Un nuovo rinascimento arabo?
feb 23rd, 2011 | Di Piero Pagliani | Categoria: Primo Piano
Devo subito dire che purtroppo non credo che ci sarà un “rinascimento arabo”, come lo ha chiamato il Social Forum recentemente conclusosi a Dakar. Ci sono, ahimè, molti indizi che possono smentire anche intellettuali raffinati come l’economista egiziano Samir Amin.
A meno che per “rinascimento” si intenda la possibilità di spezzare le autocrazie imperanti nel mondo arabo, basate su una classica tripartizione: la religione, con la sua “classe” di dottori della legge, la casta dei guerrieri e quella dei mercanti. Un impianto autocratico che finora si è trascinato nel mondo arabo attraverso varie modalità di modernizzazione, così come è sostenuto proprio da Amin e dal sociologo algerino Ali el-Kenz nel libro “Il mondo arabo” edito da Punto Rosso nel 2004. Una società che fa venire in mente un po’ i suk delle belle città arabe, ordinati per arti e mestieri. Ovviamente non ho nessun titolo per contestare la descrizione del mondo arabo fatta da Amin ed el-Kenz (incidentalmente, il libro di Amin e il mio sui naxaliti indiani furono presentati insieme da entrambi noi in una festa di Liberazione a Milano nel 2004), ma credo che anche il mondo occidentale possa essere in fondo descritto allo stesso modo. Sicuramente nel Medioevo; ma forse anche adesso, solo che ora al posto del clero abbiamo il ceto intellettuale, mentre i preti veri e propri sono stati confinati alla cura dei bisognosi, cioè di quelli che non ce la fanno a seguire le manovre dei mercanti protetti dai guerrieri. La differenze è, in definitiva, nella laicità occidentale in quanto mercanti e guerrieri non sono più funzionali alla religione, ovvero al clero, ma si sono autonomizzati.
Voglio capire a fondo le motivazioni di Amin che sicuramente hanno molto influenzato le conclusioni a cui è giunto il Social Forum. Sono da capire perché a differenza di molti Amin ha ben chiaro in testa gli interessi dell’imperialismo nell’area: “Il mondo arabo e il Medio Oriente occupano un posto decisivo nel progetto egemonico degli Stati Uniti” scriveva nel 2003 in “Geopolitica dell’imperialismo contemporaneo” (infatti in quell’anno fummo entrambi relatori al Social Forum di Parigi in una conferenza dedicata proprio al passaggio dal monocentrismo al policentrismo).
Credo che per una parte significativa le motivazioni dell’economista egiziano dipendano dalla sua adesione di fondo all’Illuminismo e quindi alla speranza che il mondo arabo possa infine accedervi attraverso un vero Rinascimento.
Penso infatti che non sia un caso che il Social Forum abbia usato l’espressione “rinascimento arabo”. E’ un’espressione tipica di Samir Amin. Più precisamente il termine è “nuovo rinascimento arabo”, perché secondo Amin, il primo rinascimento arabo, cioè la Nahda del XIX secolo, fu soltanto la reazione ad uno shock esterno, cioè alla enorme crescita di potenza dell’Europa moderna. In realtà esso generò nel tempo la prima ondata di modernizzazione nazionalista, con Nasser, il baahtismo e la rivoluzione algerina che però non riuscirono a superare la propria debolezza e la debolezza delle proprie borghesie nazionali nei confronti dell’imperialismo.
Se questo è vero, allora possiamo dire che ciò a cui, prima facie, assistiamo oggi è l’opposizione alla corruzione nel tempo di quei regimi che cercarono una terza via tra comunismo e capitalismo borghese, una via fallita per debolezza progettuale interna, per la crisi del “New Deal” semi-mondiale iniziato da Truman all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, ovvero per la crisi del ciclo sistemico di accumulazione coordinato dagli Stati Uniti, crisi che “tradì” i sogni di sviluppo del mondo arabo; e infine per l’implosione del socialismo reale, che “tradì” i sogni di riscatto di quel mondo.
E’ quindi ovvio che ci siano molte richieste legittime nelle lotte che stanno infiammando la sponda meridionale del Mediterraneo. Ma è altresì ovvio che i due fallimenti appena descritti, quello del ciclo sistemico statunitense e quello del socialismo reale, ci hanno fatti entrare nella Terza Guerra Mondiale. E’ questa la cornice più generale entro la quale inquadrare questi fenomeni. Farlo è la condizione necessaria, anche se assolutamente non sufficiente, per non essere in balia di eventi diretti da altri.
