Come si abbattono i regimi
feb 25th, 2012 | Di Riccardo Di Vito | Categoria: Contributidi Giulietto Chiesa *
Raramente scrivo recensioni. In genere, quando non sono costretto a farlo da ragioni di convenienza, o per soddisfare le pretese di autori molto insistenti, scrivo di libri che mi piacciono, o che intendo proporre ad altri lettori perchè li ritengo utili, o perchè offrono angoli visuali originali.
In questo caso il libro in questione non mi è piaciuto per niente. Anzi l’ho trovato irritante. Il suo autore è sostanzialmente un poveraccio (intellettualmente parlando s’intende), che esce come un pulcino inzuppato di ideologia – intesa come falsa coscienza – dalla lavatrice del pensiero unico. Un esegeta, dunque, della Matrix in cui ha vissuto, del tutto incapace di vedere i suoi confini. Una specie di protagonista da “Truman show”, ma privato di ogni possibilità di redenzione.
Perchè ne scrivo, dunque? Perchè – come avrebbe detto Leonardo Sciascia – il contesto che rappresenta è straordinariamente interessante, ricco di informazioni su come si pensa, cosa si pensa, come si agisce nei centri della sovversione, quei posti dove vengono elaborate le vere strategie e tattiche rivoluzionarie dei tempi moderni. Tempi in cui, per essere precisi, le rivoluzioni le fa il Potere, non i rivoluzionari d’un tempo, non i mitici anarchici, non i popoli, non i partiti, non i soviet, o comunque si siano chiamati in passato, fino al secolo XX incluso.
E qui è subito opportuna una serie di notazioni non a margine. Forse utile per quei lettori che ancora pensano, appunto, con le categorie dei tempi andati; di quelli che, non essendosi aggiornati, non avendo fatto alcuno sforzo per capire quali cambiamenti sono intervenuti nei rapporti di forza, nelle dinamiche economiche e sociali, nei sistemi di informazione e comunicazione, nelle tecnologie della manipolazione, continuano ad applicare le teorie rivoluzionarie dell’epoca delle lotte di classe così come fu descritta, e creata, a partire dalla rivoluzione francese. Ma queste note a margine, che sono la ragione vera per cui scrivo queste righe, potrebbero forse servire anche per coloro che rivoluzionari non sono, e non intendono essere, ma che semplicemente non hanno mai provato a cimentarsi intellettualmente con il problema del Potere. E, essendo totalmente impreparati a farlo, non sono capaci di capire come il Potere agisce per mantenere se stesso. Con quale ferocia, un Potere – ferocia tanto più grande quanto più grande è questo potere – usa gli strumenti dei quali dispone. Il Potere non è mai “dilettante”. E’ un mestiere. E agisce sempre per la vita o per la morte.
Ora gl’intellettuali sono spesso inclini a ragionare proiettando sugli altri la loro visione del mondo. Quando lo fanno sulle persone prive di potere commettono sempre dei guai, ma talvolta questi guai sono di secondaria importanza, perchè le persone normali non hanno potere. Ma quando questa proiezione si esercita nei confronti del Potere, essa può divenire esiziale, sia per chi la fa (cioè per gl’intellettuali stessi), sia per chi ci crede, cioè per i lettori dei loro libri, dei loro scritti, dei loro articoli, delle loro conferenze.
Se dunque tu cercherai di descrivere una lotta politica del Potere contro i suoi antagonisti come se fosse una partita di scopone, probabilmente finirai male (soprattutto se sei dalla parte degli oppositori al Potere). Il quale non gioca a carte, se si sente in pericolo: liquida, squalifica, esclude, se necessario uccide. Questo dettaglio sfugge alla gran parte degl’intellettuali e a quasi tutti i giornalisti. Quelli, tra questi ultimi, cui non sfugge, di regola si mettono dalla parte del Potere e così smettono di giocare a carte anche loro. Gli altri, i maggiormente stupidi, continuano a giocare a carte, essendo spesso utili a impedire a tutti gli altri di capire cosa fa il Potere. Questo spiega perfettamente perchè il libro di Gene Sharp è stato scritto: per loro.
