Alla scoperta della guerriglia indiana
mar 27th, 2012 | Di Piero Pagliani | Categoria: Contributidi Piero Pagliani*
Improvvisamente l’Italia ha scoperto che esiste l’India.
Finora sapeva che esisteva un Paese asiatico che sfornava i film di Bollywood coi balletti, che aveva gli ashram da meditazione, un esercito di informatici, un PIL succulento e magari qualche interesse turistico e balneare. Ma non sapeva che esisteva l’India.
Ora tutti i giornali parlano della vicenda dei due marò e dei due connazionali rapiti dai ribelli maoisti.
Un vero shock: mentre in Occidente si tenta di ricacciare nella nebbia dei tempi anche il termine “comunista”, nella decima potenza economica mondiale si scopre che esiste un esercito di guerriglieri non solo comunisti, ma addirittura maoisti.
Come mai? Di che fenomeno si tratta?
I nostri due connazionali sono stati rapiti nello stato dell’Orissa mentre visitavano una zona tribale. In questi dati di fatto c’è tutto quel che serve per iniziare a parlare del fenomeno della guerriglia maoista in India.
L’Orissa è uno degli stati più poveri dell’Unione Indiana. Chi va in questa bellissima terra ospitale ha la sensazione di ritrovarsi in un’India di quarant’anni fa, non ancora invasa dal turismo internazionale ma già invasa dalla plastica, segno tangibile della sua “modernizzazione”. Infatti la regione è passata da un PIL di 37.000 milioni di rupie nel 1985 a 670.900 milioni nel 2005. Il solito paradosso di un capitalismo che si sviluppa polarizzando le ricchezze: accumulazione grandiosa da una parte, povertà e degrado dall’altra: la popolazione dell’Orissa soffre di un tasso di povertà cronica per oltre il 40%, percentuale che sale sensibilmente tra la popolazione tribale che costituisce più del 22% degli abitanti.
L’Orissa possiede un quinto del carbone indiano, un quarto delle miniere di ferro, un terzo della bauxite e quasi tutta la cromite. Sono stati firmati Memorandum of Understanding che prevedono la creazione di alcuni dei più giganteschi impianti estrattivi di tutta l’Asia e a farne le spese sono le popolazioni tribali e i contadini poveri, perché quelle concessioni investono prevalentemente le zone abitate dalle tribù e da contadini marginali oggi ridotti alla fame grazie alla Nuova Politica Agricola orientata alle grandi proprietà e all’agri-business internazionale.
Voglio subito accostare questi dati ad un brano tratto dallo straordinario reportage che Arundhati Roy ha scritto nel 2010 su Outlook dopo aver trascorso un mese in clandestinità coi guerriglieri:
«Sono circondata da questi strani, splendidi ragazzini col loro curioso arsenale. Sono tutti maoisti, di sicuro. Stanno tutti per morire? La giungla è la loro scuola di addestramento militare? E gli elicotteri d’assalto, le silhouttes della ricerca termica e i telemetri al laser? Perché devono morire? Per che cosa? Per trasformare tutto questo in una miniera? Ricordo la mia visita alle miniere a cielo aperto di ferro a Keonjhar, in Orissa. Là prima c’era una foresta. E ragazzini come questi. Ora la terra è come una ferita aperta, rossa. Polvere rossa riempie le narici e i polmoni. L’acqua è rossa, l’aria è rossa, la gente è rossa, i loro polmoni e i loro capelli sono rossi. Tutto il giorno e tutta la notte i camion rombano per i loro villaggi, paraurti contro paraurti, migliaia e migliaia di camion, che trasportano il minerale al porto di Pradip da dove partirà per la Cina. Ritornerà lì sottoforma di auto e di fumo e di improvvise città che spunteranno di notte. Ad un “ritmo di crescita” che lascia gli economisti senza fiato. Sottoforma di armi per fare la guerra.»
2. I tribali sono la popolazione più antica dell’India. Stimati nelle statistiche in 80 milioni in realtà sembra che siano circa 140 milioni. Ufficialmente detti Adivasi (che in Sanscrito significa, per l’appunto, “aborigeni”), preferiscono chiamarsi ed essere chiamati “tribali”.
