Considerazioni a freddo sulla manifestazione del 15 Ottobre e sul movimento di cui è stata espressione
ott 28th, 2011 | Di Redazione | Categoria: Primo PianoLa Redazione
A quasi due settimane di distanza dalla manifestazione del 15 ottobre, è giunto il momento di fare il punto della situazione a freddo.
A prescindere dalle violenze, c’è un fatto evidente: la partecipazione alla manifestazione di sabato è stata vastissima; disorganizzata, disgregata e poco concorde sia sugli obiettivi che sui nemici da contrastare, ma sicuramente enorme dal punto di vista numerico e per la prima volta orientata ad obiettivi potenzialmente molto seri e liberata dal gioco degli specchi dello scontro intra-sistemico tra progressisti al servizio del peggior capitalismo e conservatori al servizio del peggior capitalismo.
Non è più possibile nascondere che ci sia una rabbia reale, anche se molto confusa, tra i giovani, tra i lavoratori, per una politica che non è più democratica, per decisioni che vengono prese in palazzi lontani e imperscrutabili, per un dibattito politico che è degenerato definitivamente nel gossip sulle intercettazioni e su qualche caso di corruzione giudiziaria, e soprattutto per provvedimenti, di cui le ultime manovre non sono altro che la classica goccia che fa traboccare il vaso, che da più di vent’anni minano alla base dei diritti che hanno contribuito al benessere delle generazioni precedenti (welfare, scuola e sanità, diritti sul lavoro, pensioni). Il problema serio è che in assenza di un organo politico che riesca a indirizzare nello stesso senso tutte le “indignazioni”, la rabbia rimane senza sbocchi.
Violenza-non violenza, tratti di superficie e tratti di fondo del corteo.
La conseguenza principale della mancanza di chiarezza, definizione e coordinamento del movimento sceso in piazza è che ogni gruppo ha finito per esprimere la propria frustrazione nel modo che ha ritenuto più adeguato: in queste condizioni era più che prevedibile che alcuni decidessero di sfogarsi con una violenza gratuita e totalmente inutile, mentre con un’organizzazione unitaria e una modalità concordata da tutti su come concludere la manifestazione (e magari un servizio d’ordine organico) sarebbe stato almeno più difficile agire di testa propria. Sia chiaro, se un gruppo è intenzionato a seminare disordine e scompiglio, ci riuscirà comunque, ma un conto è contrastare un corteo ben ordinato e con delle chiare finalità, un altro è inserirsi in un calderone di spezzoni disomogenei e impreparati ad affrontare situazioni di questo tipo.
Per evitare di giudicare in modo semplicistico gli scontri avvenuti durante la manifestazione, è indispensabile, in primo luogo, uscire preventivamente dalla dicotomia violenza/non violenza, che altro non è che un ricatto per stabilire chi può rimanere nel circolo del politicamente corretto, da una parte, e chi nel giro dei gruppetti estremisti, dall’altra.
Quando è proprio l’establishment politico, lo stesso che storce il naso per qualche atto vandalico, ad appoggiare o promuovere sistematicamente la violenza (basta che sia mascherata ideologicamente, vedi guerre “umanitarie”), è quantomeno ingenuo adottare la non-violenza come principio assoluto di azione politica. Per fare un esempio, non vediamo come potremmo valutare positivamente Mazzini, Lenin o Che Guevara se fossimo contro la violenza sempre e comunque.
Per cui, lasciamo perdere i giudizi moralistici, che quando non dettati da inesperienza e scarsa adesione alla realtà, palesano una vergognosa ipocrisia (è più criminale chi lancia qualche sampietrino contro una camionetta della polizia o chi bombarda notte e giorno intere città?), e cerchiamo di valutare ciò che è successo sabato scorso esclusivamente in base al suo significato politico e (perché no) etico-politico (ovvero l’esatto opposto di “moralistico”). Non-violenza e violenza, infatti, si giudicano non come valori-disvalori assoluti, ma sulla base del contesto oggettivo e del rapporto proporzionale, sensato e razionale tra fini e mezzi. Ovvero l’esatto opposto sia dell’approccio moralistico assoluto (slegato cioé dalla contestualizzazione), sia del giustificazionismo estremistico (per cui ogni atto si giustifica purché persegua oggettivamente, ma persino soggettivamente un fine nobile) (1).