Ovvio che con quelle categorie interpretative autoreferenti, non solo non si può vincere niente, ma non è più nemmeno possibile capire chi attacca e chi si difende, dov’è il campo di battaglia, chi sono i contendenti. Quando si discute con questi orfani della ragion politica non è difficile rendersi conto, per esempio, che questo vacuum quasi assoluto di analisi porta spesso costoro a pensare di essere all’offensiva su inesistenti tenzoni, mentre stanno subendo sconfitte clamorose nei campi reali dove la battaglia è in corso, ma dove loro non ci sono. Appunto perché sono altrove. I mulini a vento sono ciò che vedono questi Don Chisciotte modernissimi. La differenza tra loro e il loro prototipo consiste in un solo, enorme dettaglio. Quello della Mancia sognava per conto proprio. Questi sono stati ipnotizzati dal Potere, e vengono condotti per mano dove questo vuole.
Il libro è, in sostanza, la descrizione di come l’Impero, morente, diventa sovversivo per difendersi. E’ un manuale della “rivoluzione regressiva”: l’unica rivoluzione esistente, che segnerà gli ultimi decenni che precedono il crash finale di questo sistema. Il quale, non avendo più futuro, è costretto a pensare a ritroso. E lo fa utilizzando l’ultimo strumento che ha a disposizione: le tecnologie. E’ per questo che riesce ad apparire moderno agli occhi di milioni di giovani, che – immersi come sono nella Grande Piscina dei Sogni e delle Menzogne – non riescono a guardare “fuori” e a vedere la complessità della manipolazione cui sono soggetti.
L’autore si chiama Gene Sharp e non è un ragazzino, visto che è classe 1928. Come abbia vissuto fino ai giorni nostri è faccenda non misteriosa. Basta guardare su Wikipedia la sua modesta carriera di sovversivo.
In questa specialità emerge al termine di una lunga vita nell’ombra, pubblicando un libro il cui titolo originale – “From Dictatorship to Democracy” – richiama subito alla memoria Francis Fukuyama, quello della “fine della storia”. L’editore italiano è Chiarelettere, per altri aspetti benemerito, ma in questo caso completamente abbacinato anch’esso dall’ideologia imperiale.
I confini di Matrix, come sappiamo, sono vasti e appiccicosi. Nell’ultima di copertina l’editore italiano ci informa che Sharp “è ritenuto tra i principali ispiratori delle rivoluzioni che stanno sconvolgendo il mondo arabo”. Definizione riduttiva. In realtà Gene Sharp (diciamo la sua scuola di pensiero, sebbene chiamarla in questo modo faccia correre qualche brivido nella schiena) è l’ispiratore di tutte le esportazioni della democrazia americano-occidentale dell’ultimo trentennio. Di quelle innescate e vinte, come di quelle tentate e perse. E’ bene ricordarlo, perchè nonostante il Potere sia l’unico rivoluzionario esistente, non è detto che le rivoluzioni che tenta le vinca tutte. Qualche volta le perde. Comunque Sharp è il profeta, appunto, delle “rivoluzioni regressive”. Per questo merita tutta l’attenzione da parte nostra, di noi che siamo le sue vittime, i suoi bersagli.
Lui, di sé, dice: “Ero a Tien an men quando i carri armati ci sono venuti addosso” (La Repubblica, 17 febbraio 2011). Capito dove stava? Forse era lui quel giovanotto che fermò la colonna dei carri armati sotto l’Hotel Pechino. A quanto pare fu dappertutto. C’era lui dovunque sorgessero le rivoluzioni, come i funghi, specie dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sicuramente Gene Sharp era anche quel rude picconatore che sgretolava a martellate il famoso Muro di Berlino. E’ stata la sua tavolozza a fornire i colori delle varie rivoluzioni del ventennio passato, da Belgrado a Tirana, a Pristina a Kiev, a Tbilisi. Quando Gene Sharp non era presente di persona, sembra di capire che “ispirava” da lontano.
