Un’occasione per un confronto politico sui concetti teorici portanti alla base di una prassi anticapitalistica

mar 28th, 2024 | Di | Categoria: Primo Piano

La redazione di Comunismo e Comunità (CeC) ha ricevuto questo commento di Piero Pagliani all’articolo di Domenico Moro del Gennaio 2011  inerente al rapporto tra marxismo e decrescita. Visto il dialogo “incrociato” instaurato negli ultimi tempi tra  diverse realtà politiche: tra CeC, Piero Pagliani, Franco Romanò e  Alternativa, tra Giulietto Chiesa e Domenico Losurdo, tra Piero Pagliani, C&C e Domenico Moro, e infine tra Piero Pagliani e i compagni della Rete dei Comunisti, proponiamo un ambito di discussione che possa dar luogo ad un confronto ampio e costruttivo.

A tal fine qui di seguito riportiamo i collegamenti ai seguenti testi: “Introduzione al seminario Decrescita e Lavoro” di Giulietto Chiesa, “Marx e la decrescita” di B&B, “Cosa sono i teorici della decrescita e come lottano contro il marxismo” di Domenico Moro. Essendo importanti per il dibattito riproduciamo anche l’articolo di Emiliano Brancaccio “Lo spettro di Lenin e la rivoluzione d’Ottobre dietro le recenti suggestioni dell’ambientalismo” e quello di Luigi Cavallaro La ‘Nouvel Vague’ della decrescita“.

Quello su cui come Redazione di C&C invitiamo a focalizzare l’attenzione è il rapporto tra questione ecologica e rapporti sociali capitalistici per la corretta individuazione di obiettivi politici di fase e dei loro soggetti. E soprattutto delle priorità e dell’ordine logico e politico di tali obiettivi

A questo proposito, ciò che ci ha convinti a dover promuovere questo dibattito è la comune posizione antimperialistica (non un antimperialismo generico, ma un antimperialismo dedotto da una critica dei rapporti sociali capitalistici) di tutti i soggetti invitati, che va oltre le evidenti differenze sul tema in oggetto. Una posizione che si è evidenziata nella denuncia fatta nei medesimi termini dell’attacco imperialistico alla Libia. E’ importante capire la radice comune che, teoricamente e/o politicamente ci unisce e definire in modo chiaro le differenze, unica base per poter proseguire un indispensabile dialogo“.

Qui di seguito riportiamo per esteso il commento di Piero Pagliani sorto dalla lettura dell’articolo di Domenico Moro sopra citato.

 

 

 

Sulla decrescita e sull’imperialismo. Un invito alla discussione

 

1. In un recente articolo (“Cosa sono i teorici della decrescita e come lottano contro il marxismo”) Domenico Moro ha sviluppato diverse critiche alla cosiddetta “decrescita”.

Non voglio qui entra nel merito del tema. Dirò solo che condivido molte delle sue perplessità riguardo al pensiero di Serge Latouche. E, come alcuni sanno di già, io sono convinto che essendo la “questione ecologica” una conseguenza dei rapporti sociali capitalistici, la sua risoluzione non può essere disgiunta dal “rovesciamento del rovesciamento” economicistico  dei rapporti sociali operato dal capitalismo. Men che meno essa può surrogare il rovesciamento dei rapporti sociali capitalistici, dato che ne è una conseguenza; o per dirla in altro modo, la Natura sfruttata non può prendere il posto del soggetto salvifico sfruttato della tradizione marxista, pur con tutte le difficoltà che sperimentiamo quando cerchiamo di capire chi oggi possa essere il soggetto per lo meno di un contrasto, di una interferenza con la logica capitalistica come viene storicamente implementata ai nostri giorni (e non in quelli dell’Impero Britannico).

Questa azione di contrasto a rapporti sociali rovesciati può essere solo sociale. Il capitalismo non è un “modello di sviluppo” sbagliato, così che se c’è diffusa consapevolezza ecologica o egalitaria basta scegliere un altro “modello”, bensì un rapporto sociale sbagliato. Riconosco che il termine “modello di sviluppo” possa essere per certi versi più appealing di “rapporti sociali”, specialmente in una società un po’ rimbambita dallo scientismo (mentre non sa nulla di scienza). Tuttavia in uno scambio di opinioni teorico-politico e non politico-pratico è meglio chiarire i termini e i concetti per sciogliere eventuali ambiguità o incomprensioni.

Insomma, i modelli si cambiano con un atto di scelta, i rapporti sociali si cambiano con la lotta, non c’è altro mezzo.

Come ho avuto già modo di ripetere, l’umanità potrebbe bruciare assieme a tutte le foreste del mondo o in guerre per accaparrarsi l’ultima goccia d’acqua, l’ultimo barile di petrolio o l’ultimo atomo d’uranio, prima di essere redenta dalle sofferenze della sfera ecologica.