Ma torniamo ora al 15 Ottobre. Non possiamo evitare di riscontrare che, aldilà di chi decide premeditatamente di usare la violenza, in molti gruppi c’è la sensazione che non bastino più le manifestazioni in cui si sfila e alla fine si ascoltano compiaciuti i comizi in piazza, e il giorno dopo torna tutto come prima. Si sente il bisogno di prolungare la mobilitazione e di differenziarne le modalità al fine di renderle più incisive e impattanti. Il problema è come. E’ abbastanza evidente che la maggioranza, pur non mostrandosi disgustata di fronte a certi fatti, si rende senz’altro conto sensatamente che la violenza nichilistica che ha caratterizzato gli atti premeditati e organizzati di via Cavour e via Labicana è non solo perfettamente inutile, ma persino controproducente, oltre che priva di qualsiasi fondamento razionale nel rapporto mezzi usati- fini perseguiti.
Non è fondamentale conoscere la provenienza sociale o le motivazioni degli “incappucciati”; e nemmeno è così rilevante, né interessante sapere se c’è qualche mandante che li infiltra o che semplicemente li lascia lavorare (e in generale anche chi agisce oggettivamente o passivamente per conto terzi non è detto che non sia convinto di perseguire il proprio fine). Interrogarsi su tali questioni può essere utile, ma il punto che ci preme è un altro ed è che politicamente le azioni di questi gruppi di avventuristi non hanno alcun senso, e anzi assolvono una funzione oggettiva puramente reazionaria, visto che non hanno che un obiettivo simbolico-estetico, non perseguono nessun fine a lungo termine, e soprattutto non mirano al coinvolgimento di sempre maggiori fette della società, come qualunque movimento politico serio dovrebbe fare, tanto più oggi in un periodo in cui è massima la sproporzione tra la grandezza delle ingiustizie sociali subite e la esiguità della capacità reattiva da parte di larghe fette della popolazione da tali misure gravemente colpite.
Per quanto riguarda la guerriglia caotica che si è sviluppata in piazza San Giovanni vanno fatte le dovute distinzioni, poiché questa è seguita all’intervento delle forze dell’ordine anche nei confronti di manifestanti del tutto estranei agli episodi precedenti e comunque con modalità folli ed estremamente rischiose, con poliziotti mandati allo sbaraglio e blindati intenti ad ardite e pericolosissime (per i manifestanti) manovre; molti dei presenti, in questo caso, hanno semplicemente reagito a quella che con ogni probabilità è stata una vera e propria provocazione (ordinata dall’alto?), messa in atto una volta che il corteo era già stato ampiamente neutralizzato (sul piano anche dell’immagine che se ne tentava di dare mediaticamente) dalle azioni ridicole e distruttive in via Cavour e via Labicana. A tale reazione iniziale in Piazza San Giovanni si è poi sommata la volontà di guerriglia prolungata di alcuni gruppi di manifestanti, ma anche di diversi singoli (basti vedere l’identikit politico, o meglio a-politico, di alcuni degli arrestati), mentre nel contempo alcuni gruppuscoli (quasi sicuramente gli stessi delle distruzioni di via Cavour e via Labicana) approfittavano per dare seguito al delirio nichilistico sfasciando ancora negozi, infuocando cassonetti e impalcature di palazzi. Per quanto ci sembri giusto sapere operare i dovuti distinguo su quanto accaduto a Piazza San Giovanni, denunciando anche le pericolose azioni e provocazioni della polizia, allo stesso tempo non ci sembra affatto appropriato, come è stato fatto in alcuni ambienti, esaltare una sassaiola contro le camionette come un gesto rivoluzionario o semplicemente antisistemico, e nemmeno ci sembra appropriato parlare di difesa prolungata della piazza come atto di resistenza. Anche qui, non certo per un pregiudizio assoluto non violento, ma per l’analisi cruda dei fatti. Se avessimo avuto di fronte, per esempio, un movimento di massa esteso e grosso modo unitario, che avesse concluso la manifestazione assediando vigorosamente e “ordinatamente” qualche obiettivo strategico, anche solo simbolicamente, allora sì che potremmo parlare di sollevazione popolare ed eventualmente, come atto collaterale, di resistenza ad eventuali cariche poliziesche. Ma in questo caso di fatto abbiamo assistito a un tafferuglio prolungato e politicamente autoreferenziale. A San Giovanni, probabilmente non sarebbe accaduto alcun incidente (sottolineiamo: politicamente insignificante) se il corteo non avesse subito la propria degenerazione dall’interno di sé stesso a via Cavour e a via Labicana. Le forze dell’ordine hanno approfittato (vergognosamente) del caos per produrre altro caos, creando così ulteriori divisioni e spaccature all’interno del composito movimento di protesta.
