I problemi delle transizioni e la nonviolenza
gen 7th, 2011 | Di Redazione | Categoria: ContributiRiceviamo e pubblichiamo questo interessante testo di Romano Calvo, pur non condividendo l’impostazione della non-violenza tout court. Riteniamo sia però utile dibattere sui problemi relativi a questa impostazione, nonché su ciò che concerne la ‘transizione’.
La Redazione di Comunismo e Comunità
Alcuni processi di transizione sociale, cioè di passaggio verso nuove forme di regolazione del vivere in società, vengono storicamente accelerati da episodi di tipo rivoluzionario, in cui alcune minoranze riescono ad imporre con la forza il proprio punto di vista.
Il punto su cui mi interessa qui discutere non è tanto l’evitabilità o meno dell’uso della violenza nella gestione delle transizioni. Credo infatti che di fronte a cambiamenti che minacciano seriamente il potere da cui il gruppo dominante trae la propria esistenza, è assai improbabile che questi non decida di usare estremi rimedi, per difendere se stesso ed il potere acquisito, contro chi lo minaccia.
La violenza va pertanto considerata come una presenza inevitabile dei processi di transizione (e probabilmente come un tratto costante dell’evoluzione umana).
Il punto è però un altro e cioè se chi si candida a gestire la transizione abbia o meno coscienza di dover gestire anche le inevitabili conseguenze che la violenza genera. E se non possano esistere forme più efficaci per gestire quella violenza.
La storia ci documenta due casi di rivoluzione con esiti di immensa portata, la rivoluzione francese del 1789 e quella bolscevica del 1917.
Sarebbe molto interessante rileggere questi due eventi storici da un punto di vista meramente fenomenologico, cioè osservandone la dinamica interna.
Propongo provvisoriamente una tesi (da fondare su una più rigorosa ricerca storica) per cui le rivoluzioni portano con sé i seguenti tratti costanti:
1. un momento di debolezza nel sistema dominante, tanto a livello dei processi di accumulazione e distribuzione del capitale quanto a livello di legittimazione culturale;
2. una alleanza contingente tra gruppi sociali portatori di interessi diversi ma unificati dal comune obiettivo di abbattere l’ordine esistente;
3. una forzatura contro il sistema di coercizione dominante tale da determinarne la momentanea sconfitta (su base militare);
4. la capacità di costituire rapidamente nuovi contenitori del consenso sociale, sostitutivi dei precedenti;
5. le prime difficoltà collegate alla necessità di far fronte alla resistenza al cambiamento posta dai confini dell’impero non adeguatamente coinvolti nel processo rivoluzionario;
6. la gestione dello svantaggio della mancanza di prove tangibili che dimostrino già nel breve periodo che il cambiamento ancorché necessario è anche positivo, perlomeno per chi lo ha attivamente
promosso;
7. la necessità di semplificare la catena del comando per fronteggiare con più efficacia e rapidità le difficoltà della transizione;
8. una inevitabile lotta intestina nella elite rivoluzionaria che conduce invariabilmente alla eliminazione fisica di buona parte dei suoi promotori a vantaggio dei soggetti che con maggior realismo sanno porre al posto giusto il tema del funzionamento organizzativo (e conservativo) nel nuovo ordinamento sociale.
Continua qui: Il_problema_delle_transizioni_e_la_nonviolenza
L’articolo è molto interessante. Io, personalmnte, sono convinto che l’unica rivoluzione possibile sia NON VIOLENTA e, l’articolo mi da alcuni spunti.
Oltre ad analizzare i fattori scatenanti le rivoluzioni, credo sia molto più importante analizzarne gli effetti. Entrambe le rivoluzioni violente del passato, infatti, sebbene sostenute da ideali di uguaglianza e libertà hanno dato origine ha nuovi regimi borghesi forse anche più terribili dei precedenti. Il motivo di tutto ciò sta nel fatto che una rivolzuione violenta in quanto tale risponde e applica logiche borghesi: il capo e la gerarchia. La struttura gerarchica che ha giudato le rivoluzioni, in quanto gerarchica finisce per creare un nuovo ordine gerarchico e, quindi, oppressivo come quello che ha abbattuto. Credo sia questo il primo insegnamento da trarre dalla storia delle rivoluzioni. Questo oggettivo, incontestabile dato di fatto per cui le rivluzioni violente creano nuovi regimi borghesi e oppressivi deve dirci a mio parere che l’unica strada verso un cambiamento che liberi l’uomo dall’oppressione dell’uomo sia LA NON VIOLENZA!!!
