Rosarno, tra rivolta e lotta di classe
dic 28th, 2010 | Di Antonio Catalano | Categoria: Capitale e lavorodi Antonio Catalano
Giusto un anno fa scoppiava la rivolta di Rosarno. L’articolo che segue è stato scritto nel gennaio 2010 per il numero 4 della rivista Comunismo e Comunità, che avrebbe dovuto uscire in veste cartacea di lì a poco tempo ma che invece, per motivi tecnici ed economici, veniva alla luce solo in formato elettronico a circa metà anno. Considerata l’importanza del tema, la Redazione della rivista ritiene opportuno riproporre all’attenzione dei lettori l’articolo.
Rosarno, tra rivolta e lotta di classe
Quando la lotta dei lavoratori immigrati riguarda tutti i lavoratori
Antonio Catalano
I fatti di Rosarno ci spingono a riflettere – oltre che, naturalmente, sulla questione immigrazione – sulla decisiva questione dei rapporti di classe nel nostro paese tra le diverse componenti del proletariato. Non possiamo pensare al proletariato in modo mitico come se fosse per assegnazione divina destinato a compiere la missione salvifica della liberazione umana dal giogo dello sfruttamento e dell’oppressione. Il proletariato, da intendere come insieme dei soggetti sociali dominati nella società del modo di produzione capitalistico, è nel presente senza riferimenti comuni, è privo di una politica e di un’ideologia capaci di orientare il proprio agire sociale in direzione di processi emancipativi e di liberazione. Al suo interno predominano oggi dinamiche competitive funzionali alla riproduzione sociale capitalistica, ecco perché spesso purtroppo si assiste a scenari di scontri ‘interni’, la cosiddetta guerra dei poveri. Ho già trattato in altri numeri della nostra rivista il tema dell’immigrazione[1] e per questo non ripeto cose già scritte, proverò ora ad andare oltre per contribuire al dibattito sul che fare. È, questa, una rivista comunista e non un contenitore di opinioni, perciò i temi non possono essere trattati in modo accademico ma sempre con l’obiettivo di mettere a punto le armi della critica in grado di sostenere una politica coerentemente anticapitalistica. Chi si richiama alla lezione di Marx non può ‘schiacciare’ il tema dell’immigrazione su quello del solidarismo umanitario – che non va biasimato se sincero – deve piuttosto fare i conti con le contraddizioni che il capitalismo genera e dalle quali necessariamente partire. Fondamentale, per chi scrive, è il lavoro di individuazione dei passi da compiere per evitare che la questione immigrazione sia utilizzata dalla classe dominante per favorire processi disgregativi all’interno della composizione sociale che non ha alcun interesse a vivere gli immigrati come altro da sé, al contrario può e deve considerare questi come dei naturali alleati nella guerra contro la barbarie capitalista. Insomma si tratta del ‘solito’ grande tema dell’unità tra i soggetti sfruttati e oppressi nel modo di produzione capitalistico. Per quanto detto, il mio non è un approccio sociologico alla questione – pur se si avvale di studi di settore[2] – ma politico e militante, quindi per forza di cose di parte.
La rivolta[3] degli immigrati di Rosarno è stata sacrosanta, nasce da un episodio (tra i tanti) di aggressione ad arma da fuoco ad alcuni lavoratori agricoli immigrati (così come era avvenuto a Castelvolturno nel 2008, con sei morti in quella circostanza). A Rosarno le aggressioni contro i migranti iniziano nel 1990 e due anni dopo abbiamo i primi morti, due algerini sono ammazzati a fucilate, nel ‘94 tocca ad un ivoriano ed ancora nello stesso anno un altro ivoriano è ucciso, mentre nel ’96 viene trovato il corpo di un africano nelle campagne di Laureana di Borrello la cui identità non si è mai potuta appurare perché in avanzato stato di decomposizione. Senza contare i numerosi feriti causati da attacchi armati. Quindi la rabbia esplosa a gennaio scorso scaturisce da una situazione di discriminazioni e violenze subite in un lungo ventennio[4]. Ma questa volta la rabbia degli immigrati esplode in una vera e propria rivolta che mette a soqquadro l’intero paese di Rosarno. La stampa e le tv subito pongono l’accento sulle violenze commesse dagli immigrati dimenticando di raccontare da dove originano queste violenze, come se fosse naturale e normale che si possa sparare a dei lavoratori con fucili a pompa. La violenza non si può mettere tutta sullo stesso piano, un conto è la violenza praticata – direttamente o indirettamente poco importa – da chi esercita il potere in modo discriminatorio per difendere il proprio privilegio di classe un conto è la violenza reattiva degli sfruttati. Teniamola sempre a mente questa distinzione! Hanno un bel dire i benpensanti e legalitari che bisogna incanalare la protesta nell’alveo della legge, come se la Legge fosse davvero “al di sopra delle parti” e non strumento del diritto della classe al potere, come se non avessimo mille esempi concreti che dimostrano questa verità. Insomma, in una società classista come la nostra la Giustizia non è neutra, è asimmetricamente a sfavore dei soggetti sottoposti all’oppressione di classe capitalistica, e questo vale ancor di più in una fase come questa in cui i rapporti tra le classe nella società non pendono per nulla a favore dei dominati. Quindi è ipocrita e disgustoso il richiamo alla legalità da parte di tutti coloro che questa la intendono a senso unico, cioè a favore del sistema vigente che ragiona con la pancia della legge del valore.