Detto questo, ci teniamo però a sottolineare che è assolutamente riduttivo addossare la colpa dell’esito negativo della manifestazione agli scontri: come abbiamo sostenuto all’inizio, gli episodi violenti sono stati solo la logica conseguenza dell’eterogeneità dei partecipanti e dello scarso coordinamento esistente alla base della manifestazione, circa i suoi obiettivi e le sue modalità, debolezze venute a galla già nelle fasi preparative dell’evento; queste carenze probabilmente sarebbero emerse comunque in un secondo momento (in modo anche più esplosivo o semplicemente con il disfacimento graduale del movimento), anche se la giornata di sabato si fosse conclusa con feste a San Giovanni e campeggi ai Fori Imperiali. Di certo possiamo dire che il caos prodottosi ha avuto la conseguenza (non indifferente) di monopolizzare il dibattito pubblico sui media rendendo assai facile la vita della stampa di regime orientata ad intorbidire le ragioni politiche (composite, vaghe, ma pur sempre forti) della manifestazione del 15.
Insomma, così come è evidente e innegabile il risultato straordinario di centinaia di migliaia di persone in piazza mobilitate su parole d’ordine che per la prima volta non ricalcano il copione di scontro mediatico governativi-antigovernativi, ma colgono seppur in maniera generica, alcuni obiettivi fondamentali; allo stesso modo è innegabile l’esito negativo dello svolgimento pratico della manifestazione. Tuttavia non sentiamo l’esigenza di enfatizzare ulteriormente i fatti in sé. Lasciamo questa operazione alle televisioni e ai giornali integrati. Vogliamo, invece trarre dai fatti qualche conclusione utile e produttiva finalizzata ad una comprensione seria della realtà (senza interpretazione, d’altro canto non può esistere alcuna trasformazione, e questo vale per tutto, anche per le dinamiche interne ad un movimento di protesta). Ebbene, sia i fatti stessi sia la successiva incapacità di darne un giudizio univoco e libero sia dalla retorica estremistica da una parte che dal perbenismo ipocrita dall’altra, sono una spia lampante della mancanza di unitarietà sugli obiettivi ultimi e intermedi e sulle modalità di azione da parte del movimento neonato di opposizione alle politiche liberiste di gestione della crisi capitalistica. Si assuma questo fatto evidente con onestà. D’altro canto, in Italia, dopo vent’anni di fuoriuscita quasi totale dalla politica di qualsivoglia pensiero critico trasformativo, già rappresenta un visibile progresso l’esistenza di una prima mobilitazione dai contenuti parzialmente antisistemici (e non solo appunto antigovernativi).
I risultati oggettivi della manifestazione
Il nostro giudizio sulla manifestazione è quindi assai simile a ciò che prevedevamo già prima di prendervi parte. Tanta gente, tanta rabbia, tanta voglia di cambiare, ma con la coscienza ancora vaga dell’entità del nemico da combattere, e con un’idea approssimativa della direzione da intraprendere: appelli contro le banche, contro la finanza e contro una crisi le cui dinamiche e cause tuttavia in parte sfuggono, in parte conoscono molteplici e divergenti interpretazioni. Non vogliamo incolpare nessuno di questo, non ci sarebbe da aspettarsi di più nelle condizioni attuali. L’obiettivo, tuttavia, dovrebbe essere quello di isolare le divergenze politicamente incompatibili dalle divergenze interne ad una possibile dialettica (per quanto complesso essa sia). Le prime separano da una parte chi ha compreso e chi invece non ha compreso con chiarezza due cose fondamentali: 1-che non è possibile in alcun modo pensare di risolvere il degrado socio-economico e morale cui ci stanno condannando vincolandosi preventivamente al terreno di scontro centro-destra / centro-sinistra; 2- che, senza comprenderne la contestuale derivazione sovranazionale e senza denunciare le sovrastanti dinamiche imperialistiche nella loro strutturazione gerarchica, non è possibile pensare di contrastare politicamente gli agenti nazionali dell’attacco capitalistico ai cardini residuali della stessa civiltà sociale italiana ed europea per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 50 anni (compromesso capitale-lavoro, diritti sociali, limitazione relativa dei grandi poteri economici tramite l’azione politica sovrana correttiva, limitazione dell’azione nichilista del mercato e della concorrenza).
