Chi sono le ragazze di Benin city? Perché?

gen 6th, 2012 | Di | Categoria: Recensioni

di Antonio Catalano

Prima di Natale ho partecipato alla presentazione di un libro sulla “tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia”. Autrice una donna appena oltre i trenta proveniente da questa esperienza, Isoke Aikpitanyi. Il libro, Le ragazze di Benin City, edizioni Melampo, da leggere, è una cruda testimonianza di come funziona questa tratta.

Quasi tutte le ragazze che partono dalla Nigeria – un paese ricco di risorse – vogliono sfuggire ad una situazione di estrema miseria e degrado sociale oltre che umano. La televisione, che tutte guardano ossessivamente, le abitua a sognare il paradiso del mondo occidentale e la fuga da un paese dove i «poveri sono poverissimi e i ricchi sono ricchissimi». E anche Isoke, passando e ripassando davanti alle vetrine di un’agenzia di viaggio di Lagos, pensa di poter realizzare il suo sogno di viaggiare, fuggire dal suo paese, ma qui inizia il suo calvario.
Il viaggio di Isoke dal suo paese all’Italia dura due anni, durante i quali vive momenti di grande pericolo e sofferenza (deserto, Marocco, Inghilterra), è reso possibile grazie ad un’organizzazione internazionale capillare. Al termine di questo lungo calvario è sbattuta a Torino, dove, al freddo gelido davanti ad un fuoco con le altre ragazze vestite in mutande, si trova a vivere la sua prima esperienza di strada sul joint, il marciapiede su cui si lavora.
Le ragazze giovanissime, anche di tredici e quattordici anni, sono quelle più facili da gestire per gli italos perché ancora non si rendono ben conto di quello che stanno vivendo. Per individuare le “prede” gli italos (coloro che si occupano della tratta verso l’Italia) frequentano in Nigeria le feste di paese, i matrimoni, i funerali, dove c’è sempre qualcuno che filma le ragazze. E questi filmati sono vagliati con attenzione dalla maman: quella è troppo bassa, quella è troppo piatta, quella è troppo vecchia, quella va proprio bene. «Quella piccolina lì, è lei che voglio». Fatta la scelta lo sponsor va dalla famiglia con dei regali dicendo che in Europa hanno bisogno di belle ragazze per fare la modella, la parrucchiera, la sarta, l’attrice. Spesso la famiglia acconsente, e non di rado sono gli stessi genitori a darsi da fare, sanno infatti che «in quella casa lì ci sono i parenti di una donna che porta le ragazze in Europa, hanno visto che la famiglia s’è fatta la macchina, ha comprato la casa. Allora dicono: anch’io».
La maman considera un problema il fatto che le ragazze siano vergini, che non siano mai andate a letto con qualcuno e che quindi non hanno esperienza. Per questo chiedono che l’organizzazione rimedi: in Nigeria ci sono quelli pagati apposta per controllare che le ragazze non siano più vergini e, se necessario, «darsi da fare per sverginarle loro». Ma chi è la maman? Maman, sister, momma, mamma. Insomma la «sfruttatrice, la magnaccia, la padrona». È la padrona assoluta delle piccole comunità dove vivono le donne prostitute, luoghi “protetti” e chiusi, senza contatti col mondo esterno. La maman quasi sempre è una ex prostituta che, una volta smesso di frequentare il marciapiede, decide di entrare nell’organizzazione. Può essere spietata con le ragazze: «Ci sono certe maman che quando le ragazze non guadagnano abbastanza le picchiano sulle mani. Dicono: le tue mani devono raccattare i soldi. Tanti soldi. Hai capito? Altre invece non picchiano, ma usano parole dure, e ricatti, e minacce di voodoo». Succede spesso che le ragazze una volta chiuso col marciapiede – «bruciate dal marciapiede» – non riescano più a pensare a nulla che non sia la strada. «Diventerò anch’io una maman e farò un sacco di soldi».