Il libro risulta tradotto in quasi trenta lingue, sicuramente in arabo, in russo e in cinese. E si capisce il perché, leggendolo. Perché le centrali sovversive guardano già a Mosca e San Pietroburgo, a Pechino e Shanghai. Si capisce anche che contenga qualche contraddizione, come accade a tutti i bestsellers. La tesi centrale del libro è che ogni dittatura può essere abbattuta, “purché la ribellione nasca dall’interno”. Ovvero: purché sembri che essa nasca dall’interno.
Viene in mente subito la Libia. E, ai giorni nostri, la Siria, o anche la Russia.
Infatti Gene Sharp spiega subito che, per nascere dall’interno, se non ci arriva da sola, la ribellione, deve “essere ispirata” da qualcuno. Ecco: il libro di Sharp è un manuale per formare gli “ispiratori”. Per questo – ma Sharp non lo dice – è sufficiente avere molti soldi, a decine e centinaia di milioni. Infatti, queste ribellioni avvengono di regola – così è stato fino ad ora – nei luoghi dove i redditi sono bassi, più bassi, e dove il denaro è l’arma principale per “ispirare”. Senza questo “differenziale” di ricchezza, non c’è ispirazione che tenga. E il primo suggerimento da dare agl’ingenui che non conoscono il Potere è proprio quello di chiedersi: come mai gl’«ispirati» che Gene Sharp cerca sono tutti nei paesi che soffrono di quel differenziale?
Non sarà che, ad essere «ispirati», sono gl’intellettuali dei paesi più poveri? Con i proventi di quel differenziale si possono finanziare centinaia e migliaia di borse di studio, di grants per professori universitari, che accorreranno nelle università britanniche, americane, francesi, tedesche, nei think-tank occidentali, dove verranno educati in piena libertà ad amare solo i valori occidentali, e dove vedranno aprirsi autostrade per le loro carriere future. In patria dopo la vittoria, all’estero in caso di sconfitta. E’ così che si delinea il provvidenziale aiuto dall’esterno. C’è, per questo, e opera da decenni, una possente rete di istituzioni specificamente ad esso destinate, costruite, finanziate. Da “Giornalisti senza frontiere”, solo per fare qualche esempio, ai vari Carnegie Endowment for International Peace, agli Avaaz che raccolgono firme a tutto spiano, e che a volte sembrano davvero delle centrali missionarie, moralizzatrici, libertarie, ecologiche, verdi, comunque molto colorate. Ci sono, per questa bisogna, radio come Free Europe, Radio Liberty, Deutsche Welle e via elencando. Ci sono televisioni satellitari, una marea di siti web, che sono impinguate di piccoli eserciti di “ispiratori” dall’esterno, che trasmettono incessantemente, foraggiano, spingono, descrivono le lotte per i diritti umani, per la democrazia; che fissano le scadenze delle rivoluzioni, delle “primavere”, degli aneliti alla libertà d’impresa, al mercato.
Se, per esempio – com’è accaduto recentemente – il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve votare una risoluzione di condanna del governo siriano che troverà il veto di Russia e Cina, ecco che l’”ispirazione” giungerà puntuale a muovere tutti i media occidentali perchè annuncino stragi in diverse città siriane. Mancheranno fonti attendibili e conferme, ma basterà per questo pubblicare i dati forniti da Avaaz, non si sa come raccolti, oppure quelli di Al Jazeera e di Al Arabiya, la cui attendibilità è ormai pari a quella della CNN, cioè uguale a zero. Non insisterei su tutti questi noiosi dettagli se non avessi assistito di persona alle modalità con cui sono state finanziate e organizzate le rivoluzioni colorate in Jugoslavia, in Ucraina, in Georgia, in Cecoslovacchia, e prima ancora con il meraviglioso prototipo di Solidarność in Polonia, che ebbe come “ispiratore” principale, sotto il profilo ideologico e finanziario, niente meno che il Vaticano del – per questo – beatificato Karol Wojtyła.