Al momento della vile aggressione con il fucile a pompa a Rosarno è presente un’ampia comunità di lavoratori immigrati (specialmente africani) che lavora in condizioni schiavili nei campi per la raccolta degli agrumi (arance e mandarini). Il lavoro è massacrante, dura per l’intera giornata illuminata dal sole e riceve uno straccio di paga che non raggiunge neanche i venti euro, se tutto va bene. Nel Sud d’Italia c’è un esercito di forza-lavoro migrante che rincorre i lavori agricoli nelle varie regioni (dalla Puglia alla Campania, dalla Calabria alla Sicilia) sfruttata allo stremo e che vive disumanamente in aree altamente degradate. Tutti lo sanno tutti fanno finta di nulla. Perché? Perché questa forza-lavoro fa comodo, perché è prestata senza nessuna applicazione di contratto e quindi di sicurezza e di retribuzione, perché genera profitti che altrimenti non potrebbero conseguirsi. E quando si esercita il ricatto dell’espulsione tutto questo è ancora più brutale perché questi lavoratori li si può sfruttare fino al midollo nella continua minaccia della perdita del lavoro e della cacciata dal Paese.
Parliamo di uno sfruttamento bestiale e quindi inumano cui sono sottoposti questi lavoratori migranti, subita non tanto «da quella ‘ndrangheta di cui tanto si parla in queste, che sicuramente c’è e controlla affari e territorio, ma dai grandi e piccoli padroncini di cui la ‘ndrangheta è da sempre cane da guardia e collaboratore… È per questi padroni ‘puliti’ che i cinquemila braccianti immigrati che vivono a Rosarno e negli altri paesi della Piana lavorano oltre le 12 ore al giorno per meno di 2 euro l’ora: 20-24 euro al giorno di cui 6 devono andare al caporale che ogni mattina sceglie chi e quanti lavoreranno in quella giornata. La stessa situazione di Eboli, Castelvolturno (Campania), Cassibile (Sicilia), e poi Cerignola, Stornara (Puglia), e di tante zone del Nord dove la ‘ndrangheta non c’è ma i padroni hanno la stessa fame di profitto», come dice giustamente un comunicato dei compagni dei Red Link di Napoli. E forti di leggi favorevoli, come la Bossi-Fini che introduce con il “Pacchetto sicurezza” l’aberrante reato di clandestinità, queste vere e proprie sanguisughe usano la maggiore ricattabilità e subordinazione degli immigrati non solo per aumentare lo sfruttamento ma per arrivare persino a rifiutarsi di pagare la misera paga dovuta. «E se c’è chi protesta per avere i propri soldi, come è avvenuto a Rosarno, scattano le ritorsioni, le aggressioni, si costruiscono ad arte episodi di illegalità dei migranti al solo scopo di aizzare l’odio razzista, che non a caso si concentrano negli ultimi giorni della raccolta per costringere gli immigrati al silenzio o alla fuga. Quanto hanno risparmiato i padroni di Rosarno per tre mesi di lavoro delle migliaia di braccianti allontanati senza essere pagati nemmeno di quel miserabile salario?».