Per fare due soli esempi, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno dimostrato ampiamente che la catastrofe ecologica irrimediabile è alla portata tecnologica, politica e culturale dell’imperialismo, ovvero del capitalismo (a meno che si pensi che sia mai esistito un capitalismo non imperialistico) e le due carneficine mondiali interimperialistiche del secolo scorso mostrano che agli uomini, soprattutto alle classi subalterne, si può chiedere molto di più che non soffrire di sete, di fame, di freddo o di stenti.

2. Detto questo, Domenico Moro, quando parla del pensiero di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, incorre in un interessante lapsus, reintitolando “Per una nuova radicalità antisistema” un vecchio articolo di Badiale che invece recita “Per una nuova radicalità anticapitalista”.

Per rimanere alla storia recente, o per lo meno alla mia esperienza, il termine “antisistema” venne usato nel primissimo Sessantotto (intendo proprio i primi mesi delle rivolte del 1968), per poi essere soppiantato da “anticapitalistico” quando il movimento degli studenti prese una piega più politica. Il termine “antisistema” fu invece mantenuto dal ribellismo di estrema destra.

E’ vero che Badiale usa “antisistema” nel sottotitolo, ma poi nel testo non viene più ripreso e parla di “minoranze che già adesso si esprimono in termini di  anticapitalismo e antimperialismo”.

E’ vero altresì – e da qui probabilmente deriva il lapsus – che in quello scritto si esorta a che “le minoranze anticapitaliste, comuniste e fasciste, abbandonino le loro contrapposte identità politiche, abbandonino lo sterile mondo degli estremismi, e si uniscano in un’opera di salvezza dei fondamentali valori della civiltà occidentale minacciati dalla logica mortifera del capitalismo assoluto” perché confluiscano “gli apporti migliori delle tradizioni culturali cui gli estremismi di destra e di sinistra fanno riferimento”.

Ho un po’ di cose da dire su questo passo.

Innanzitutto a me il termine “capitalismo assoluto” (nella versione “matematica” di Badiale) o “capitalismo speculativo” (in quella “filosofica” di Preve) desta molte perplessità, per complesse ragioni che non posso riprendere qui. Ne ho accennato apertamente sia a Marino Badiale sia a Costanzo Preve, e ribadisco che ciò non vuol dire che consideri chiusa la questione, perché ritengo al contrario che dovrebbe essere tema di un ampio dibattito, che è stato solo abbozzato ma ancora non c’è stato. Sarebbe invece un dibattito di importanza centrale dato che si può notare che in una veste o in un’altra questo concetto fa parte del “sentire comune” della grande maggioranza della sinistra anticapitalista: ad esempio il ripetutissimo concetto di “crisi globale del capitalismo”, che io non condivido, ne è semplicemente il duale. Allo stesso modo anche il tema della cosiddetta “decrescita” dovrebbe essere oggetto di un ampio dibattito, per motivi politici che espliciterò alla fine.

In secondo luogo io non penso assolutamente che occorra sintetizzare i migliori apporti di estrema destra e di estrema sinistra: per me bisogna andare avanti lungo la strada aperta da Marx senza nessun timore eventualmente di riconoscere, dimostrandolo, che Marx ha sostenuto o previsto cose non valide o cose che non sono più valide, come succede ad ogni scienziato che si rispetti e non invece ad una qualsiasi Sibilla Cumana.

Marx ha stampato il mio imprinting culturale e politico quando ero studente del ginnasio. Mi sento assolutamente suo discepolo, nutro per il suo pensiero un’ammirazione sconfinata, esso costituisce la base della mia elaborazione, ma proprio per questo mi sento obbligato a confrontare le categorie marxiane e marxiste con la realtà, consapevole che Lenin era l’eterodosso (e nel giusto) e Kautsky l’ortodosso (nell’errore). Riguardo a ciò faccio assolutamente mie le parole di Domenico Losurdo:

Tutti ricordiamo che in Italia (e in Occidente) una certa sinistra radicale ha lanciato a suo tempo la parola d’ordine del «ritorno a Marx» (espungendo indirettamente Lenin e la sua analisi dell’imperialismo). Ormai è sempre più chiaro che il presunto «ritorno a Marx» è in realtà un approdo a (Leonida) Bissolati, il socialista «riformista» che un secolo fa prese posizione a favore della missione civilizzatrice dell’Italia in Libia!

Al cuore della critica di Domenico Moro a Badiale e Bontempelli ci sono dunque alcune formule marxiste che io penso dovrebbero essere discusse e non usate come assiomi, perché gli assiomi non possono confutare un’interpretazione della realtà.

Tale discussione è chiaramente parte integrante di quella sulla decrescita anche se la travalicano. Ad esempio c’è il rimando al tema dello “sviluppo delle forze produttive” come motore del rovesciamento del capitalismo, dove a mio avviso tale “sviluppo” rischia la tradizionale lettura tecnicistica ed economicistica, che è positivistica, anche se de facto e non de jure (si veda il conseguente rimando alla “teoria” della caduta tendenziale del saggio di profitto, che per altro in Marx non era una teoria sistematizzata, bensì la mitigazione con l’aggettivo “tendenziale” di una ipotesi “deterministica” di Adam Smith e una spiegazione più profonda e interna ai meccanismi di estrazione del profitto).