Operazioni che, nel centro d’Europa, continuano tutt’ora attorno all’”ultima dittatura”, quella di Aleksandr Lukašenko in Bielorussia, accerchiata dalle radio e dalle televisioni che, pagate dall’Unione Europea, trasmettono dai territori appena conquistati del Prebaltico e della Polonia.
Naturalmente – sarà opportuno ricordarlo per prevenire le geremiadi di coloro che mi accuseranno di sostenere i dittatori più o meno sanguinari – in molti di questi casi le repressioni sono esistite ed esistono. Naturalmente la corruzione e la palese assenza di democrazia di alcuni di quei regimi esistono e sono esistite. Naturalmente esistono e sono esistite forme di resistenza dei diritti umani che meritano tutta la nostra solidarietà. Esse esistono, combattono in condizioni impari contro un Potere che è più forte di loro. Ed è appunto su di esse che si esercita l’”ispirazione” di cui scrive Gene Sharp. Ed essa può fare conto sulla potenza sterminata del denaro, quando è sterminato; ma anche sull’ingenuità dei destinatari. I quali, costretti come sono sulla difensiva, sono straordinariamente penetrabili alle forme più sottili, più innocenti, più “giustificabili”, di corruzione. E’ appunto maneggiando questa trappola che agiscono gl’”ispiratori” come Gene Sharp e i finanziatori che sono appollaiati sulle sue spalle.
Dunque la prima cosa che occorre fare, per capire cosa è successo e succede in tutti i paesi che si trovano dalla parte bassa del differenziale di ricchezza, è osservare l’evoluzione che si verifica proprio nei movimenti di ribellione: cioè come essi sono prima della cura cui vengono sen’altro sottoposti dagl’”ispiratori”, e poi dopo. Questa analisi rivelerebbe curiose somiglianze tra la trasformazione che fu subita, per esempio, da movimenti come “Otpor”, a Belgrado e nella ex Jugoslavia, e la rinomata e ormai defunta “Rivoluzione Arancione” in Ucraina. Si parte da qualche vecchio ciclostile, e si arriva con un contratto di insegnamento magari a Harvard. Resistere è difficile, per non dire impossibile. All’inizio sono “ispirazioni”, poi diventano ordini, ai quali è impossibile resistere. E più il differenziale è alto, più è facile trovare decine, poi centinaia, poi migliaia di sinceri, sincerissimi “ispirati”.
Hic Rhodus, hic salta. E’ qui che bisogna avere il coraggio e la forza di distinguere i diritti sacrosanti che vengono violati, dai profittatori politici esterni (o anche interni) che li utilizzano per fini di conquista. C’è un criterio abbastanza semplice per distinguere. Basta conoscere chi finanzia. Se, per esempio, ci sono buone ragioni per pensare che sia l’Arabia Saudita a comprare armi e a assoldare eserciti, ecco che si può stare certi che, appoggiando una data rivolta, non si lavora al servizio della democrazia e dei diritti, bensì si sostiene la barbarie e l’oppressione.
Ti mostreranno il contrario, naturalmente. E’ il loro mestiere. Lavorano per questo, ben pagati, 24 ore al giorno, tutti i giorni. Esempi preclari di questa circostanza sono l’UCK del Kosovo e la rivolta siriana. Nel primo caso fu un intero esercito a essere organizzato, finanziato, istruito, appoggiato da fiumi di denaro provenienti da Riyād, da Washington, da Berlino, dalla Nato. E non è un caso se il governo di Pristina che ne è emerso è un covo di criminali, le cui mani insanguinate vengono strette ora con calore a Bruxelles, in pieno ludibrio di ogni diritto umano e di ogni principio europeo di libertà e di rispetto dei diritti umani.