Il ricatto più grande per queste donne è il debito. Il debito con l’organizzazione del viaggio. «Calcola 180 giorni di lavoro estivo. Sono 18 volte che gli devi dare mille euro, per un totale di diciottomila, se sei una ragazza normale. Le rapidò addirittura devono sborsarne venticinquemila. Poi calcola i 180 giorni dell’inverno, in cui ti chiedono solo la metà, novemila euro. Metti insieme estate e inverno. Fanno come minimo ventisettemila euro che gli devi dare sull’unghia sennò sono grane. E le rapidò ne danno molti di più, sui trentasette-trentottomila… In teoria se ti sbrighi in un anno e mezzo puoi pensare di pagare il debito. Oppure in due. C’è anche chi lo paga nel giro di un anno, se trova un cliente pollo da cui farsi dare i soldi. Ma tutto questo, ripeto, è solo teoria». «Bisogna trovare un minimo di quaranta-quarantacinquemila euro l’anno, se vuoi restare viva. Sono le spese fisse, diciamo… E quando finalmente hai finito di pagare tutto, devi lavorare ancora per guadagnare i soldi per la festa della maman. La festa del ringraziamento». Poi ci sono i soldi che ogni settimana bisogna dare per il joint, l’affitto, il mangiare, e i soldi da mandare a casa. Per capirci, la rapidò è quella che guadagna un sacco di soldi (la cocca della maman), non necessariamente la più bella, ma sicuramente la «più veloce nel capire e nell’adeguarsi, la più determinata, la più furba, quella che arriva sempre prima al lavoro, capisce prima come funziona il mercato, capisce al volo quali sono gli orari migliori per trovare i clienti che pagano di più…». E spesso la rapidò diventa anche maman.
Sulla strada, sul marciapiede, bisogna andarci come si va ad una «sfilata» da preparare scrupolosamente a casa prima di uscire. La sfilata è il travestimento, una messa in scena per il lavoro. «Ognuna si inventa qualcosa, pur di colpire il cliente. Tu devi colpirlo in una frazione di secondo, mentre passa in macchina. Devi farti scegliere tra cento e cento, se vuoi lavorare». Bisogna mettere in mostra quello che si ha: «C’era la mia amica, Lisa, che aveva la quinta di suo, e ancora si imbottiva il reggiseno fino a mostrare una cosa spropositata… lavorava tantissimo… sei hai un bel sedere mostri quello… e poi ci sono le parrucche, ti tengono caldo e ti fanno apparire più sexi, perché coi capelli corti non ti guarda nessuno. Ognuno ha il suo stile, ma a ogni modo le scarpe devono sempre avere il tacco altissimo… Bisogna mostrare la merce, e più merce metti in mostra meglio è».
I pericoli che si corrono sulla strada sono davvero tanti: i balordi che passano e tirano qualcosa; quelli che rubano e picchiano; gli stupratori a pagamento (come sono chiamati dalle ragazze), cioè quelli che solo perché pagano «si sentono in diritto di esigere qualunque cosa, e se dici di no giù botte»; gli stupratori di gruppo, cioè quelli che in tre o quattro per volta caricano a forza la ragazza in auto e «sei fortunata ad uscirne viva»; e poi ci sono anche i due carabinieri che solo perché non soddisfatti hanno picchiato Felicia fino a che non le rimane un solo dente in bocca.
I soldi alle famiglie sono il tormento delle ragazze, sono ossessionate dal dovere di spedire i soldi a casa, raccomandandosi presso di loro di metterli in un conto corrente per quando ritorneranno. Ma quasi sempre questi soldi non ci sono, svaniscono. «Manda i soldi – le avevano detto al telefono –, che costruiamo una casa. Lei manda i soldi per i mattoni, il tetto, le finestre, poi ritorna e non trova niente. Solo il terreno. E a volte nemmeno quello… Tutta l’economia della città (Benin City) si regge sui soldi che arrivano dall’Europa, tutto il business, i taxi, il noleggio dei motorini, l’edilizia, le scuole, tutto si regge sui soldi mandati dalla Western Union».