Che dire? Non coltivo più da tempo idee preconcette, però in questo caso devo fare un grosso sforzo per evitare la “reazione” al discorso di Calvo. La sua è una riflessione che centra bene la questione del protagonismo anarcoide e della sua violenza inconcludente e nichilista. Difficile non essere d’accordo. Passaggio delicato e “ricco” quello che cita Nicola Chiaromonte a proposito di Trascendenza e dell’individuo “mostro” che non riconosce il legame più importante di tutto, quello con l’insieme delle cose (Natura o Cosmo che sia). Ed anche qui per il discorso – anche se difficile – condivido.
Il punto che mi lascia fortemente perplesso, e che non riesco ad accettare, è quello del rapporto fra mezzi e fini e della non violenza. Come scrive Leonorado Pegoraro nel suo articolo La non-violenza e le sue astratte agiografie dal “Piccolo gioco” del PRC al “Grande gioco” internazionale (da L’Ernesto n.3-4/2010: http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=4 ), si rischia di cadere in un atteggiamento moralistico. E’ questo un tema sul quale Bertinotti molto insistette, per lui il fine è già contenuto nel mezzo e anzi “vive nel mezzo stesso”, e quindi se si vuole superare il capitalismo non si deve perdere di vista questa coerenza. La non violenza diventa così un principio. L’articolo di Pegoraro, giustamente cita la “regola generale” elaborato da Toni Muzzioli, che riporto:
La lotta per la giustizia sarà anche domani una lotta “in situazione, storicamente circostanziata; dunque non sarà – come non è stata mai in passato – solo la volontà dei soggetti coinvolti a decidere come si esprimerà e con quali mezzi, ma anche il peso delle circostanze esterne. In linea del tutto teorica non si può non convenire che sarebbe bene che i mezzi prefigurassero il fine – e possiamo senz’altro adottare questa come “linea di condotta” generica -, ma un simile argomento non può essere assolutizzato, se non in una situazione “da laboratorio”; nella realtà in qualche misura i mezzi saranno sempre influenzati dal contesto entro il quale sono stati scelti e adottati. Tutto ciò, va ribadito, non significa che sia giusto ritenere «che si possa fare qualunque cosa in vista della santità del Fine». Ma non ha senso neppure «l’estremo opposto»: e cioè l’«attenzione estrema per il “mezzo”, per il qui ed ora dell’agire, per la qualità etica delle azioni […], al prezzo di sacrificare tranquillamente il fine». Saremmo in questo ultimo caso in presenza, continua Muzzioli, di una «forma di “manicheismo etico” con la quale si comprime l’agire storico e politico sulla sua immediata conformità a norme morali».
Replico rapidamente ai due commenti. Condivido il dubbio circa una possibile deriva moralistica della nonviolenza. Dirò di più, temo anche una lettura debole e rinunciataria, tipicamente postmoderna, di chi teorizza la nonviolenza semplicemente perché non crede possibile né auspicabile alcun cambiamento.
Allo stesso modo condivido l’osservazione per cui non è possibile determinare ex ante gli esiti e le forme della transizione.
Tuttavia da essere razionale, nel momento in cui decidi di imbarcarti in un movimento di lotta anti capitalistica, ti interessa o no sapere se quel gruppo ha già prefigurato le modalità della lotta? Non puoi sfuggire alla domanda. Senza far entrare in campo alcun argomento etico, ma puramente logico, se il gruppo prevede la lotta armata, io vorrei sapere quali armi si utilizzano, in quale contesto si prevede di utilizzarle, chi ha diritto ad utilizzarle e contro chi vorrebbe utilizzarle. Soltanto allora potrei decidere razionalmente se quella strategia ha margini di efficacia oppure no. E quindi se condividerla o meno.
L’esperienza mi ha però portato a verificare che tale razionalità è praticamente impossibile da realizzare. Perché c’è il segreto, perché vi sono alcuni strati del’organizzazione che non devono sapere, perché cinicamente si usa la folla come scudo umano, ecc.