L’altro esempio è ora sotto i nostri occhi in Siria, dove l’evidenza mostra un intreccio complesso ma trasparente di aiuti esterni, ai ribelli provenienti da Israele, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti d’America. Non sono singole unità, sono centinaia, e poi migliaia di stipendi, di prebende, di consiglieri, di esperti. E poi, quando non bastassero i consigli e si dovesse fare ricorso alla forza, è la volta degli eserciti mercenari. E, quando essi vanno al potere e vincono, segue una lunga scia di sangue, di violenze, di vendette, di illegalità e di soprusi. E, dunque, si può essere certi che, in caso di caduta del regime di Bashar el-Assad, quello che verrà dopo non sarà certamente il trionfo della libertà e dei diritti umani. Si veda il caso, di nuovo, della Libia appena liberata dal “sanguinario” dittatore Gheddafi e in preda a masnade criminali che erano già tali prima che il conflitto cominciasse e che ora sono divenute padrone.
Insomma basta applicare l’antica regola del cui prodest. Che non è criterio certo al 100%, ma che funziona, in politica, quasi sempre. Ovviamente usando norme di cautela elementari, come quella di stare sempre attenti che gli organizzatori delle provocazioni le costruiscono sempre utilizzando alla rovescia proprio il principio del cui prodest. Così, quando vi capiterà di trovarvi di fronte a un attentato terroristico qualunque, basterà che analizziate bene – per disinnescarlo – il cui prodest che vi viene offerto su un piatto d’argento. Per esempio quando qualcuno assassinasse Vittorio Arrigoni, e voi sentiste da tutti i mass media, all’unisono, la rivendicazione di un non meglio identificato “gruppo salafita”, con tanto di sito internet e musichetta rivoluzionaria araba, dovreste immediatamente pensare che gl’ispiratori sono stati – faccio un esempio a caso – i servizi segreti israeliani.
L’edizione italiana di Gene Sharp mette in caratteri minori il titolo inglese e offre una nuova titolazione: “Come abbattere un regime”, e come sottotitolo offre un condensato ideologico da cento tonnellate di peso: “Manuale di liberazione non violenta”. Come non applaudire? Qui, sommersi nella melassa libertaria, si possono intravvedere diversi contenuti complementari. Il primo è chiarissimo: noi siamo la democrazia, la libertà e la verità. Dunque abbiamo il diritto, se non addirittura il dovere, di insufflarla sugli altri. Meglio se negli altri. Chiunque si opponga al trionfo dei nostri ideali è parte del “Male”.
I dittatori sono tutti brutti e cattivi, e sono tutti gli altri: quelli che contrastano il Bene. Chi non li combatte con sufficiente convinzione è un alleato del Male.
Perchè esistano i dittatori, da dove vengano, come si siano formati, se abbiano qualche legittimità, se siano stati un prodotto della storia, chi li ha portati al potere, se siano stati nostri amici e alleati, se siano capi di stato o di governo riconosciuti dalle Nazioni Unite, se abbiano quindi diritti riconosciuti dalla comunità internazionale, se abbiano ragioni da rivendicare, di carattere storico o di emergenza, tutte queste sono questioni che non meritano di essere neppure prese in considerazione. Essi infatti sono “oppressori di popoli”. I quali popoli, ipso facto, vengono sussunti all’interno del nostro sistema di valori. Essi, cioè, hanno i nostri desideri, i nostri impulsi, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni. La storia, le diverse storie dei popoli vengono, come per incanto, cancellate. E, come passo successivo immediato, occorre immaginare per loro conto quale dovrà essere la forma di governo che essi devono avere.