Il secondo ordine di divergenze si pone invece su un piano successivo (non meno importante, ma logicamente successivo) e concerne le diverse sfumature di una posizione anticapitalistica sia in termini di interpretazione che in termini di trasformazione della realtà sociale: l’analisi della crisi in atto (nelle sue sfumature secondarie); l’analisi della composizione di classe; la proposta politica, culturale e morale di alternativa al sistema capitalistico: si tratta di campi di confronto importantissimi, su cui il confronto tra le numerose realtà politiche oggi disgregate deve farsi serrato e continuo, ma che non devono rappresentare per il momento in alcun modo campi di divisione pregiudiziale e preventiva.
L’appuntamento del 15 Ottobre, ha rivelato che le divergenze primarie, quelle difficilmente compatibili (pur essendo per certi versi molto meno marcate di quanto alcune analisi, a nostro avviso errate, hanno voluto sottolineare) hanno ancora un certo peso . La facilità con cui anche chi non ne condivide le motivazioni, ivi compresi banchieri e uomini politici al servizio delle politiche neo-liberali, si appropria o tenta di appropriarsi dello spirito della massa scesa in piazza (ovviamente prendendo le dovute perbeniste distanze dai “violenti”) la dice lunga sulla difficoltà del movimento di stabilire con nettezza il dovuto distacco da possibili tentativi di assorbimento entro logiche perverse di compatibilità. Allo stesso tempo ci pare assolutamente sconsiderato e cattedratico invocare (in modo spesso ultra-complottistico) l’eterodirezione di questo tipo di manifestazioni da parte dei “potenti”. Altro discorso è capirne le interconnessioni e i tentativi di manipolazione ex-post.
Da una parte c’è una base di malcontento, in parte ormai svincolata e stanca dei partiti politici e delle politiche liberiste e antipopolari; poi ci sono i partiti stessi che cercano di mettere il cappello a qualsiasi movimento per fini elettorali o di integrazione sistemica, oltre a chi cerca di tenersi buoni giovani e centri sociali strizzando al contempo l’occhiolino ai politici (Casarini, Raparelli), e infine addirittura personaggi della grande finanza come Soros e Draghi che si pongono dalla parte degli “indignati” dichiarando di capirli (ovviamente per svilirne la potenziale portata antisistemica). Ma a nostro parere non è così importante capire chi ha organizzato, chi ha spinto, e chi invece ha solo cavalcato l’onda già creatasi; il punto è che allo stato di cose presenti, prima e dopo il 15 Ottobre, all’interno di chi sta cercando con fatica di costruire un movimento anticapitalista (noi compresi) gli obiettivi sono ancora poco delineati e la disgregazione impera; chi invece disgregato non è affatto e trae vantaggio dalla disgregazione delle forze, sono sempre i partiti politici sistemici e i poteri forti sovrastanti (con la stampa che può divertirsi con i servizi sui black bloc, ma è tutto contorno), ai quali così è permesso di glissare agevolmente sui contenuti della protesta.
I gestori capitalistici “di destra” (Pdl e Casini) possono prendersela con i soliti fannulloni violenti figli di papà di sinistra, i gestori capitalistici “di sinistra” (Pd, Idv e Sel) possono condannare con i consueti giudizi moralisti e ipocriti i “soliti violenti” (per poi magari inneggiare alle rivolte arabe) e richiedere a gran voce nuove leggi speciali (!!), ripetendo in sottofondo il peana “Berlusconi deve dimettersi” e celando il fatto di essere anche loro stessi al centro del dissenso dei manifestanti (chi non ha visto l’importanza di questo dissenso esteso a tutto l’arco politico parlamentare attuale, ha ridotto il proprio sguardo agli elementi marginali del corteo: pur essendo presenti, non erano certo Sel e l’Idv o la cultura di Repubblica ad egemonizzare la piazza, tutt’altro!).
Particolare è la posizione di Vendola: giocando sul fatto che è l’unico esponente politico in grado, grazie alle sue parole “poetiche”, di mantenere un contatto con il movimento, il leader di SEL sta cercando più degli altri di cavalcare il malumore generale in vista delle future elezioni, per cui da una parte si affianca al resto della sinistra parlamentare nella condanna dei “barbari”, dall’altra cerca di non inimicarsi troppo le frange movimentiste, invitando i politici a prendersi carico di questo “disagio generazionale” da cui (secondo lui) scaturiscono le violenze.