E dunque la semplice esistenza di un dubbio che quella organizzazione possa coltivare nel suo seno obiettivi di lotta armata, pone il militante di fronte al dilemma: faccio finta di niente, col rischio di diventare carne da cannone, oppure pongo apertamente il problema all’interno della mia organizzazione? In questo senso una presa di posizione ex ante ha un senso prima strategico che etico: poter sapere che di quel gruppo condivido non soltanto l’analisi sulla crisi e l’idea di mondo migliore, ma anche la strategia di lotta che, in quanto nonviolenta, sarà sicuramente e strutturalmente più partecipativa e meno manipolabile dai poteri avversari.
In questo senso l’opzione “logica” ed ex ante della nonviolenza funziona anche da argine contro la parte meno razionale di me stesso. Puoi leggerla anche con le categorie del dilemma del prigioniero e dei giochi a somma positiva.
Detto ciò, il tema che a me interessa maggiormente è quello tecnico ed organizzativo e cioè come determinare significativi intoppi al sistema, riuscendo al contempo a spostare larghe masse dalla nostra parte. Se qualcuno riesce a convincermi che nel qui ed ora italiano, tali esiti si possano produrre mediante la lotta armata, sono pronto a cambiare idea.
La mia proposizione della nonviolenza non è assolutamente moralistica ma assolutamente materialistica. Oltre alla mia analisi storica delle rivluzioni violente le parole di Romano dicono il resto: “la strategia di lotta che, in quanto nonviolenta, sarà sicuramente e strutturalmente più partecipativa e meno manipolabile dai poteri avversari”. Io credo che il primo passo verso la partecipazione non violenta e, quindi, non manipolabile sia quello di portare Stato e, SOPRATTUTTO, lavoratori nella proprietà dei mezzi di produzione. Eliminare tutte le cariche nominali dalla gestione della cosa pubblica e dei mezzi di produzione. Questa a mio parere è la strada graduale e non violenta verso la costruzione di un mondo “comune”. Da ciò si potrà arrivare, a mio parere, verso una società che superi le logiche del lider, della rappresentanza, della gerarchia, della proprietà e dello scambio.
Premessa necessaria: in Italia, (ma non solo) non c’è nessuna ipotesi immediata di possibilità di ricorso alla lotta armata. E per ragioni molto semplici. Non v’è, infatti, scontro sociale che lascia presagire uno scenario di questo genere. I comunisti, a prescindere dal “filone” di appartenenza, non hanno mai concepito la lotta armata come valore, essa è sempre stata l’estrema ratio di un percorso necessitato dalla indisponibilità della classe dominante a “cedere” il potere. Chi, in Italia, ha pensato di praticare la lotta armata contro lo Stato e le sue articolazioni (negli anni ’70/’80) lo fatto in ossequio ad una visione estremistica ed infantile che concepiva la lotta armata come momento di disarticolazione dello “nemico di classe” in attesa che si scatenasse la più generale lotta rivoluzionaria. Sappiamo come è andata a finire, e non poteva che finire così. Quell’esperienza di lotta armata la definisco semplicemente come espressione “armata” di una concezione riformistica.
Aborrisco qualsiasi mitologia della violenza che altro non è che manifestazione di dannunzianesimo nichilista e anarcoide.
Una forza rivoluzionaria che non mette nel conto la possibilità (amara ma necessaria) di esercizio della violenza ed anche della lotta armata (due cose ben distinte) non è una forza rivoluzionaria. La violenza esercitata ed organizzata da una forza rivoluzionaria dotata di apparato teorico definito ante è senz’altro meno cruenta della violenza dispiegata da masse esasperate e disperate. Con la differenza che nel primo caso c’è possibilità di esito positivo nel secondo c’è solo la certezza della sconfitta e della violenza reazionaria esercitata cruentamente dalla classe dominante.