Ora, non è del tutto campata per aria l’idea che la sistematizzazione di questa “teoria del crollo” sia stata frutto di Engels (non capita solo qui, nei libri postumi del Capitale), perché se si considera il fatto che nell’approccio di Marx dietro ogni parametro, funzione o concetto economico si cela un rapporto sociale (e in ciò consiste il suo essere non una economia politica alternativa bensì una critica dell’economia politica), allora è forse il caso di pensare che per Marx (anche se ciò non può essere univocamente dedotto dal suo pensiero, riprova che esso era un cantiere non chiuso) a svilupparsi come forze produttive dovevano essere innanzitutto i rapporti sociali tra i produttori. Questo sviluppo era cioè la formazione e crescita del “lavoratore collettivo cooperativo” associato alle “forze mentali della produzione capitalistica” (General Intellect), ovvero il soggetto del rovesciamento dei rapporti capitalistici, soggetto che sarebbe entrato in contraddizione coi rapporti sociali di produzione imposti dalla struttura proprietaria dei capitalisti borghesi ridotti a semi-rentier.

Che poi a distanza di oltre 160 anni dal “Manifesto” e di oltre 140 dalla pubblicazione del Libro I del Capitale e la stesura dei seguenti non si abbia avuto né un crollo del capitalismo per via della caduta del saggio di profitto né la formazione del lavoratore collettivo cooperativo è cosa che va discussa con estrema attenzione, perché qui si gioca la possibilità di capire la realtà e intervenire su di essa (è questo il centro dell’elaborazione – esplicitamente debitrice di Costanzo Preve e Giovanni Arrighi – che da un anno a questa parte è stata iniziata nel Laboratorio “Comunismo & Comunità”). A meno che non si assuma l’immaginifica sintesi tra “sospensione della legge del valore” e formazione del General Intellect – o meglio la sua transustanziazione nelle “moltitudini desideranti” – fornita dal tardo-operaismo e dalla sua teoria dell’Impero. Ma in questo caso si ha l’impossibilità di dedurre la categoria di “imperialismo”. Infatti questo tipo di pensiero in forme e gradazioni differenti, dalle più moderate alle più estremistiche, informa la sinistra italiana ed è, a mio modo di vedere, una delle maggiori cause dell’incomprensione dell’imperialismo, incomprensione giustamente denunciata da Domenico Moro nel suo “La Libia, la sinistra, e l’incomprensione dell’imperialismo”.

3. Ma per ritornare alla critica iniziale di Domenico Moro, cioè quella relativa alla volontà di superare destra e sinistra e prendere il “meglio” da entrambe le parti, nonostante le perplessità riguardo all’invito di Marino Badiale, mi trovo in dovere di far notare quanto segue:

1) I vari connubi Marx-Nietzsche e Marx-Heidegger sono considerati delle vere e proprie perle del “pensiero critico” occidentale (basti pensare all’Esistenzialismo) e nessuno si è mai scandalizzato.

2) Il Washington Consensus è stato sperimentato per la prima volta dai “Chicago Boys” in Cile sotto la protezione delle armi fasciste di Pinochet, e negli anni ’90 è diventato, abbellito dal logo “globalizzazione”, il “must” delle sinistre europee e dei loro intellettuali, con il vivace contributo pionieristico di quelle inglesi e italiane. Qualcuno se ne rende conto? Qualcuno ne fa oggetto non di un semplice brontolio ma di uno “scandalo antifascista”? Io sì, ma non mi sento attorniato da un grande seguito a sinistra.

3) Che, se proprio si vuole riesumare questa categoria, la ferocia nazista oggi sia incarnata dai conquistadores imperialisti è qualcosa che appena detto è sempre immediatamente fuggito lontano dalle coscienze. La propaganda contro l’Hitler-Milosevic, l’Hitler-Saddam o l’Hitler-Ahmadinejad ha fatto breccia nei cuori infranti dall’internazionalismo proletario, che ora si consolano (chiodo scaccia chiodo, ben si sa) con i “diritti umani” e i bombardieri che li difenderebbero.

Per quanto riguarda la consapevolezza della sinistra, la guerra a Hitler-Gheddafi è dunque il culmine di un processo deteriore che, comunque vada a finire, obbligherà a fare ulteriori conti con le nostre analisi, a rivedere drasticamente concetti, strategie, tattiche e alleanze.

E’ proprio a partire da quest’ultimo punto che quindi rivolgo un invito a quei pochi che invece a sinistra mantengono alta la vigilanza antimperialista, come Domenico Moro, Domenico Losurdo, Franco Romanò di “Overleft”, i compagni di Contropiano, de L’Ernesto e di Alternativa, a confrontarsi su tutto ciò che sta succedendo, su questa crisi sistemica e sui rivolgimenti epocali che essa indurrà.

Le continue guerre ci mostrano che almeno una priorità è individuata e la condividiamo. Partiamo da qui.

Piero Pagliani                                                                                               Roma, 12 aprile 2011

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