Strapotenza dello stato di diritto, impotenza dell’individuo
gen 17th, 2011 | Di Sebastiano Isaia | Categoria: Cultura e societàdi Sebastiano Isaia
La breve riflessione che segue mi è stata suggerita, tra l’altro, dalle polemiche che si sono sviluppate all’indomani della scomparsa di Mario Monicelli. Ancora caldo il cadavere del grande regista italiano, mi è toccato assistere allo spettacolo davvero vomitevole offerto dai soliti «sciacalli etici», di “destra” e di “sinistra”, i quali vi si sono fiondati contro nel macabro tentativo di sbranarne l’anima. Come spesso accade, gli sciacalli sinistrorsi hanno sbaragliato la concorrenza, lasciandosi andare ad un luogocomunismo francamente ripugnante, oltre che ridicolo. Ma ciò che più mi ha disgustato sono stati coloro che hanno approfittato dell’ultimo «scatto in avanti» del vegliardo per perorare la causa dell’eutanasia e del «suicidio assistito». La morte passata dalla mutua. Lo Stato di diritto, essi dicono, deve prendersi cura della nascita (magari ingravidando le donne che non vogliono avere rapporti intimi con gli uomini), della vita e della morte di ogni cittadino. Insomma, lo Stato di Diritto come Padre Padrone Universale. Mi chiedo quale spazio di manovra esistenziale conservi ancora l’individuo.
Si dice che la legge burocratizza tutto quel che tocca. Penso che sia vero e invito a riflettere sulle cause immediate e lontane di questa verità che mi appare alla stregua di un’evidenza solare. Ma ciò che a me appare oltremodo evidente può benissimo non esserlo per gli altri, e per questo “socializzo” questa riflessione, in modo che gli altri possano confermare o confutare il mio punto di vista.
Il fatto che nel quadro dell’attuale regime sociale i cosiddetti diritti (politici, sindacali, civili, ecc.) debbano necessariamente incontrare la prassi legislativa dello Stato, è cosa che risulta incomprensibile solo al pensiero anarchico. Il punto è che ai teorici dei diritti per tutti e per tutto sfugge completamente la maligna dialettica per cui l’espansione dei diritti deve necessariamente implicare l’espansione del dominio sociale. Infatti, lungi dall’essere la camera di compensazione degli interessi e dei bisogni che si confrontano e si scontrano nella società civile, nonché il massimo garante del «patto sociale», lo Stato rappresenta in realtà la suprema espressione degli interessi generali e vitali delle classi dominanti.
Un bisogno sociale di qualsiasi genere riconosciuto dallo Stato e trasformato in un diritto, ci dice che esso non rappresenta, o non rappresenta più, un problema per lo status quo, e se e quando lo diventasse, o ridiventasse (pensiamo, ad esempio, ai diritti sindacali), esso sarebbe certamente negato in quanto diritto e, se le circostanze lo imponessero, violentemente rintuzzato. Peraltro con piena legalità, la quale scaturisce direttamente dai rapporti sociali dominanti in una data epoca storica. La stessa complessità della moderna società capitalistica ha fatto sì che i bisogni socialmente compatibili venissero inseriti in una maglia sempre più fitta di diritti d’ogni tipo.
L’espansione dell’area dei diritti non ci parla, quindi, di uno Stato «sempre più libero e democratico», ma piuttosto di un dominio sociale sempre più forte, capillare, invadente e dispotico, e in grazia di ciò i teorici acritici dei diritti universali (diritto al matrimonio omosessuale, diritto all’eutanasia e al suicidio assistito, diritto alla procreazione assistita senza limiti di tempo e di condizioni sanitarie, diritto allo “sballo”, diritto a mangiare con le mani anziché con coltello e forchetta, ecc.) sono, forse loro malgrado, gli apologeti più zelanti della cattiva (disumana) società. Essi vedono un avanzamento del progresso e della civiltà, in un processo che fondamentalmente si risolve in un ulteriore doloroso restringimento del già angusto e negletto spazio umano.
Che le cose stiano così, lo suggerisce, tra l’altro, il senso di vuoto esistenziale che si diffonde proprio nelle società più progredite dal punto di vista del «benessere» e dei «diritti umani e civili»; parlo di quella «malattia dell’anima» che cerchiamo di fronteggiare con medicine più o meno “alternative”, sedute psicoanalitiche, religioni a basso impatto teologico (spiritualità sì, ma senza esagerare troppo!), e quant’altro offre una società che sembra poter offrire – a pagamento, beninteso – un rimedio per ogni disfunzione che essa crea. Ogni magagna crea un business: che forza questo capitalismo! L’attivismo teologico del Pastore Tedesco si spiega con questa epocale e micidiale crisi di senso, ed è per questo che ogni sua interpretazione in chiave scientista e laicista non ne coglie né il significato sociale né il “risvolto” politico.
Per chi scrive non si tratta certo di coltivare impotenti e ridicole nostalgie passatiste (del tipo: «non ci sono più i froci di una volta, i quali almeno suscitavano scandalo e sputavano sul matrimonio borghese, mentre i gay di oggi fanno “tendenza” e si propongono di salvare l’istituzione matrimoniale dal suo agognato naufragio!»); si tratta piuttosto di riflettere seriamente intorno alla qualità, alla natura tutt’altro che pacifica (in tutti i sensi) del nostro cosiddetto progresso civile, il quale negherà sempre – e necessariamente – alla radice il solo “diritto” che davvero importa: quello di diventare uomini.
Che meraviglia quando le parole suonano come musica. Ogni commento sarebbe superfluo. Magari i compagni e le compagne della nostra epoca ritrovassero il vero senso libertario e umanitario del comunismo. Magari, però, articoli come questo possono risvegliare gli animi.