minestra già riscaldata. In realtà il gas deve addirittura essere ancora acceso, e i fiammiferi non si sa neppure dove cercarli.
9. Allara ha fatto benissimo a condividere l’auspicio del vecchio Mario Monicelli per una rivoluzione, ignota fino ad oggi nella storia d’Italia, che ha conosciuto solo forme di trasformismo metamorfico, da Depretis a Giolitti fino a D’Alema e Bersani. Ma non vorrei che questo troppo facile auspicio ci facesse sfuggire il punto più delicato, e cioè che l’auspicio sulla rivoluzione si accompagni a un sorvolare e a un silenziamento sui tre presupposti politicamente scorrettissimi che dovrebbero accompagnarlo.
Primo, la globalizzazione è l’equivalente di ciò che la sinistra, l’ANPI, i centri sociali, il PD e i tre porcellini chiamano “fascismo”.
Secondo, l’alleanza militare NATO e l’impero strategico USA nel mondo sono l’equivalente di ciò che sinistra, l’ANPI, i centri sociali, il PD e i tre porcellini chiamano “fascismo”.
Terzo e ultimo, l’euro è l’equivalente di ciò che la sinistra, l’ANPI, i centri sociali, il PD e i tre porcellini chiamano “fascismo”.
E perciò, delle due l’una: o la sinistra, l’ANPI, i centri sociali, il PD e i tre porcellini vivono nel mondo reale e io ho perso ogni contatto con il mondo, oppure è il contrario. Il lettore barri la casella giusta. Da tempo non mi offendo più, anche se mi dicono che ho perso ogni contatto con il mondo reale.
10. Partiamo dall’euro. Posso anche concedere la buona fede nei suoi creatori, tipo “rispondere alla sfida della globalizzazione” oppure “evitare in futuro altre guerre fratricide in Europa”. Non sono un economista, e l’euro potrebbe anche restare come moneta di riserva (Giacché, Mélenchon), ma bisogna prima ammetterlo: l’euro è stato un tragico errore, è incompatibile con il welfare, sia pure “dimagrito”, bisogna tornare alla sovranità monetaria dello Stato nazionale. Che poi ci possa o debba essere anche una moneta di conto parallela, lo si chieda agli “economisti di sinistra”.
La sfida della globalizzazione ha voluto dire di fatto l’adattamento supino alla globalizzazione. Non esiste una globalizzazione buona, virtuosa, o l’altermondialismo per gonzi politicamente corretti. Globalizzazione significa lavoro flessibile e precario, decentramento produttivo, speculazione finanziaria, privatizzazione tendenziale di tutta la sanità e di tutta l’educazione pubblica. I comportamenti della giunta Draghi-Monti-Napolitano sono sotto gli occhi di tutti, almeno di quelli che non si lasciano distrarre dall’avanspettacolo del Trota e della Santanchè.
Hanno aumentato l’età pensionabile, arriverà la mazzata dell’IMU, ma siamo appena agli antipasti. Sotto attacco ci stanno la sanità e l’educazione pubbliche. Il modello è quello americano, perché la globalizzazione tendenzialmente ha un solo modello: assicurazioni sanitarie private ed educazione privata a pagamento. Paesi scandinavi e Cina resisteranno per un poco, ma non possono farlo a lungo. La primavera araba cosiddetta ha liquidato l’autonomia dell’intero mondo arabo, consegnandolo a un pool di sceicchi sauditi e di fratelli musulmani insaporiti di salafismo. Si parla di antiglobalizzazione e di finanz-capitalismo (Gallino), e poi per politicamente corretto non se ne vuole pagare il prezzo: fuori dalla NATO, USA a casa loro, asse politico Parigi-Berlino-Mosca (niente a che fare con il vecchio comunismo), ripristino della sovranità e della moneta nazionale, contingentamento dell’immigrazione (niente a che fare con il razzismo!), eccetera.
E’ impossibile criticare il capitalismo, la globalizzazione, e avere anche il politicamente corretto di sinistra. Per fare la frittata bisogna rompere le uova. Se qualcuno per caso avesse questa ricetta, me la dica, e gliene sarò grato. Ma non credo ci sia.
l’Italia è ancora una nazione imperialista. la rivoluzione nn ci sarà così come nn ci saranno miglioramenti economici . oggi l’obiettivo e l’esempio sono gli usa….
ognuno cerca di guadagnare(rubare) per poi andarsene