Il secondo contenuto implicito è questo: loro, i dittatori, sono violenti; noi, i democratici, dobbiamo essere non violenti. Purché, naturalmente, il dittatore non riesca a mantenere soggetto il suo popolo. Nel caso ci riesca, poiché noi abbiamo deciso che può farlo solo grazie alla violenza, allora saremo autorizzati a esercitare a nostra volta la violenza. O, per meglio dire, saremo autorizzati a “ispirare” l’uso della violenza da parte degli oppressi contro il “dittatore” che, nel frattempo avremo già definito “sanguinario”, autore di “massacri indiscriminati”. E, giovandoci del differenziale a nostro favore, incluso quello mediatico, saremo riusciti a far diventare dominante la nostra narrazione degli eventi in tutto il mondo esterno.
Dunque, se vi sarà violenza, questa sarà interamente da attribuire alla “sacrosanta” reazione popolare alla “repressione” del dittatore. S’intende che questa “sacrosanta” reazione popolare sarà armata e organizzata mediante il differenziale di armi, munizioni, organizzazione, informazione, tecnologia. Ma saranno comunque i pacifici manifestanti per la libertà a usare le armi contro il sanguinario dittatore e i suoi scherani. E i morti saranno tutti, indistintamente pacifici cittadini, la popolazione civile innocente. Va da sé, inutile ricordarlo, che effettivamente la popolazione civile morirà in grande quantità. L’essenziale è che i racconti e i filmati assegnino la responsabilità degli eccidi esclusivamente al dittatore sanguinario e ai suoi scherani. Che magari sono effettivamente scherani e sanguinari, ma che avranno la malasorte di essere considerati gli unici criminali che agiscono sul terreno.
Sarà utile non dimenticare che, mentre noi – che stiamo sulla parte alta del differenziale, e che leggiamo le cronache dalle nostre alture – applaudiremo alla rivolta pacifica dei popoli oppressi presi di mira dai dittatori efferati che abbiamo preso di mira, altri dittatori, proprio lì a fianco, insieme ai loro scherani sanguinari, saranno lasciati in piena tranquillità a opprimere i rispettivi popoli, godendo, nel fare ciò, del nostro più cordiale appoggio e sostegno. Questo dettaglio – lo ricordo di passaggio – viene sempre dimenticato dagl’intellettuali amanti dei diritti umani che ci stanno intorno e a fianco. E, se glielo fai ricordare, si irritano accusandoti di cambiare discorso. Infatti uscire dalla narrazione del mainstream significa, per loro “cambiare discorso”. E, a pensarci bene, per chi conosce solo la narrazione del mainstream, uscirne anche solo per un attimo significa cambiare discorso.
Ma procediamo oltre. A questo punto il paese astratto che stiamo considerando si trova già in piena guerra civile. Il movimento di protesta ha già ricevuto le necessarie istruzioni per l’uso per colpire i “talloni d’Achille” di quel determinato regime. Perchè Gene Sharp sa perfettamente che ogni regime ha i suoi talloni d’Achille che, se bene individuati e colpiti, potranno farlo crollare di schianto. Da qualche parte, possibilmente in un paese confinante, si trova già un’avanguardia bene organizzata, bene collegata con l’interno, bene integrata con il sistema informativo occidentale, capace di usare al meglio i social networks (tutti sotto il controllo e la guida dei centri di analisi occidentali). Non sarà mica stato casuale se, all’inizio del 2011, poco dopo l’avvio della cosiddetta “primavera araba”, Obama e Hillary Clinton convocarono proprio i chief executive officers dei principali social network, di Google, Facebook, Yahoo and companies? Per la verità quest’ultima è una evoluzione tecnologica che Gene Sharp non include nel suo manuale. Il libro è stato scritto prima che essa diventasse utilizzabile su larga scala e, sotto questo profilo, appare datato.
