La seconda morte della patria

dic 8th, 2011 | Di | Categoria: Contributi

di Stefano D’Andrea  

Durante gli anni del fascismo, lo Stato italiano, unificato da pochi decenni con la violenza bellica, forgiò con le leggi la nazione e sviluppò un potente e violento nazionalismo. Il nazionalismo e l’alleanza scellerata con la Germania, non certo il semplice tradimento dell’8 settembre 1943, condussero alla (prima) morte della patria. I comunisti, e in generale i membri del CLN, si trovarono a combattere per ricostruire la patria.

L’appello alla resistenza contro lo straniero, scritto dall’allora rettore comunista dell’Università di Padova Concetto Marchesi, è inequivocabile:: “Studenti:…  Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria. Traditi dalla frode, dalle violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costruire il popolo italiano“. Il contenuto dell’appello era già stato annunciato da Concetto Marchesi nel discorso inaugurale dell’anno accademico, tenuto il 9 novembre 1943, anche dinanzi a miliziani repubblichini: “Giovani, confidate nell’Italia. Confidate nella fortuna, se sarà sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio: confidate nell’Italia, che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo, nell’Italia che non può cadere in servitù, senza che si oscuri la civiltà delle genti“(1).

Conclusa la guerra, i costituenti sapevano che il loro compito era di ricostituire la patria. Togliatti, nella seduta del 5 marzo 1947, dedicata alla Discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica Italliana fu lapidario: ricostituire la patria e dare una classe dirigente al paese. Questi i compiti che, secondo Togliatti, attendevano i costituenti.

Renzo Laconi, l’altro comunista ammesso a discutere il Progetto di Costituzione, nella medesima seduta, rinvenne le istanze alle quali la Costituzione avrebbe dovuto rispondere negli ideali dei martiri del Risorgimento:: “Quali sono le istanze cui noi dobbiamo riferire questo progetto di Costituzione? Noi tutti lo sappiamo: sono le istanze che sorgono dalla lotta che tutto il nostro popolo ha condotto contro il fascismo […] Ma se noi ci eleviamo ad una consapevolezza più alta dei nostri compiti, io penso che dobbiamo tener conto di altre istanze, e di quelle più remote, e di quelle che sorgono dalle lontane e fatali giornate in cui ebbe i suoi albori il nostro primo Risorgimento, dalle giornate di Milano, di Genova, di Tornino, di Roma Repubblicana. Dovremo tener conto delle istanze che ci vengono dalle generazioni sacrificate durante il Risorgimento, dalle serie di intelligenze pensose, di animi operosi, che hanno creato, edificato lentamente l’unità italiana, ed hanno visto sempre i loro ideali e le loro aspirazioni negati e delusi dal prevalere delle forze ritardatrici che operavano nella vita politica del paese […] Oggi, uscito da queste terribile prove, che cosa vuole il popolo italiano? Che cosa chiede a noi? Il popolo italiano oggi vuole due cose: ricostruire la propria Patria e vuole attuare nella democrazia gli ideali di giustizia

Proprio la presenza in molte parti d’Italia di forze partigiane armate impedì che l’Italia subisse il disonore di un vero e proprio protettorato statunitense, come invece accadde al Giappone. Il dibattito che si svolse nell’Assemblea Costituente e le soluzioni che vennero accolte furono fondamentalmente estranei all’influenza degli interessi e della ideologia statunitensi: forma di governo parlamentare; rifiuto del federalismo; rifiuto dei giudici elettivi; legge elettorale (ordinaria e) proporzionale; assenza nel testo costituzionale del principio della “concorrenza”; previsione di monopoli pubblici e collettivi; assenza di ogni riferimento alla proprietà industriale; e così via.

Tuttavia, l’Italia era stata sconfitta ed occupata. Pertanto, nonostante l’approvazione di una nuova ed eccellente Costituzione, subiva le conseguenze della sconfitta e dell’occupazione: basi militari; controllo da parte dei servizi segreti statunitensi; influenza “culturale” della industria cinematografica statunitense; prestiti e vincoli di acquisto di beni statunitensi (il piano Marshall).

Se la classe dirigente della prima repubblica tenne quasi sempre un atteggiamento dignitoso, successivamente, durante la cosiddetta seconda repubblica, le cose sono totalmente cambiate, per il convergere di numerosi fattori.

Intanto molti cittadini hanno dimenticato di essere parte del popolo italiano. Sono convinti di essere soltanto una parte della immane massa di consumatori che popola i mercati del mondo. Essi occupano un territorio quasi per caso; potrebbero occuparne un altro. Un popolo di contadini o di operai è una cosa; un popolo di consumatori è un altra. Un popolo di cittadini governati dalla borghesia è una cosa. Un popolo di consumatori governati da industrialotti, rentiers, banchieri e falliti (o tardoni) negli studi (Veltroni, D’Alema, Fassino, Folena, Vendola) è un’altra.