Fatta questa necessaria premessa per rendere esplicito il quadro valoriale cui mi riferisco – non equivicinante – passo ora ad un altro piano, quello relativo all’analisi della situazione concreta e al come poter intervenire su questo spinoso terreno non secondo un generico punto di vista ma secondo una prospettiva di “ricomposizione di classe”. Partiamo dal riconoscere che a livello dei ceti popolari non è facile parlare di immigrati senza scatenare umori di perplessità se non a volte di vera e propria ostilità, e non è difficile capirne il motivo almeno per chi ha un rapporto non astratto con la realtà; la presenza di tanti immigrati non è vista come un’occasione di arricchimento o di esperienza multietnica ma è vista concretamente come il segnale di una situazione generale preoccupante. «Chi vive nei piani bassi, invece, è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwinistica lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata «lotta tra i poveri», della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali e immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno[5]». Breve parentesi: c’è un antirazzismo davvero odioso, è quello degli intellettuali, artisti, giornalisti eccetera, cioè delle classi colte, che vivono nei quartieri alti che – guarda un po’! – accusano gli abitanti delle zone basse di essere razzisti… Parioli contro Tor Bella Monaca! Indignazione ipocrita e pregna di odio classista verso i ceti popolari… ecco il vero razzismo. Dice bene Gennaro Scala nel suo Carattere reazionario dell’antirazzismo[6] che l’ «l’antirazzismo vorrebbe sanzionare la superiorità morale dei settori “istruiti” e scolarizzati rispetto alle classi inferiori “piene di pregiudizi”» e che, in questo senso, è «un’ideologia che segna un rapporto di classe» (anche se non condivido il suo realismo che lo porta a ritenere l’immigrazione pianificabile e riconducibile ad una giusta politiche delle “quote”, come se ci trovassimo a fare i conti con un sistema che parte del presupposto del bene comune e non con un capitalismo imperialistico che invece presuppone la rapina economica a danno dei paesi dipendenti con tanto di sfruttamento internazionale del lavoro). Non salga ora in cattedra il fesso di turno per accusarmi di essere insensibile alla denuncia della cultura razzista. Lo dico a scanso di equivoci: il fatto che si diffondano tra i lavoratori e i giovani (in particolare delle periferie urbane, ma non solo) sentimenti e comportamenti razzisti è davvero preoccupante, quando è necessario le uniche risposte pedagogiche sono quelle delle rudi mazzate, e su questo non ci piove, ma bisogna pur capire su quali basi ciò accade e quali possono essere le vie d’uscite. La comprensione di queste basi non deve per niente portarci alla giustificazione populistica dell’ostilità verso i migranti, anzi, ogni manifestazione di pensiero ed azione che può addirittura sfociare in forme di aperta e violenta aggressione fisica (come già a Ponticelli nel 2008), con contorno di campagne islamofobe ed altre schifezze del genere sono non tanto da deplorare ma da contrastate con tutti i mezzi necessari. Nessuna accondiscendenza, quindi, verso coloro che si macchiano di aggressioni nei confronti dei migranti, niente giustificazionismo sociologico, anche se i soggetti – come spesso accade – sono proletari. Che sia chiaro!
La solidarietà tra gli sfruttati e gli oppressi non nasce per decreto o perché i proletari “non hanno nulla da difendere se non le loro catene”, nasce e si sviluppa nella dinamica della lotta di classe che deve sapersi dotare delle giuste forme di organizzazione della lotta e degli istituti in grado di confermare e riprodurre rapporti di fratellanza e di comunità al suo interno. Nella storia contemporanea spesso i proletari sono divenuti strumento del potere capitalistico e imperialistico arruolandosi negli eserciti delle rispettive borghesie per difendere i loro interessi di classe, massacrandosi così in carneficine spaventose. Non è invece andata in questo modo la storia quando i proletari hanno rifiutato di sottomettersi a queste logiche ed hanno partecipato a movimenti rivoluzionari. Un esempio per tutti il “disfattismo rivoluzionario” di leniniana memoria che propagandava ai soldati arruolati negli eserciti degli stati in lizza tra loro nella Prima Guerra Mondiale la necessità di smetterla di scannarsi vicendevolmente per rovesciare le proprie baionette contro i rispettivi comandi al servizio dei propri capitalisti. Questa politica disfattista e internazionalista era l’unica strada a disposizione dei proletari per interrompere la vera, e non metaforica, guerra tra i poveri. Sulla base di questo rovesciamento disfattista si dettero situazioni di vero e proprio affratellamento che superava le barriere nazionali. Questo