Ma il manuale di Sharp ha un pregio indubbio, quello di aiutarci a capire bene i meccanismi tradizionali, quelli che sono stati usati negli ultimi decenni e che – si può essere certi – non usciranno di moda. Adesso in Siria, superata la fase dell’innesco della guerra civile, non c’è più nemmeno bisogno di fingere che, a combattere, siano solo i pacifici dimostranti armati oppositori del regime di Bashar el-Assad. Ora si dice apertamente che centinaia di agenti americani, sotto la guida di David Petraeus, attuale direttore della Cia, sono impegnati a reclutare, in Iraq, miliziani delle tribù di confine perchè vadano a combattere in Siria. La stessa cosa avviene attraverso la frontiera turca, dove agiscono i contingenti militari provenienti da Bengasi di Libia, comandati dai leader fondamentalisti islamici che, con l’aiuto della Nato, hanno abbattuto il regime libico. E, dalla frontiera libanese, agiscono le bande del deputato di Beirut Jamal Jarrah, reclutatore di mercenari per conto dell’Arabia Saudita, uomo che fa da cerniera tra il principe Bandar, da un lato, e dall’altro – attraverso il nipote Ali Jarah – i servizi segreti israeliani.
Come dire: da un lato i dollari a camionate, dall’altro i migliori consiglieri militari e i più evoluti sistemi di intelligence di tutto il Medio Oriente. Si aggiungano le bande di commandos che già da mesi operano dentro i confini siriani, con l’obiettivo specifico di uccidere Bashar e i suoi più stretti collaboratori, di collocare bombe, di far saltare gli oleodotti.
Sarebbe evidente, il tutto, se i pubblici occidentali lo sapessero. Ma non lo sanno, perchè la cronaca è scritta all’incontrario. E i “diritti umani” della popolazione siriana sono giù stati avvolti nello stesso sudario in cui è imbavagliata ogni verità. Ma gl’intellettuali occidentali, insieme ai giornalisti, e assieme a una certa dose omeopatica di pacifisti, credono di sapere. L’esistenza del sudario non riescono nemmeno a immaginarla. Sentenziano con l’aria di farci sapere che “a loro non la si fa”. Pensano di essere più intelligenti – avendo letto qualche romanzo giallo, o perfino avendolo scritto – dei professionisti che lavorano a tempo pieno per conto di un Potere che non sta giocando a carte.
Così, m’è venuto in mente, usando un altro gioco, di provare una mossa del cavallo. Cioè di andare a vedere, in retrospettiva, cosa avvenne, una ventina d’anni fa, in Lituania. Anche lassù, molto lontano dal Medio Oriente, ci fu un inizio di guerra civile, quando l’Unione Sovietica stava per crollare. I lituani volevano l’indipendenza, e avevano diritto di chiederla. C’era un genuino movimento popolare che si batteva per questo. Fu sufficiente un inizio. Poi tutto si concluse con la sconfitta dell’Impero del Male. Ci furono una ventina di morti a Vilnius, quando le truppe russe e il KGB occuparono la torre della televisione. L’accusa cadde su Gorbaciov, sui russi, i cattivi di turno, che furono accusati di avere sparato a sangue freddo sulla folla.
Quell’episodio è diventato il momento fondante della Repubblica indipendente di Lituania, ora uno dei 27 paesi dell’Unione Europea. Ma adesso sappiamo che tutta quella storia fu scritta da altre mani, ben diverse da quelle del “popolo lituano”.
Lo racconta ora Audrius Butkevičius, che divenne poi ministro della difesa della repubblica, e che, quel 15 gennaio 1991, organizzò la sparatoria.
Fu una operazione da servizi segreti, predisposta, a sangue freddo, con l’obiettivo di sollevare la popolazione contro gli occupanti.
Chiedo al lettore di sopportare la lunga citazione dell’intervista che venne pubblicata nel maggio-giugno 2000 dalla rivista “Obzor” e che è stata recentemente ripubblicata sul giornale lituano “Pensioner”. Sarà una fatica non inutile, perchè coronata da una preziosa scoperta, che ci aiuterà a capire diverse cose del libro di cui stiamo parlando.
