Il pallone rosso della compagna Mara
gen 13th, 2011 | Di Piero Pagliani | Categoria: Recensionidi Piero Pagliani
L’altro ieri ho assistito alla prima a Roma della pièce teatrale “Avevo un bel pallone rosso”.
E’ la storia di Mara Cagol, dalla sua presa di coscienza politica all’Università di Trento, alla laurea, al matrimonio con Renato Curcio, la fondazione delle Brigate Rosse, le prime azioni, fino alla sua uccisione in un conflitto a fuoco il 5 giugno del 1975.
Man mano che la pièce proseguiva mi prendeva sempre più profondo un senso di angoscia.
Era sicuramente per l’attesa del momento della morte di Mara alla quale dovevo assistere, in quel teatro, anch’io ormai come padre di una ragazza poco più giovane. Lo stesso padre che sulla scena si angosciava per lei, cercava di capirne le scelte ma rimaneva prigioniero di un mondo apparentemente diverso da quello della figlia, de la soa fiola.
Ma non era solo questo. Erano le parole di Mara che entravano come stilettate nei luoghi in cui si depositano quei ricordi sempre pronti a riemergere dirompenti. Bastavano poche frasi delle sue analisi e dei suoi proclami, anzi poche parole: “classe”, “sfruttamento”, “alienazione”, “comunismo”.
Oh certo, non condividevo le analisi delle Brigate Rosse, le ritenevo sbagliate. Ma chi allora non sbagliava? E tutti quegli sbagli diversi non avevano in fondo una matrice comune? Quelle parole scandite sul palcoscenico infatti mi sussurravano: “Guarda che la pensavamo tutti così, non ha senso chiamarsi fuori”.
Oh certo, ero contrario alle azioni delle Brigate Rosse, le ritenevo avventuriste, inutili, controproducenti e in più la violenza, per me cristiano, era una contraddizione angosciosa. Ma anche Mara era cristiana. La sua adesione agli ideali comunisti, come per molti di noi allora, nasceva più da considerazioni etiche che da una convinzione analitica o un vissuto sociale. Nasceva per un messaggio d’amore. Eppure si uccideva. Non ho mai toccato un arma, ma le parole scritte al padre mi sussurravano ancora una volta: “Guarda che la pensavamo tutti così, non ha senso chiamarsi fuori”.
No, non ha senso tirarsi fuori. Non basta dire “Io non c’entro, io la pensavo diversamente, io non ho mai fatto quelle cose”. Ci sono state tragedie attorno a noi. Chiamarsene fuori non solo è un’ipocrisia, ma è il modo migliore per rifare tutti gli errori, uno per uno.
Il bel testo, recitato con sensibilità dalla sua autrice, Angela Demattè assieme a un ottimo Andrea Castelli, entrambi trentini come Mara Cagol, mette in scena il contrappunto tra Mara e il padre. Il buon senso che calma contro l’ideale che infuoca, la saggezza contro l’estremismo, la tradizione contro l’emancipazione, la normalità contro la rivoluzione. Eppure i due mondi sono solo apparentemente incomunicabili. Tra padre e figlia il dialogo non si spezza mai. Per amore, certo, ma anche perché le idee e i sentimenti dei due nel dialogo si complementano. Dopo la rivoluzione serve la normalità. Come sarà questa normalità? – chiede il padre -, non sarà che poi, poco a poco, si ritorna senza accorgersene alla situazione di prima? No, risponde Mara, perché le persone avranno altri ideali. Ma come pensate di obbligare la gente ad essere santi – ribadisce il genitore – se non ci è riuscito nemmeno Cristo?
Proprio così, possiamo allora dire, il problema del capitalismo c’è ancora e si è persino aggravato dai tempi di Mara. Il problema di come uscirne anche. Non possiamo ignorare questi due problemi. Ancora una volta non ha senso chiamarsi fuori. Se no non ci sarà futuro.
Per il passato possiamo solo constatare che a Mara il bel pallone rosso e scoppiato in mano. A noi di mano ci è sfuggito.