E se qualcuna pensa di uscire dal giro deve fare i conti con l’organizzazione, a partire dalla maman che la considera propria e per ricattarla – nei casi di ragazze più sprovvedute ed ingenue – ricorre pure ai riti voodoo che la terrorizzano. Ci sono quelle che non credono al voodoo e magari vanno in chiesa, non quella cattolica, però, perché in Nigeria ci sono tante chiese cristiane, pentecostali, evangeliste, ed avventiste che stanno prendendo piede grazie ad un predicatore americano (guarda un po’!). Il ricatto ed il controllo passa anche per questi canali, le ragazze vanno in queste chiese organizzate per gli africani: «è l’unico svago nella brutta vita che fanno». In queste chiese si riuniscono anche due o tre volte a settimana, c’è una messa che dura quasi tutto il giorno, si balla, si mangia e c’è tanta gente. «Il pastore non è quasi mai un vero pastore. Per fare il pastore in Africa basta avere una bibbia… l’Europa è piena di questi pastori così. Ovviamente il pastore è sempre d’accordo con la maman. Le ragazze vanno da lui a chiedere consigli, se stanno male lui impone le mani… cosa vuoi farci – dice il pastore –, è Dio che lo vuole. Prostituirsi è una cosa brutta ma anche non mantenere le promesse è molto brutto. Pentiti. E ricorda che anche il padre nostro dice: paga il tuo debito. Così le ragazze pagano il debito e pagano la chiesa».
Chi sono i clienti? Non tutti i clienti sono uomini pericolosi, nel libro possiamo leggere che fra di loro ci sono «persone per bene e persone civili». Di più: «Questi clienti sono l’unico momento di libertà delle ragazze, soprattutto per quelle che non hanno mai un attimo di libertà». Tra questi ci sono quelli che pagano ma che non vogliono fare niente, e che propongono anche di andare a mangiare insieme una pizza; e i giovani senza compagnia femminile che dovendo andare ad una festa propongono alle ragazze di far finta di esser la fidanzata. «Va bene. Sei pagata, vai alle feste, vai a ballare. È sempre meglio che stare in strada. E in questo modo vedi come vivono le ragazze italiane. Ti fai un’idea di come vive la gente normale». Ci sono quelli che diventano «fidanzati», che arrivano pure ad accompagnare la ragazza al marciapiede e che semmai stanno lì nei dintorni per verificare che tutto scorra fuori dal pericolo e che in taluni casi arrivano anche a salvarle la vita. Insomma non tutti i clienti vogliono «sempre e solo fare sesso»: molti ci vanno per parlare dei propri problemi, per trovare compagnia, per sfogarsi, per fare domande.
Quelli che fanno tante domande e parlano più di tutti sono i cosiddetti papagiri, dai quali è «inutile però sperare di cavare i soldi». Il papagiro non va mai sulla strada per fare sesso: «passa in macchina, si ferma, ti porta i cioccolatini, un panino, un termos di caffè bollente per scaldarti quando fa molto freddo. Anche lui chiacchiera, chiacchiera sempre. Chiede, s’impiccia, tu da dove vieni, ma quanto devi pagare, la tua famiglia dove sta, che tipo di viaggio hai fatto. Io non ho ancora capito che tipo di uomo è… ma in questi papagiri c’è qualcosa di buono, son capaci di girare tutta la notte, come una specie di unità di strada, sanno tutto quello che succede nella strada… magari ti danno l’allarme quando c’è la polizia che sta arrivando. Ed ogni tanto qualche ragazza al suo papagiro fa fare un po’ di sesso».
C’è la variante pericolosa del papagiro, quella considerata disperata, «quelli che si arrotolano». A differenze dei papagiri “buoni” questi «vanno con le ragazze e fanno sesso da clienti. Ma ogni volta si coinvolgono. E allora succede il disastro». Il loro arrotolamento li trascina a parlare ossessivamente di sé e dei loro problemi al punto che le ragazze si infastidiscono e dicono: «Ma come, io sto qua, piove, nevica, c’è il sole, fa freddo, devo stare qua a sbattermi e questo viene pure a farsi compatire».