«Non posso giustificare il mio operato di fronte ai familiari delle vittime – dice Butkevičius, che allora aveva 31 anni – ma davanti alla storia io posso. Perchè quei morti inflissero un doppio colpo violento contro due cruciali bastioni del potere sovietico, l’esercito e il KGB. Fu così che li screditammo. Lo dico chiaramente: sì, sono stato io a progettare tutto ciò che avvenne. Avevo lavorato a lungo all’Istituto Einstein, insieme al professor Gene Sharp, che allora si occupava di quella che veniva definita la difesa civile. In altri termini si occupava di guerra psicologica. Sì, io progettai il modo con cui porre in situazione difficile l’esercito russo, in una situazione così scomoda da costringere ogni ufficiale russo a vergognarsi. Fu guerra psicologica. In quel conflitto noi non avremmo potuto vincere con l’uso della forza. Questo lo avevamo molto chiaro. Per questo io feci in modo di trasferire la battaglia su un altro piano, quello del confronto psicologico. E vinsi».
Spararono dai tetti vicini, con fucili da caccia, sulla folla inerme. Come hanno fatto in Libia, come hanno fatto in Egitto, come stanno facendo in Siria.
Adesso avete capito. Gene Sharp era là, in spirito. Fu lui che insegnò a Butkevičius come vincere, “trasferendo la lotta sul piano psicologico”. Peccato che, lungo la strada, morirono 22 persone innocenti. Ma, “di fronte alla storia”, cosa pretenderanno i nostri difensori dei diritti umani?
Il libro di Sharp va dunque letto sotto un’altra luce. Ed è, sotto questa luce, un’opera geniale. E’ stato scritto proprio per le giovani generazioni, che sono ormai totalmente prive di ogni memoria storica, già omologate dalle televisioni, ora intrappolate nei social network, che non hanno mai fatto politica, che sono digiune di ogni forma di organizzazione. Per questo è scritto con sconcertante semplicità, per essere compreso da un ragazzo o una ragazza della scuola media: per introdurli nella lotta politica e psicologica rese possibili dai tempi moderni, ma in modo tale che siano strumenti non in grado di capire ciò che fanno e per chi lavoreranno. E’ un manuale per organizzare la “sovversione dall’interno”, di tutti i paesi “altri” rispetto all’America e all’Europa; per armare, con la “non violenza” le quinte colonne che devono far cadere tutti i regimi che sono esterni al “consenso washingtoniano”.
Questa operazione ha un solo “tallone d’Achille”. Che si potrebbe vedere, come fosse fosforescente, non appena si strappasse il tendaggio principale: l’assioma indiscutibile che “noi siamo la democrazia”. Perché capiremmo tutti che la ribellione “non violenta”, che suggerisce Sharp, può essere diretta contro i nostri oppressori “democratici”, che hanno trasformato la democrazia in una cerimonia manipolatoria e senza senso. Potremmo anche noi attuare tutti i suggerimenti di Sharp: dileggiare i funzionari del regime, fare marce, boicottare certi consumi, esercitare la non collaborazione generalizzata, attuare la disobbedienza civile.
In realtà, a ben pensarci, grazie professor Sharp, lo stiamo già facendo. Solo che non abbiamo, a sostenerci, i mercenari pagati con i denari dell’America. E possiamo anche noi citare, come fa Sharp, il deputato irlandese Charles Stewart Parnell (1846-1891) : “Unitevi, rafforzate i deboli tra voi, organizzatevi in gruppi. E vincerete”.
Solo che questa nostra democrazia è molto più subdola delle dittature. E dobbiamo sapere che, quando cominceremo ad abbatterla, per costruirne una vera, magari tornando alla nostra Costituzione, non avremo nessun aiuto dall’esterno.
* pubblicato su Megachip.info