Vita liquida
mar 11th, 2011 | Di Antonella Ricciardi | Categoria: Contributidi Antonella Ricciardi
Particolarmente interessante, per l’analisi dell’epoca contemporanea, è il concetto di “vita liquida”, elaborato, tra gli altri, soprattutto dal sociologo Zygmunt Bauman, che lo ha applicato alle società più moderne.
Una società, infatti, può essere definita “liquida” quando le situazioni in essa ricorrenti si modifichino, frequentemente, prima che le persone che in esse si trovino coinvolte possano stabilizzarsi in esse: prima, cioè, che tali situazioni possano conservare la propria “forma”. Quella della liquidità, cioè, è una metafora con la quale si indica una vita precaria, sia dal punto di vista socio-economico, per cui gli esseri umani non possono concretizzare i frutti del proprio lavoro in beni duraturi, che dal punto di vista dei rapporti umani, nei quali aumenta sì la libertà nel vivere e gestire dei rapporti, ma si accentua pure la tendenza alla labilità di questi ed alla mancanza di impegno considerevole nel cercare, invece, di consolidarli. Tale vita liquida è, quindi, caratterizzata da una serie di nuovi inizi, che però, conseguentemente, implicano anche l’altro lato della medaglia, per cui questa condizione comporta pure una notevole successione di fini di qualcosa, come in un cammino precocemente lastricato di tombe… Si tratta, cioè, di un clima per diversi aspetti affascinante, avventuroso, dato che comporta una maggiore possibilità di sperimentazioni, di se stessi e verso gli altri, ma dall’altro anche con caratteristiche di tristezza e drammaticità, in quanto ci si trova in una vita caratterizzata dall’incertezza, da troppi pochi punti fermi, come in un labirinto le cui leggi sembrano passare attraverso una sorta di “distruzione creatrice”, che sulle macerie del vecchio edifica il nuovo: senza dimenticare, al riguardo, che le rovine in questione sono sovente anche umane, purtroppo, data anche la continua minaccia di restare indietro ed in cui, pure riguardo i rapporti umani, molte previsioni sono difficili da sviluppare, dato che le variabili di essi sono spesso, in misura notevole, incognite.
In questo clima di portata epocale, la scuola stessa, ed in generale, il sistema dell’istruzione, viene lambito da questa liquidità, pur rimanendo parzialmente una istituzione di maggiore solidità rispetto ad altre realtà. Un segno di affermazione di maggiore flessibilità, di liquidità, nella scuola è data dal concetto di “lifelong learning”, cioè di educazione che continui per tutto il corso della vita. Si tratta di una filosofia fatta propria dalla Commissione delle Comunità Europee agli albori di questo terzo millennio, ma con radici antiche altrove: la stessa istituzione europea ha, al riguardo, citato un antico proverbio, espressione della saggezza cinese, risalente a circa due millenni prima, che così suonava: “Quando fai piani per un anno, semina grano. Se fai piani per un decennio, pianta alberi. Se fai piani per la vita, forma e educa le persone”. Infatti, il 21 novembre 2001 questo organismo europeo ha realizzato una comunicazione dal titolo “Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente”.
Questa idea ha sicuramente degli importanti lati positivi ed innovativi, in quanto tende a non lasciare a se stesse le persone una volta terminati i propri percorsi di studio, e cerca inoltre di considerare l’apprendimento, sia nello studio che nei rapporti, in generale, col mondo che ci circonda, quale qualcosa di più completo ed olistico, poiché “la formazione non sarà più sinonimo di scuola o di istruzione […] bensì capacità di “apprendere ad apprendere, di acquisizione di conoscenze spendibili nei vari contesti” [Cfr. Bruno Schettini, “Un’educazione per il corso della vita”, Luciano Editore Napoli 2005]. Trovo questa impostazione molto interessante e condivisibile, dato che è certo che nel corso di tutta la vita, e non solo nella sua fase iniziale, si continui ad apprendere, e, quindi, ci si continui a formare. Nel corso di tutta l’esistenza, infatti, nel cervello possono crearsi nuove sinapsi, cioè altri collegamenti tra le cellule cerebrali (i neuroni), in conseguenza di nuovi stimoli. Per questi motivi, è fondamentale che l’individuo possa sviluppare meglio le proprie potenzialità, i propri talenti, integrando tra loro, maggiormente, le proprie competenze, ed divenendo, in questo modo, un essere più completo, più realizzato.