Non è infrequente che una ragazza rimanga incinta, il più delle volte perché i preservativi che «hanno un odore orribile» si rompono come niente.  Se la maman non vuole «un bastardo in giro per casa» spesso finisce male, con un raschiamento con conseguenze anche drammatiche, ma se la ragazza tiene duro e vuole tenersi il figlio allora è costretta a lavorare fino ad una settimana prima di partorire, «i clienti non fanno mica problemi» dice la maman, ed infatti succede che «ogni sera davanti a loro c’è la fila» perché trovano che «le donne incinte siano erotiche». A volte il bambino è spedito dai nonni o da qualche zia, e «questo diventa per la madre l’incubo peggiore, perché ogni settimana deve trovare non solo i soldi del debito e dell’affitto e del joint, ma anche quelli per il bambino e per tutta la famiglia che lo cresce». Perché se non manda abbastanza «ha paura che il bambino non venga seguito, che gli succeda  qualcosa».
Ci sono le ragazze che provano ad uscire dal giro, ma «qualcuna dopo un po’ cede e va a trovare le vecchie compagne»… e così riprende la strada del marciapiede. Sono poche le ragazze che escono dal giro grazie ai cosiddetti operatori di strada, quasi tutte o si sono sposate con i clienti o sono andati a vivere con questi. «Il cliente, che ti piaccia o no, è spesso l’unica risorsa di noi ragazze». Alle ragazze non piace andare in comunità perché «dopo anni di schiavitù non sopportano più le regole, le imposizioni, i divieti». Quelle che ci provano resistono solo pochi giorni, scappano, non riescono nemmeno ad aspettare il permesso di soggiorno, «per chi entra in comunità il percorso è troppo lungo, anche due anni».
Le ragazze di Benin City – scrive Isoke – sono uno «sfogatoio perfetto, un meraviglioso calmieratore di tensioni sociali ed etniche». «Un’africana stuprata è un’italiana salvata». Non bisogna rassegnarsi, afferma, certo i problemi della Nigeria sono tantissimi e la miseria dei molti è impressionante, ma se «le famiglie non hanno i soldi per mangiare, o per vestire i figli, o per mandarli a scuola, allora devono fare la loro parte: che protestino». «Non è vendendo le loro figlie ai trafficanti che costruiranno per loro, e per la Nigeria, un futuro decente». La tratta – continua Isoke – non è soltanto un problema di sesso, di puttane e di clienti: «la tratta è innanzitutto un affare colossale. Un business. È una schiavitù che rende un mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto accordo. Sulla pelle di noi ragazze non nasce solo la fortuna di gente come la maman ma anche quella dei bianchi perbene, quelli che non picchiano mai i figli o la moglie… sono questi che vendono i visti, che organizzano i viaggi, che ti fanno passare senza dare nell’occhio dentro gli aeroporti, sono i poliziotti venduti, gli avvocati delle maman, i mediatori, gli affittuari».
Toccanti le pagine nelle quali Isoke racconta della madre e di come, dopo la sua prematura morte, inizi per lei quel percorso di elaborazione da che la porta non solo ad uscire dal giro, ma anche a diventare punto di riferimento per le ragazze che vogliono provarci. «Quando mi hanno detto che è morta mia madre non sono nemmeno riuscita a piangere. Il mondo era crollato, semplicemente. Nulla più aveva senso». Racconta della sorella minore che la chiama al telefono per dirle che ha trovato un viaggio per l’Europa, la sua «bella occasione». «Ho chiuso gli occhi e dentro di me una voce ha gridato: non è possibile. Quando mai finirà questa storia. Quanti anni, quanto dolore, quante morti ci vorranno ancora, prima che la Nigeria smetta di mandare al macello le sue figlie». «Ascolta. Ho preso il cuore in mano e ho cominciato a parlare. Cos’è la tratta. Che cosa fanno le ragazze. Come vivono. L’esistenza che fanno. Era la prima volta che trovavo il coraggio di parlare con qualcuno della mia famiglia: dire tutto, tutto!, senza risparmiare un solo dettaglio». «Mia sorella l’ho salvata, e lei adesso sta salvando le sue amiche. Dice: non partite. In Italia succede questo. Ogni volta che ci penso le mie spalle diventano più leggere. Penso: ho fatto proprio quel che avrebbe fatto mia madre. Ovhoweyemé  [la madre] è morta, ma io no. Sono viva. Sono qui. Io. Isoke».