Lo sappiamo tutti che la Rivoluzione d’Ottobre scoppiò nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale. Ma dobbiamo anche sapere che scoppiò per una precisa ed esplicita volontà politica sorretta da una particolare organizzazione politica: senza il Partito bolscevico non ci sarebbe stata la pace di Brest-Litovsk e senza il Partito Bolscevico la rivoluzione si sarebbe fermata al regime di Kerenskij. I militanti di sinistra, a mio avviso, tendono invece a sottovalutare gravemente il fatto che le dinamiche di avvenimenti così complessi mettono in gioco forze differenti e contrastanti, obiettivi intenzionali e risultati inintenzionali, così che è molto difficile capire la direzione che questi avvenimenti prenderanno.
Ovviamente questo non vuol dire che bisogna solo “stare a vedere”. Al contrario, vuol dire che bisogna capire tenendo conto del maggior numero di variabili al fine di cercare di spingere gli eventi verso una direzione invece che un’altra. Ma non lo si può fare con pii desideri e meno che meno con pii desideri populistici. La Storia è piena di movimenti schiettamente popolari che finirono per essere diretti da reazionari (si pensi solo alla Vandea).
E’ allora doveroso di fronte all’entusiasmo e allo sdegno che sembrano prevalere, mettere sul tappeto punti molto ambigui perché non si perda di vista il quadro d’assieme.
In un articolo del Daily Telegraph viene citato un documento segreto che svela i contatti nel 2008 del governo statunitense con il Movimento 6 aprile per preparare la successione a Mubarak approfittando del malcontento popolare, tramite una rivolta da far esplodere proprio nel 2011 (il documento segreto si trova alla pagina http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/egypt/8289698/Egypt-protests-secret-US-document-discloses-support-for-protesters.html). D’altra parte un anno prima l’Herald Tribune faceva sapere che i militari egiziani erano ormai pronti a mollare Mubarak. Non solo, il New York Times ha citato un altro documento nel quale salta fuori che Obama faceva studiare ai suoi strateghi i modi per cambiare i regimi autoritari nei Paesi arabi per garantire una nuova alleanza tra essi e gli USA e il riconoscimento dell’egemonia statunitense. E non stiamo parlando di fogli di controinformazione.
Gli strateghi statunitensi conoscono benissimo la situazione politica dei singoli Paesi, conoscono specialmente molto bene i rapporti di forza internazionali e i loro incastri, e valutano sempre una serie di opzioni per cambiarli a proprio favore. Dopo le guerre aperte di Bush, hanno ripreso l’opzione delle rivoluzioni colorate “non-violente”, preparate dai vari tentacoli della loro intelligence, come l’Einstein Institution e le ONG al loro servizio.
La situazione in Libia ha però caratteristiche differenti da quella in Egitto e Tunisia. Basti pensare che il PIL pro capite libico è maggiore di quello della Polonia e sette volte quello dell’Egitto. E in secondo luogo la Libia era di fatto impermeabile a quel tipo di ambigue organizzazioni statunitensi. A prima vista sembra più una rivolta interna, uno scontro tra Gheddafi e i militari, meno influenzato dall’esterno e quindi meno sensibile ai “buoni consigli” di Obama; perciò più sanguinoso e con esiti più incerti, laddove invece possiamo oggi vedere tanto in Tunisia quanto in Egitto un cambio della guardia gattopardesco (di fatto due golpe militari), anche se potrebbe non finire qui.
Ad ogni modo, prima di gettare il cuore oltre l’ostacolo alla ricerca disperata di rivolte popolari a tutti i costi, occorre conoscere anche gli agenti di una possibile e potente contaminazione, per non decantare le lodi di acque fresche ma in realtà avvelenate.
Certo, il rischio di gettare via il bambino con l’acqua sporca c’è, ma c’è anche quello di lasciare che il bambino nell’acqua sporca ci anneghi.
Assolutamente vero caro Piero. Bisogna però stare attenti anche al pericolo opposto. Cioè appoggiare, a prescindere, chiunque si dica antiamericano come purtroppo ha fatto Fidel Castro e gran parte dell’America latina. Tra l’altro Gheddafi è ora diventato antiamericano. Mentre fino a poche settimane fa l’azionista di Unicredit aveva abbandonato definitivamente anche il suo – presunto e retorico – antimperialismo con gli accordi commerciali e non solo con i principali governi europei, italiano in primis(da D’Alema a Berlusconi).
D’accordo con Rodolfo. Gheddafi non è del tutto un nemico del imperialismo. La Francia e l’Italia erano, ieri ancora, i sui migliori amici. Certo, ci sono molti ostacoli sulla via della libertà dei popoli arabi – eppure non sono tutti arabi… Ma solo la lotta per libertà démocratica puo condurre a una vera emancipazione, non i calculi assurdi dei partigiani della geopolitica che hanno sustituo ai popoli i tiranni alla retorica antiamericana. Altro problema: la rivoluzione démocratica in Egitto, in Libia, ecc. rendera piu difficile la politica colonialista d’Israel. Ricordiamo le parole della nostra canzone (in francese): “Il n’est pas de sauveur suprême, ni dieu, ni César, ni tribun.”