Naturalmente, però, l’idea di lifelong learning non deve condurre a sbilanciarsi troppo verso una flessibilità eccessiva del mercato del lavoro, che rischierebbe, ad un certo punto, di coincidere con una precarietà di quest’ultimo. Un conto è, cioè, bene approfondire e aggiornarsi riguardo i propri specifici ambiti di lavoro, cosa certamente positiva per se stessi e per le persone che entrano a contatto con l’attività degli insegnanti, un altro è incrementare una competitività eccessiva che accresca le diseguaglianze sociali ed i rapporti di potere asimmetrici: dopo l’appello alla formazione permanente, cioè, a volte non c’è corrispondente capacità di garantire un impiego alle persone che avessero terminato tale periodo di ulteriore formazione, con profonde conseguenze negative, logicamente, pure in termini psicologici, attraverso naturali sentimenti di depressione e frustrazione. Soprattutto, è fondamentale, a mio parere, che le attività degli insegnanti non siano lasciate soltanto alle logiche del mercato, in quanto ciò porterebbe ad accrescere delle ingiuste sperequazioni, anzichè ridurle …la scuola, del resto, non è un’azienda, né deve diventarlo, in quanto produce, sì, ma non con una modalità totalmente ed immediatamente misurabile: i suoi frutti, piuttosto, si vedono soprattutto nel corso del lungo periodo: sono, cioè, a lungo termine, anche oltre lo stesso percorso scolastico.
Del resto, una preoccupazione dominante nello stesso documento della Commissione delle Comunità Europee consiste nel timore che una crescente commercializzazione della formazione permanente, regolata particolarmente dal mercato, non sia in grado di fornire ciò di cui la società abbia veramente bisogno, influenzando così negativamente la vitalità delle varie economie nazionali. Altre preoccupazioni degli autori del documento riguardano i possibili rischi, oltre ai benefici, che la “società della conoscenza” potrebbe portare con sé: in effetti, solo il 60,3% degli abitanti dell’Unione Europea tra i 25 e i 64 anni è in possesso di un titolo di studio secondario superiore, per cui quasi 15 milioni di persone, prive di tale livello d’istruzione, sono seriamente esposte al rischio di emarginazione socio-economica. Certamente ci sono degli obiettivi positivi dietro l’esigenza dell’espansione della formazione per apprendere permanentemente: in particolare, quella della promozione di una forza lavoro qualificata e adattabile, in vista di una società più inclusiva e democratica, con un maggiore benessere ed una minore incidenza della criminalità. Tuttavia, fermo restando ciò, c’è chi ritiene che, nel documento, si attribuisca valore, troppo nettamente, ad una formazione professionale troppo finalizzata alle esigenze dell’economia e del mercato del lavoro (è il caso, ad esempio, di una analisi di Kenneth Wain in una comunicazione alla National Consultation Conference on Lifelong Learning, svoltasi a Malta nel 2001), mentre, anche e soprattutto nel caso della scuola, la valutazione del suo valore non può essere solo di tipo strettamente economicistico a breve termine. Lo stesso Bauman afferma, al riguardo, che il discorso sulle innovazioni, sulla formazione viene sempre più collegato a quello sull’efficienza competitiva, sul rapporto costi-efficacia e sull’affidabilità, per cui: “il suo scopo dichiarato è di conferire alla forza lavoro le virtù della flessibilità, della mobilità e della «capacità di base legate all’occupazione»” (cfr. Zygmunt Bauman, “Liquid Life”, Polity Press, Cambridge 2005, edito in Italia col titolo “Vita liquida”, Editori Laterza, Bari 2005, pag. 139.]. Le apprensioni legate ad una eccessiva disponibilità nei confronti delle aspirazioni dei dirigenti d’azienda rispetto ad altre esigenze, nel testo del documento, hanno, quindi, un certo fondamento per Bauman. Addirittura Raili Moilanen (citato da Bauman), a proposito dei contenuti delle relazioni presentate alla terza edizione della International Conference on Research Work and Learning, le quali erano espressione del punto di vista datoriale, notava che: ”l’apprendimento e lo sviluppo appaiono importanti per le organizzazioni soprattutto per ragioni di […] competitività […] il punto di vista dell’essere umano in quanto tale non appare rilevante.“ [Cfr. Raili Molainen. “HRD and learning-for whose well-being?, «LLinE: Lifelong Learning in Europe», 1 (2004), pp. 34-39, riportato in “Vita liquida” a pag. 139].
Naturalmente, quando si tengono presenti in modo unilaterale solo le maniere per incrementare il profitto di chi abbia già una posizione di potere, si accresce questa notevole asimmetria, e con essa le diseguaglianze socio-economiche. Opportunamente, in effetti, gli studiosi Borg e Mayo affermano che “in questi tempi difficili di neoliberalismo la nozione di apprendimento auto direttivo si presta a un discorso che consente allo Stato di abdicare alle sue responsabilità nel fornire una formazione di qualità che in una società democratica rappresenta un diritto di ogni cittadino” [riportato in Bauman, “Vita…”, .cit].