Alcune considerazioni
Questa drammatica e vibrante testimonianza ci dice più cose di uno studio sociologico del fenomeno. In questo libro si racconta della triste sorte delle ragazze di Benin City (popolosa città nigeriana dello stato di Edo) avviate alla prostituzione in Italia; ma sappiamo bene, purtroppo, che il mercato occidentale attinge da tanti altri paesi la “risorsa vitale”; cambieranno le facce, le situazioni, i nomi, ma la sostanza della questione rimane invariata, si tratta pur sempre di tratte schiavistiche. Il motore che mette in moto la terribile macchina è la fame di sesso che la nostra “libera” e “disinibita” società produce; ma si tratta di sesso alienato, abbrutito, ridotto a pura meccanicità, un sesso concepito dalla logica capitalistica del consumo illimitato. L’atto sessuale, che dovrebbe esprimere una vitale e gioiosa espressione della più alta relazionalità affettiva umana che nella compenetrazione dei corpi vive la sublimità dell’amore, si esprime come appropriazione e possedimento brutali di corpi considerati alla stregua di oggetti procuranti piacere fisico. Come scrive Isoke, le ragazze sono uno sfogatoio perfetto. Infatti, il sesso, così come insistentemente proposto dai mezzi di comunicazione di massa della civiltà capitalistica, diventa momento di consumo nel consumo più generale di merce; e quindi il corpo diventa merce che – in quanto merce – può essere acquistato, posseduto, goduto. Il mercato capitalistico (che definisco totale nel senso che è penetrato – mercificando tutto – in tutte le pieghe, anche più intime, dei rapporti sociali) risponde al bisogno sessuale alienato costruendo una rete internazionale di traffici che ha bisogno – per bene potersi svolgere – di una società “fluida” nella quale affermare con disinvoltura l’idea di un sesso al di sopra di qualsiasi morale che non sia quella dello scambio mercantile. Perciò serve una mentalità “libera”, “disinibita”, “trasgressiva”, “aperta”, “spregiudicata”, “moderna”, che i sacerdoti della pubblicità, del cinema, della televisione, del mondo dello spettacolo, dello sport, del turismo disinvolto, eccetera, propongono con continuità maniacale attraverso i mille canali di cui dispongono.
Le tratte delle nuove schiave nascono dalla spregiudica violenza del sistema capitalistico che è riuscito a perfezionare con sistemi incredibilmente sofisticati le antiche schiavitù. Benin city sorge intorno a quella che una volta era chiamata Costa degli Schiavi, dalla quale navi negriere imbarcavano nelle proprie stive masse di uomini catturati come bestie e schiavizzati, destinati al lavoro forzato delle piantagioni americane (si stima che oltre dieci milioni di schiavi siano sbarcati oltreoceano tra il 1500 e il 1890). Queste tratte neo-schiavistiche si accompagnano alla depredazione sistematica di risorse energetiche, minerarie, agricole, culturali, umane, in tutte quelle nazioni considerate dai paesi dominanti (Usa in testa) come esclusive riserve di caccia. La “democrazia” occidentale nasce, si sviluppa e si afferma grazie alle ricchezze che espropria dal sud del mondo; spoliazione che può esserci solo alla condizione che questi popoli e nazioni siano tenuti nell’oppressione: militare, economica, politica, sociale, culturale, e nel profondo degrado umano. Ecco perché laddove ci sono focolai di volontà di sganciamento dal controllo imperialistico, di resistenza, di affermazione di indipendenza, non tarda a delinearsi la minaccia delle sanzioni, degli embargo, degli interventi militari con seguito di bombardamenti umanitari. Per esportare la democrazia. S’intende.

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