Che gli scontri abbiano giocato a suo favore o meno, lo dirà il tempo, ma non pare un’ipotesi assurda che i fatti del 15 ottobre rafforzino, nella maggior parte degli “indignati”, l’idea delle elezioni (intese come elezioni all’interno dell’attuale blocco di forze estese da Sel alla Lega Nord) come uno strumento di cambiamento, piuttosto che confidare nella crescita di un movimento così incerto.
I motivi fondamentali della debolezza del movimento
Per capire meglio qual è la vera ragione alla base della frammentarietà e della genericità degli “indignati” (li chiamiamo così perché non sapremmo come altro riferirci alla massa informe dei manifestanti di sabato, ma ci auguriamo che questo termine sparisca presto), è necessario chiedersi perché ha deciso di manifestare la maggior parte delle persone, contro cosa o contro chi. Quello che ci sorprende infatti è il contrasto tra i numeri di questa manifestazione e il fatto che fino a qualche mese fa le iniziative contro la guerra in Libia (che pure è stato e continua ad essere un crimine scandaloso) erano completamente deserte (al massimo poche centinaia di persone). Il giorno prima della manifestazione si leggeva sul Corriere, in un articolo di Cremonesi, la descrizione di una Sirte completamente distrutta, in preda alle ruberie dei “ribelli”, e di imminenti e definitivi bombardamenti a tappeto (2). Quasi nessuno degli “indignados” parla della terribile distruzione della Libia. Eppure non si può certo dire che la crisi economica non sia collegata a stretto filo alle guerre. Un legame ovviamente non immediato, ma che non si può tralasciare, pena l’isolamento in posizioni distaccate dalla realtà dei rapporti di forza nella loro stratificazione. Nessuna critica cattedratica su questo punto (di tutto si ha bisogno in questo momento tranne che di posizioni sprezzanti e puriste): soltanto l’esigenza di aprire il confronto a 360° sulla coerenza dell’interpretazione della realtà politica nella sua interezza (e non per compartimenti chiusi e non comunicanti).
Insomma, il punto cruciale è prendere atto che la situazione socio-economica e politica interna dipende criticamente dalle interconnessioni con i livelli sovranazionali (e questo per la prima volta, forse, è emerso dalla piattaforma della manifestazione). Non si tratta di spostare gli obiettivi sempre più in alto rendendoli difficilmente visibili. Si tratta però di sottolineare l’importanza della conseguenzialità delle linee di protesta (pena il loro inevitabile depotenziamento o riassorbimento). Non basta urlare che il capitalismo è disumano, se non ci si pone concretamente il problema dei canali oggettivi attraverso cui il sistema trae alimentazione e forza istituzionale, politica e culturale individuando per questa obiettivi di breve, medio e lungo periodo.
Non si può pensare neanche di risolvere la crisi proponendo semplicemente di non pagare il debito tout court (anche perché tra i creditori una larga fetta è costituita da risparmiatori italiani, lasciando perdere le enormi conseguenze politiche che andrebbero prese in considerazione), né basta l’uscita dall’Euro, ma c’è bisogno prima di un’analisi in grado di comprendere la complessità dei rapporti politici ed economici mondiali e della composizione di classe delle società contemporanee. Devono essere identificati con precisione gli ostacoli istituzionali, valutati i rapporti di forza. Di certo “Noi il debito non lo paghiamo”, “fuori dall’Euro”, etc. sono slogan forti, e come punto di contatto iniziale vanno più che bene, ma senza essere collocati al più presto in un quadro più delineato e una prospettiva più ampia non solo perdono vigore, ma finiscono per essere facilmente dirottati su schemi più “parlamentari” (SEL), verso slogan molto più innocui come “per una nuova Italia, per una nuova Europa” (che potrebbe significare tutto e niente, e non è altro che un paravento per porsi al fianco della gente senza la volontà di cambiare nulla).