Esiste nella Repubblica Indiana un “registro” delle tribù che dovrebbe favorire il loro sviluppo (“Scheduled tribes”). Ed effettivamente esiste anche un corpo di leggi che dovrebbe proteggere i loro diritti, le loro proprietà, i loro territori. Ma i tribali sanno, fin dai tempi del Raj britannico, che tutti questi diritti si sciolgono come neve al sole appena il “progresso” accampa pretese contrapposte sul loro ambiente. E “progresso” significa ora sfruttamento delle foreste e delle risorse minerarie colà celate. E in più quello della risorsa principe: l’acqua.
E’ per queste ragioni che i tribali si organizzano in forze di resistenza che a loro volta vengono organizzate, militarmente e politicamente, dai maoisti mentre gli interessi costituiti organizzano forze di “autodifesa” (dette ipocritamente “Salwa Judum”, ovvero “marcia della pace”) che si dedicano a tali e tante nefandezze che corrono regolarmente il rischio di essere sciolte dalla Suprema Corte: si leggano i racconti tremendi di Mahasweta Devi, la più grande scrittrice bengalese contemporanea. Si leggano le sevizie alle quali sono sottoposte le donne, come il massacro del loro seno, simbolo di fertilità e di continuità della vita.
3. Ma qual è la “storia” di questo movimento guerrigliero di cui in Italia praticamente non se ne sa nulla?
Il 3 marzo del 1967 nel distretto di Darjeeling un gruppo di braccianti appartenenti alla tribù dei Santhal, spalleggiati da un folto gruppo di militanti rivoluzionari del Communist Party of India (Marxist), o CPM, capeggiati dal coraggioso e esperto dirigente Kanu Sanyal, occupa illegalmente con le sue bandiere rosse una porzione di latifondo vicino al villaggio di Naxalbari e comincia a mietere il grano.
Sarà una piccola scintilla destinata ad incendiare una vasta prateria, non solo nelle aree rurali ma anche in grandissime metropoli come Calcutta, dove decine di migliaia di giovani e studenti, infiammati dall’idea di poter trasformare l’India in un Paese comunista ripercorrendo la vittoriosa strategia dei rivoluzionari cinesi, si spostarono nelle campagne per aiutare il movimento contadino o iniziarono azioni di guerriglia urbana.
I rivoluzionari in poco tempo si staccarono dal CPM, considerato opportunista e revisionista, e fondarono il Communist Party of India (Marxist-Leninist), o CPI(ML), sotto la direzione del geniale e determinatissimo leader Charu Majumdar. Alla sua destra stava proprio Kanu Sanyal, che il Primo Maggio del 1967 annunciò la nascita del nuovo partito sulla grande spianata del Sahid Minar a Calcutta, davanti a una folla immensa.
Tuttavia l’India degli anni Settanta non era la Cina degli anni Quaranta: le condizioni sociali ed economiche erano diverse e non c’era una guerra mondiale a dividere il fronte dei potenti, a indebolire gli avversari e a porre una questione nazionale, tutti fattori decisivi che giocarono a favore dei rivoluzionari cinesi.
Gettata a terra e rialzatasi più volte con enorme coraggio, la guerriglia naxalita dopo sei anni venne definitivamente sconfitta con un altissimo tributo di sangue e una tremenda serie di violenze, non solo nelle campagne.
Il bilancio delle vittime della repressione di quegli anni fu di 10.000 persone, tra cui la maggior parte della leadership, mentre all’incirca altre 50.000 furono messe in prigione. Tutto ciò senza che si levasse una sola voce di protesta nel Parlamento.
Charu Majumdar divenne il ricercato numero uno. Il 16 luglio del 1972 la polizia riuscì ad arrestare una staffetta che a seguito di torture brutali rivelò l’ubicazione del luogo in cui Majumdar si era rifugiato a Calcutta, permettendone l’arresto. Morì in circostanze non chiarite mentre era in mano alla polizia. Il suo corpo venne cremato in tutta fretta alla sola presenza dei più stretti congiunti.
4. Kanu Sanyal intanto giaceva da due anni in prigione nello stato dell’Andhra Pradesh, condannato all’ergastolo. Da tempo aveva però messo in discussione la linea di Charu Majumdar dell’annichilimento del nemico di classe, che nella nostra terminologia potremmo definire “brigatista”, che prevedeva l’eliminazione di latifondisti, uomini della polizia, politici e funzionari statali. Al suo posto, Sanyal propugnava la “linea di massa” dell’occupazione delle terre dei latifondisti e la loro difesa con le armi, linea considerata da Majumdar “economicista”.