Ho vissuto anch’io da militante quegli anni. Posso condividere che “non ha senso tirarsi fuori”. Ma si tratta di un’emozione. E l’emozione non basta. E infatti non è bastata. E’ stato tutto lo svolgimento storico a “tirarci fuori” da quelle illusioni o dalle possibilità reali che c’erano allora.
E forse sono stati anche quegli spari (delle BR) oltre a tante altre cose impreviste o non previste (da loro, da noi) a “tirarci fuori”.
Sì Ennio, è innanzitutto un’emozione. Infatti a me quella pièce ha emozionato.
Un’emozione che però porta immediatamente ad una riflessione su ciò che allora noi credevamo in senso complessivo, senza pensare di immaginarci più innocenti o più nel giusto per alcuni distinguo teorici che oggi, rivisti con la distanza storica e critica, sono quasi impercettibili (un altro conto è la responsabilità personale delle scelte).
Poi non so se gli spari delle BR siano stati più determinanti di altri fattori che dipendevano da decisori immensamente più potenti di loro. E che in quanto potenti avevano modo di utilizzare anche decisioni di altri per i loro fini.
Sono punti su cui in tutti questi anni si è riflettuto solo parzialmente e che oggi forse potremmo riconsiderare con minori intralci personali e ideologici.
Piero
Molto bella questa testimonianza Piero.
Bella veramente, Piero, avevo già deciso di andare Sabato, ma vado dalla nuova nipotina nata, Greta, spero di andare Domenica, ultimo giorno.
Roma, Piccolo Teatro Eliseo Patroni Griffi, 11-16 gennaio 2011
Le gabbie del capitalismo planetario contemplano ed assorbono, battendo, corrompendo o compatibilizzando a seconda della fase, ogni movimento, conquista, diritto della rivendicazione vertenziale, rendendolo sempre e comunque temporaneo e soggetto ai cicli del mercato mondiale.
E’ esattamente quello che sta succedendo.
Tutte quelle conquiste del vecchio “diritto del lavoro” oggi non sono piu’ possibili, perche’ pesano troppo ai padroni ed al loro sistema; occorre un “nuovo diritto del lavoro”che non le contempli piu’, e che permetta ai padroni di competere senza vincoli.
Cosi’, il vecchio mondo socialdemocratico della concertazione e della mediazione, superato dai fatti, va’ in frantumi, lasciando sul terreno la radicalita’ di uno scontro di classe possibile, ed annunciato.
Una battaglia decisiva che c’e’, nei fatti, nelle cose, e che solo i padroni sono coscienti di doversi organizzare per combatterla.
Gli operai, alle prese con la dannazione della loro “vita di lavoro”, traditi, offesi, svenduti dai loro mille falsi amici e rappresentanti, sono ridotti a carne da macello, spesso di quart’ordine.
Gli operai, non riuscendo ad avere una propria visione del mondo, subiscono quella degli altri, facendo gli spalatori di merda per altre classi ed interessi, facendo i portatori d’acqua e gli attacchini per manifesti e campagne politiche ed elettorali non proprie.
E’ verissimo che il “vecchio mondo socialdemocratico della concertazione e della mediazione” sta per essere superato definitivamente.
Ma sono esattamente 163 anni che si invoca la lotta di classe e la classe rimane “in sé” (o addirittura al servizio dei suoi nemici, attacchinando manifesti politici non suoi – e specialmente in Italia aggiungo io) e non si svela “per sé”, nonostante la si sia scorta in ogni dove, dietro ogni lotta o pura insoddisfazione.
Non è ora che si discuta finalmente il perché, lasciando perdere la cosiddetta “aristocrazia operaia”, il cosiddetto “imborghesimento” e i cosiddetti “tradimenti” o le condizioni “non ancora pronte” – se non bastano 163 anni, quanti ce ne occorrono?
La nostalgia è un bellissimo sentimento. Ma anche l’ansia di conoscere e di andare avanti.
Piero