I figli dei subdominanti italiani ormai si recano tutti a compiere studi, universitari o post universitari, negli Stati Uniti. Fino a un decennio fa non si trattava di prassi, bensì di scelta di pochi. Come avveniva nei paesi sudamericani fino a tutti gli anni novanta, ormai in Italia la classe dirigente si forma nelle università dell’impero.

I nostri laureati che si recano a lavorare all’estero sono qualificati come “cervelli in fuga”, come il 50% dei medici del Ghana, i quali dopo essersi formati e aver studiato grazie alle imposte pagate anche da umili lavoratori ghanesi, decidono di emigrare in Australia, in Canada o negli Stati Uniti, perché il Ghana non offre ad essi possibilità o stipendi adeguati alla preparazione tecnica che hanno raggiunto! E gli italiani, ormai tutti squallidamente liberali, comprendono e giustificano i cervelli italiani in fuga e li additano ad esempio. Nessuno che dica, non dico che meritano disprezzo, ma almeno che non meritano ammirazione.

Alcune nostre Facoltà universitarie impongono l’inglese come unica lingua straniera e danno ad esso una importanza immane, istituendo corsi in “lingua straniera”, ossia in inglese.

Ora sono arrivati anche gli aggiustamenti strutturali. Ma prima eravamo stati noi a rinunciare alla sovranità monetaria, alla politica commerciale, al controllo sui movimenti di capitale, nonché a ogni controllo sulla produzione. Affidandoci al mercato globale, abbiamo perso anche il controllo sulla distribuzione. Insomma, abbiamo detto addio a ogni idea, per quanto vaga o lata, di socialismo.

Innumerevoli “riforme” hanno importato modelli estranei al nostro ordinamento giuridico: autorità indipendenti; processo accusatorio; sistema elettorale maggioritario; riforma federale; riforma bancaria che ha considerato le banche come imprese tra le altre; introduzione nell’ordinamento del “(dis)valore” della concorrenza; abolizione di innumerevoli istituti e divieti tradizionali: licenze di commercio, minimi tariffari, divieti di pubblicità nelle libere professioni, equo canone, stabilità del rapporto di lavoro subordinato, ora addirittura abolizione del giorno di riposo dei commercianti e del divieto di società tra professionisti, ammettendo anche il socio di puro capitale.

Tutti si accorgono, leggendo la serie storica che compara il Pil italiano con quello di altri paesi europei, che esiste un “problema Italia”. La gran massa degli italiani, sociologicamente depressa, ancora crede che siano necessarie ulteriori riforme. Non diversamente credono barbuti pseudo-intellettuali che da venti anni non ne indovinano una e tuttavia continuano a pontificare perché invitati da reti televisive, pubbliche e private.

Non si accorgono gli italiani depressi e gli intellettuali imbecilli che abbiamo già riformato tutto e destrutturato il nostro ordinamento? Nessuno che venga assalito dal dubbio che l’Italia sia stata distrutta proprio dalle mille riforme. Un ordinamento è un corpo organico, che ha una storia e una vita e che, nei nodi novralgici, deve essere modificato con molta accuratezza. Solo il più ingenuo positivismo giuridico – anzi soltanto una caricatura del positivismo giuridico - può indurre a credere che in pochi anni si possano mutare decine di settori nevralgici dell’ordinamento. La Chiesa cattolica, se ipotizza di mutare la preghiera del padre nostro, nomina una commissione di biblisti e li fa studiare quindici anni! Avete capito italiani per quale ragione la Chiesa è capace di durare millenni?

Infine siamo stati commissariati e siamo governati da nostri ex rappresentanti presso l’Unione europea e presso la Nato, da ex ambasciatori presso Israele, da banchieri, consulenti del sole 24 ore, e professori di università private (Bocconi, Luiss e Cattolica).

Siamo caduti in schiavitù. Poteva essere una schiavitù da (relativamente) benestanti per il 90% della popolazione (scrivo benestanti perché credo in generale che ci si debba accontentare di poco). Ma il capitale straniero, servendosi dei subdominanti italiani, dopo aver creato i consumatori italiani, li ha indebitati. E dunque una parte rilevante degli schiavi consumatori italiani è anche povera. Ora, tuttavia, anche il ceto medio italiano sarà colpito e fortemente impoverito dalla folle politica depressiva che Monti e i governi che seguiranno il governo attuale metteranno in atto, prima che sarà chiara anche ai ciechi la necessità di uscire dalla UE e dall’euro.

Nessuna forza nuova potrà sorgere dalla massa dei consumatori. Nessuna energia verrà dai cosmopoliti. Nessuna consapevolezza della necessità di una vera e propria lunga lotta di liberazione potrà aversi nei libertari, salvo nei pochissimi che conciliano l’essere libertari con l’amore per la patria socialista.