Penso sia giusto ammettere che la “pianificazione dell’esistenza” e il “libero gioco senza freni” dei mercati siano reciprocamente incompatibili: per queste ragioni, trovo che sia condivisibile l’auspicio di Bauman che la politica statale non si arrenda ad un primato dell’economia. Un aspetto presente nel documento della Commissione Europea che può aprire, invece, prospettive positive, anche a parere di Bauman, è il concetto del “dare pieni poteri ai cittadini” (in inglese, “empower”). In una società liquido-moderna, argomenta infatti Bauman, se la formazione viene ben costruita e non va a discapito del sociale, è utile che sia davvero permanente, dato che può dare, tra l’altro, maggiori opportunità alle donne e agli uomini del nostro tempo di recuperare fiducia nelle proprie capacità, nei propri talenti, con maggiori e più concrete speranze di reale successo. Tale empowerament mira proprio, tra le sue principali finalità, a migliorare e favorire più fiorenti legami inter-umani (anche, naturalmente, nei rapporti tra professori e studenti), il che può rendere meno difficile, tra le altre cose, una maggiore autostima per entrambi, la ricostruzione di uno spazio pubblico, e, in generale, il rendere il mondo (sia pur, magari, ancora in piccolo) un posto più ospitale per gli esseri umani.
Per migliorare la formazione dei professori, può essere particolarmente fruttuoso approfondire la conoscenza delle materie psico-pedagogiche, al fine di migliorare il rapporto e la comprensione tra insegnanti ed allievi: infatti, per porgere le varie materie d’insegnamento, considero non si debba prescindere dalla giusta cura nei confronti della dimensione emozionale durante l’interazione con le studentesse e gli studenti, sia riguardo i modi di divulgare tali serie di argomenti, che a proposito di un più generale rapporto umano. E’ importante, ad esempio, tenere a mente che non sempre il non riuscire bene in una disciplina può dipendere da un non essere particolarmente predisposti per questa. Naturalmente, esistono vari tipi di intelligenze, ed una persona particolarmente versata in una o più attività può esserlo di meno in altre (lo studioso Howard Gardner aveva in effetti classificato nove tipi di intelligenze); tuttavia, esistono a volte anche dei condizionamenti psicologici, per cui possono manifestarsi delle insicurezze di fondo che rendano difficile ad un soggetto l’applicarsi ad una determinata materia con la necessaria lucidità e serenità: una di queste è, ad esempio, «l’impotenza a presa», ossia un sentimento d’incapacità di riuscita in alcuni ambiti, aprioristico e dovuto a complessi che affondano le radici in determinati vissuti (ad esempio in una sfiducia in se stessi, che a volte si riscontra in persone provenienti da famiglie nelle quali non era diffuso il continuare gli studi, ecc…).
Ogni essere umano ha infatti una storia che naturalmente è cominciata già prima dell’andare in qualunque scuola: è quindi fondamentale ricordare ciò, per non cadere in una sorta di “analfabetismo emozionale”, di incomprensione di stati d’animo fondamentali. Un compito di spessore dell’insegnante deve essere quindi anche il saper cogliere questi meccanismi psicologici, perchè senza la comprensione di determinate questioni non è possibile neppure la formulazione di soluzioni che possano essere fruttuose.
In passato, sovente si è, purtroppo, svalutata la dimensione emozionale, ingiustamente confusa tout court con l’emotività, nel senso di tendenza troppo accentuata a farsi trasportare da una dimensione non razionale; tra l’altro, questa impropria confusione di ambiti è stata sottolineata in modo trasparente da un recente lavoro di Damasio, dall’eloquente titolo “L’errore di Cartesio” [Cfr. Giovanni Damasio, “L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano”, Adelphi, Collana Biblioteca Scientifica, 1995 ], che ha preso le mosse dalla critica ad una separazione troppo netta tra mente e corpo, tra razionalità ed emozionalità. L’emozionalità ha infatti un valore cognitivo: con le emozioni è possibile conoscere molteplici aspetti del proprio mondo interiore e di quello esterno; lo studioso Daniel Goleman ha, al proposito, elaborato il concetto di intelligenza emotiva.
In conclusione, perciò, è chiaro che la cura della dimensione emozionale nei rapporti umani e scolastici tra docenti e discenti faciliti un migliore apprendimento delle materie scolastiche, le quali, a propria volta, se bene assorbite ed interiorizzate, sono in grado di rendere migliore, più evoluta, la stessa vita emozionale di chi studi.