A mio parere rivoluzione è sinonimo di cambiamento radicale. Quello che la rivoluzione debba mettere in conto l’uso della violenza è un dogma, che la storia ci ha rivelato falso, nonchè un incitamento alla violenza. Una rivoluzione violenta, come quelle che la storia ci ha mostrato, presuppone un’orgnizzazione militare. Se il comunismo è la cultura della società senza classi e, una società senza classi è una società senza gerarchie, è ovvio che una rivluzione guidata da una gerarchia militarizzata e da un lider non potrà produrre una società senza classi libera dall’opopressione dell’uomo sull’uomo. Infatti, la rivoluzione francese e quella d’ottobre hanno prodotto due terribili regimi borghesi che hanno di fatto distrutto il comunismo. Io credo che questo sia un dato di fatto oggettivo. Inoltre, pensare che la violenza possa costruire la pace e l’armonia sociale credo che sia un assurdo ideologico in sè. Quando il genio di Marx teorizzava la rivluzione violenta, lo faceva analizzando il Mondo del 1800 che era un pianeta diverso da oggi. Oggi abbiamo il diritto di riunirci pacificamente, abbiamo il diritto di esprimerci, di manifestare, di votare e, quindi, di cambiare le cose in maniera assolutamente non violenta. Io credo che sostituendo la democrazia rappresentativa con quella diretta e, inserendo i lavoratori nella proprietà e nella gestione dei mezzi di produzione la nostra società possa cominciare a fare i primi passi non violenti verso un mondo comune davvero libero dall’oppressione dell’uomo sull’uomo. Il fatto oggettivo che la classe dominante eserciti bieca, abbietta violenza sulle genti e sulla VITA, significa che noi dobbiamo distinguerci professando ed esercitando la NON VIOLENZA e la cultura della vita come unico mezzo veramente rivoluzionario. Questo è, amio modesto parere, la vera evoluzione culturale che l’umanità deve compiere per uscire dalla sua preistoria e cominciare finalmente a scrivere la sua storia.
Poco realistica la posizione tua, Mariano, quando dici che oggi abbiamo “il diritto di riunirci pacificamente…. Ne sei sicuro? Uno sguardo veloce ed anche superficiale al mondo odierno ci parla di guerre neocoloniali, occupazioni, mantenimento di governi quisling in funzione antipopolare, di negazione ed azzeramento dei diritti (per parlare del nostro mondo occidentale). Insomma di uno scenario del tutto privo di qualsiasi barlume di democrazia, se con essa si possa intendere il potere del popolo (classe dominata). Sappiamo bene che gli strumenti democratici che abbiamo noi occidentali ci permettono di parlare liberamente per es. su questo sito, ma sappiamo anche bene che questo non impedisce che i governi capitalistici perseguano politiche antipopolari e che ad accenni legittimi di organizzazione autonoma ed anticapitalista il potere reagisce graduando la sua brutalità a seconda della sua capacità di reggere il “confronto”.
Concordo pienamente con quello che dici Antonio. Il mondo è un regime, in particolare l’Italia dal 1992 quando un vero e proprio colpo di stato è stato messo a segno. Il dominio dei mezzi di produzione e del lavoro è il primo fucile che questo regime usa per impedire alle persone di esprimersi e riunirsi. Il mondo è talmente fermo che per me “Il Manifesto” è oggi ancora più attuale di allora. Il diritto a riunirci pacificamente FORMALMENTE esiste, praticamente c’è un regime che mette in campo tutti i suoi metodi. Occorre, a mio parere, il coraggio delle milioni di persone civili di questo Paese e d’Europa ad affrontare la brutalità del regime con la determinazione della non violenza. Il fuoco si vince con l’acqua e la violenza con la non violenza, questo è l’insegnamento che la storia degli ultimi due secoli ci mostra. Questa è ovviamente l’umile opinione di un compagno che cerca di riportare alla luce la meravigliosa cultura di un mondo comune libero da oppressione che, purtroppo, a mio parere, è stata sconfessata dagli stessi compagni dal 1926 quando abbiamo applicato le logiche borghesi della violenza, della gerarchia, del lider, della burocrazia, del partito nazionale, del riformismo parlamentare ecc. Il parlamento può essere una strada ma solo in un regime di democrazia diretta. PS è un piacere partecipare a questo laboratorio.
Aggiungo un altro commento solo per specificare che sono un fermo sostenitore della tesi di Mineo sulla crisi di regime. Sono convinto che ci troviamo di fronte ad un palese regime ma, dobbiamo avere il coraggio di usare le libertà che abbiamo conquistato con la Costituzione qualunque sia la reazione del regime.