Servirebbe un partito comunista come quello di Zyuganov, populista e patriottico, per nutrire speranze: un partito patriottico, come quello che ha guidato la resistenza italiana contro il nazifascismo, ha concorso a scrivere la Costituzione della Repubblica Italiana e ha voluto l’aministia per i fascisti, proprio perché il problema principale era quello di ricostituire la patria.

In alternativa, servirebbe un partito dei patrioti nel quale i sostenitori di idee politiche anche molto diverse si uniscano intorno a pochi e chiari punti: fuori dalla UE; svalutazione della nuova lira, default selettivo, nella misura in cui sia necessario; reintroduzione del controllo della Repubblica sul credito; reintroduzione della stabilità del posto di lavoro; reintroduzione dell’equo canone; reintroduzione delle discipline della scuola pubblica e dell’università vigente venti anni fa (insomma gettare al macero l’autonomia, scolastica e universitaria, con i suoi corollari); reintroduzione della leva obbligatoria per un esercito popolare, alternativa al servizio civile. Una specie di Comitato di Liberazione Nazionale, con il compito di aprire una nuova fase politica.

Invece, il partito della rifondazione comunista svolge un congresso non giungendo ad alcuna conclusione, salvo dichiararsi antistalinista (che significherà oggi dichiararsi antistalinisti? Bah, cose da pazzi!). Nessun accenno all’uscita dalla UE. Nessuna consapevolezza che senza sovranità nazionale non può esserci sovranità popolare e non ci sarà mai più nemmeno il compromesso socialdemocratico. Opposizione dura a Monti ma chiara apertura al PD, con immediata promessa di matrimonio per il prossimo appuntamento elettorale.

Da oggi in poi, i militanti di rifondazione non hanno scuse. Militano in un partito che non ha alcuna intenzione di vivere nella storia; un partito antipatriottico, anziché patriottico. Un partito che ha assunto un preciso ruolo all’interno del teatrino della politica: cercare senza alcuna dignità di avere degli eletti per continuare a sopravvivere e pagare un certo numero di quadri, i quali altrimenti approderebbero in SEL o nel PD. Un partito nel quale è lecito dubitare della sincerità dei dirigenti – certamente chi è favorevole ad uscire dalla UE o almeno dall’euro nasconde il suo pensiero e mente agli iscritti. Un partito senza spina dorsale. Un partito che per non morire è divenuto un partito di morti.

Mentre l’idea di un partito dei Patrioti lambisce soltanto le menti di qualche migliaio di internauti, che tuttavia in gran parte non aspirano nemmeno a staccarsi dalla tastiera e ad uscire dalle catacombe del web, le quali stanno trasformandosi in prigione.

Dunque, un popolo di schiavi consumatori. Partiti comunisti, che sotto la formula dell’antistalinismo, finiscono per essere antistatalisti e masochisticamente favorevoli alla Unione europea, ossia alla organizzazione internazionale creata per distruggerli e che li ha distrutti. E Patrioti chiusi nelle catacombe di internet senza il desiderio di uscirne. Ci attendono tempi bui. La patria è morta una seconda volta e non si stanno formando nuclei di partigiani combattenti, né partiti appartenenti a un Comitato di Liberazione Nazionale.

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  1. E’ del tutto fuori luogo “concordare” con un articolo simile. Stefano D’Andre a ben scritto quello che è anche il mio stato d’animo.

    Aggiungerei pure che non riesco nemmeno a pensare che saltare un fosso come l’uscita dall’UE sia la cosa da fare. Semplicemente la cosa mi farebbe paura e non credo che sarei il solo. Naturalmente l’idea dell’inattuabilità viene incontro a quella reazione istintiva possibile che è la stasi.

    Un CLN dovrebbe fronteggiare adesso una situazione davvero imbarbarita. Forse i danni che subiremo getteranno delle condizioni. Quello che si può fare, se Monti è a termine e poi si voterà, è iniziare a preparare una lista inclusiva di candidati che possano adattarsi alle condizioni che verranno poste alla futura campagna elettorale.

    L’elenco di tutto ciò che è stato distrutto in questi anni è un buon adesivo per gli interessati. Sulle scelte attuative non saprei, ma non bisognerebbe lavorare come ha fatto Rifondazione in questi anni.
    Mi spiego, a cosa serve presentarsi con un programma di cose da fare se vinci, se statisticamente sei a pochi punti percentuali?

    Serve un programma di partecipazione, che è anche una cosa diversa dalla cooperazione, e deve mettere il cittadino di fronte alla sua condizione e alla inessenzialità del voto politico cosiddetto utile.

    Dall’astensione di una massa alla partecipazione di un gruppo sociale.

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