Era un disaccordo latente che si era manifestato ben prima dell’arresto. Durante il nostro incontro nelle campagne di Naxalbari nel 2006 Kanu mi rivelò che c’era un segreto accordo tra lui e Charu Majumdar: ognuno avrebbe portato avanti la propria linea, anche se quella ufficiale rimaneva la linea di Charu. Morto Majumdar, i naxaliti finirono per adottare la linea di Kanu Sanyal che fu liberato nel 1977 su interessamento del neonato governo bengalese del Left Front, pressato da una campagna popolare e giornalistica a suo favore in cui fu persino accostato al Mahatma Gandhi (Kanu Sanyal in più riprese totalizzerà ben 15 anni di prigione).
Costretti ad indietreggiare di fronte alla repressione, a rinchiudersi in basi sempre più locali, man mano i vari gruppi rivoluzionari iniziarono a riorganizzarsi e a riunirsi, su basi prima regionali, poi statali e infine panindiane. Tuttavia una parte delle organizzazioni decise di uscire dalla clandestinità, non ritenendo l’India in condizioni pre-rivoluzionarie, mentre un’altra parte decise di continuare a portare avanti la lotta armata.
Così questa lenta fase di riorganizzazione sfociò da una parte nella nascita di due principali partiti marxisti-leninisti che uscirono dalla clandestinità, ovvero il CPI(ML) Liberation e, nel 2004, il CPI(ML) diretto da Kanu Sanyal, mentre dall’altra portò all’unificazione dei propugnatori della guerriglia di massa le cui sparse organizzazioni si riunirono nel settembre dello stesso 2004 nel CPI(Maoist), conquistando sempre maggiori consensi da parte soprattutto dei tribali, poi dei braccianti e dei contadini marginali. Una forza che fu possibile verificare quando, lo stesso anno, in occasione dei “colloqui di pace” tra i maoisti e il governo dell’Andhra Pradesh, i guerriglieri furono sostenuti nella città di Warangal da una manifestazione di un milione e mezzo di persone.
Era la prova del loro radicamento nelle foreste interne della “tribal belt”, la “fascia tribale” popolata dai più antichi abitanti dell’India. L’area di azione della guerriglia comprende il Karnataka, il Chhattisgarh, il Bengala Occidentale, l’Andhra Pradesh, il Maharashtra, il Jharkhand, il Bihar, l’Uttar Pradesh e, per l’appunto, l’Orissa.
5. Ma sebbene finora si sia trattato di una guerra a bassa intensità, la guerriglia maoista è ormai considerata una minaccia al “progresso”, con quel bendidio celato nelle colline e nelle foreste in cui nei secoli è stata emarginata la gente che ad essa oggi si affida per la propria sopravvivenza. E ciò spiega ogni tipo di retorica a supporto dell’escalation repressiva.
Il 18 giugno 2009 al Lok Sabha, il Parlamento indiano, il Primo Ministro, Manmohan Singh, economista con un passato al Fondo Monetario Internazionale, è stato esplicito: “Se gli estremisti di sinistra continuano a prosperare in zone che hanno ricchezze naturali minerarie, il clima per gli investimenti ne risentirà sicuramente”. Cinque mesi più tardi con la mobilitazione di 18 compagnie armate di tutto punto fu lanciata l’Operazione Green Hunt e le azioni delle corporation minerarie schizzarono alle stelle.
Tuttavia la repressione non riesce a venire a capo della “singola più importante minaccia interna dal momento dell’Indipendenza” (come ebbe a dire Manmohan Singh). Si tentano allora negoziazioni; ma in mezzo a operazioni militari, come si lamentava con me uno dei negoziatori lo scorso novembre a Calcutta. Tre giorni dopo, infatti, a seguito di una vastissima operazione nelle foreste del Jungal Mahal proprio nel Bengala Occidentale, veniva ucciso Kishenji, capo militare del CPI (Maoist).
Il governo nega che sia in corso un’operazione chiamata “Green Hunt”. Ma con questo o un altro nome, o anche priva di nome, l’operazione c’è, l’ordine di sparare a vista ai maoisti veri o sospettati c’è, l’ordine di uccidere per il progresso c’è.
* studioso del movimento naxalita, attivista No War, è tornato recentemente dallo stato indiano dell’Orissa.