Prospettive future
C’è bisogno di ricostruire una struttura politica (e non un semplice gruppo di avanguardia autoreferenziale, né basta un semplice movimento) che abbia gli strumenti (persone e competenze) per analizzare le politiche dei governi e le scelte degli organismi internazionali, le risposte sociali, i sommovimenti internazionali, i rapporti di forza tra classi e tra stati. Solo così sarà possibile saper formulare proposte credibili. Un semplice gruppo di avanguardia finirebbe per parlarsi addosso, e negli ultimi anni abbiamo avuto modo di sperimentarlo (basta guardare il proliferare di siti internet con la loro particolare “linea”). Un movimento “dal basso”, come piace a molti, non avrebbe la capacità di portare avanti un progetto articolato e non sarebbe in grado di comprendere la difficoltà e rischierebbe di degenerare nel qualunquismo e nell’apoliticità priva di strategia (e anche questo abbiamo avuto modo di provarlo, con il movimento no global a livello internazionale, e ad esempio il popolo viola o i grillini qui in Italia), o ancor peggio nello spontaneismo velleitario.
Il comitato del 1° ottobre (3) (quello che si è formato all’Assemblea dell’Ambra Jovinelli), potrebbe essere un buon punto di partenza, nonostante gli inevitabili contrasti interni. Ovviamente è anche facile che si rimanga fermi sui punti sui quali ci si è radunati, ma è l’unico riferimento esistente attualmente in grado di conglomerare diverse realtà. È stata interessante nello stesso senso anche l’assemblea del 22 ottobre a Chianciano, soprattutto per il comun denominatore su cui sono riusciti a convergere nella sostanza interventi tra loro anche piuttosto diversi (4).
È da tener presente che è naturale che ci siano grosse difficoltà nel superare le divergenze teoriche, dopo decenni in cui si è potuto ragionare solo in termini di gruppetti, lungi dal poter immaginare di incidere sulla realtà. Ognuno poteva dare il proprio parere, la propria interpretazione, senza essere sconfessato da un’applicazione alla realtà. Adesso, abbiamo visto con chiarezza che ci sono comparti sociali che sono stanchi, ai quali non basta più inveire contro Berlusconi. E’ tempo di unirsi per politicizzare queste forze, anche se non si è d’accordo su tutte le virgole e senza avere la presunzione di possedere la lettura finale della realtà, bastando un accordo di massima sugli obiettivi intermedi e finali.
A questo riguardo, l’uscita dall’euro (e il non pagamento del debito) è una proposta politica che prima di venir propagandata dovrebbe essere discussa in tutte le sue conseguenze da un partito serio, non è sufficiente l’opinione (per quanto ragionata) di un singolo. Ma nonostante ciò delle linee fondamentali possono essere tracciate; una prospettiva anticapitalistica (di fatto l’unica che impedisca che la crisi venga risolta con un macello sociale di macelleria) oggi non può prescindere da questi punti fondamentali: la presa di coscienza che l’Unione Europea ha fallito (non c’è un’altra Europa verso cui progredire, l’Europa è Maastricht e Lisbona, è la Bce: si può anche pensare ad una nuova Europa dei popoli, ma prima bisogna stracciare tutto e ricominciare da capo); la totale opposizione alle guerre di aggressione agli altri popoli e Stati; e infine la consapevolezza che sarà necessario contrastare con fermezza qualsiasi prossimo governo, che sia di centro-sinistra, di centro-destra, o esplicitamente tecnico (quando gli altri lo sarebbero in modo implicito), insomma qualsiasi governo che, aldilà delle parole, continui ad applicare alla lettera le direttive europee, firmando manovre su manovre, privatizzazioni, svendite del patrimonio pubblico, attacchi ai diritti sociali, e perpetuando la catena di guerre distruttive per conto dell’alleanza atlantica e dell’imperialismo USA (e dei suoi vassalli e sotto vassalli, Italia compresa). Sulla base di queste linee, si crei la massima disponibilità ad un dibattito politica serrato che non rimandi alle calende greche il problema concretissimo della formazione di un blocco politico in grado di affrontare con i giusti numeri la situazione drammatica che stiamo vivendo.
1. Per chi è interessato ad approfondire la questione violenza/non violenza, consigliamo un articolo scritto da Romano Calvo in seguito al 14 dicembre 2010, e soprattutto il relativo dibattito sviluppatosi nei commenti: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2024.
ottimo articolo
uscire fuori dall’euro, non pagare il debito. capire le conseguenze di queste azioni come anche capire la realtà economica e politica attuale è complesso. Spero che il perocrso intrapreso con l’appello del 1° ottobbre riesca a fare chiarezza su questi punti.