per dire che la solidarietà tra i dominati non nasce per determinazione meccanica della condizione storico-sociale ma dall’appropriazione di autonomia politica, che determinate circostanze storiche possono favorire . Senza una politica dell’unità tra “chi non ha altro da perdere le proprie catene” non c’è speranza che si determini nulla di positivo sul terreno non dico dell’unità d’azione ma nemmeno della semplice solidarietà. La solidarietà di classe tra gli sfruttati e gli oppressi per potersi sviluppare richiede che ci siano disponibilità alla lotta e all’organizzazione, riconoscimento del nemico comune, perseguimento di obiettivi unificanti, insomma di tutto ciò che fa sentire la necessità di stringere rapporti di fratellanza fra chi si trova nella stessa barca. Ma se questo terreno non si determina succede che le classi dominate diventano strumento di logiche estranee a percorsi di emancipazione, vittime quindi di politiche che riescono a cogliere questi umori per orientarli però su posizioni reazionarie. Di esempi storici ce ne sono tanti, i fascismi hanno avuto questa caratterizzazione, ma, per rimanere ai nostri giorni e in Italia in particolare, non è oggi il fascismo ad avere questa capacità di aggregazione popolare su base ideologica capitalistica bensì il leghismo. Il leghismo nasce nel Nord d’Italia ma i suoi miasmi si sono diffusi come metastasi in tutto il Paese. Il leghismo utilizza un linguaggio semplice, povero, rozzo, ma che riesce a far presa sui ceti popolari perché intercetta le loro paure. Oggi le campagne leghiste tuonano in modo ossessivo e truculento contro gli immigrati, connotandosi in particolare di antiislamismo: manifestazioni contro l’apertura di moschee con tanto di ‘porchettate’ ed addirittura contro la stessa pratica del culto, chiusura di centri islamici e di scuole, divieto all’esercizio di attività commerciali, ‘bianchi natali’ e porcate varie. Purtroppo, in mancanza di un’autonomia politica delle classi lavoratrici, questa impostazione paga sul piano del consenso, crea ideologia, crea i presupposti della liceità di provvedimenti a forte contenuto discriminatorio contro gli immigrati. I fatti di Rosarno non sono figli della bestialità calabrese, sono figli di un clima generale che ammorba tutto il territorio nazionale (per rimanere in Italia). Essi dimostrano che il leghismo va oltre la Lega, è divenuto movimento che attraversa l’intero Paese da nord a sud e viceversa. Per ritornare al già citato caso Ponticelli basterebbe rileggere l’infame manifesto dell’allora DS per capire che linguaggio e cultura sono le stesse (in questi giorni nel quartiere Quadraro di Roma campeggia un lurido manifesto a caratteri cubitali: «Finalmente sgomberato il campo nomadi di via degli Angeli!»… firmato PD).
Si tratta allora di capire che se episodi di questo tipo si ripetono è perché in concomitanza dell’acuirsi della crisi economica e della mancanza di prospettive interne a questo sistema il colpevole bisogna cercarlo ed individuarlo in un soggetto che per definizione è estraneo, contro il quale è facile creare compattamento. Ma questo accade perché all’oggi non ci sono forze sociali e politiche in grado di orientare diversamente gli umori delle masse. Orientamento che non richiede solo buone intenzioni e belle parole ma concrete indicazioni delle responsabilità sociali della crisi, denuncia delle politiche di classe tese a sostenere gli interessi delle concentrazioni di potere capitalistico, abbandono di qualsiasi politica tesa a migliorare – illusoriamente – il sistema, denuncia delle politiche di intervento militare (Iraq, Afghanistan, Honduras, Iran…), costruzione di legami forti tra i vari settori colpiti dalla crisi contro le tendenze al “si salvi chi può”, proposizione di orientamenti culturali e valoriali anticapitalistici in grado di contrastare la furia nichilistico-dissolutirice del turbo-capitalismo. Insomma, un intervento a tutto campo – che non si limiti al solo piano della pur necessaria lotta di difesa sindacale – che sappia investire l’insieme dei rapporti sociali capitalistici. Ma per far ciò serve dotarsi di una politica anticapitalista senza della quale il realismo porta alla pratica al ribasso della ricerca del meno peggio in una spirale inarrestabile che conduce di capitolazione in capitolazione a dismettere non tanto qualsiasi riferimento al comunismo ma l’idea stessa della trasformazione sociale. Non si capirebbe altrimenti la fortuna che incontra negli ambienti di sinistra il regolismo giustizialista dipietrista e travaglino.
Riprendo un mio intervento pubblicato nel blog di “Comunismo e Comunità”[7] in risposta ad un breve commento di La Grassa[8] sui fatti di Rosarno. Se voglio mettere dieci persone su una cinquecento – dice La Grassa – non può che finire a scazzottate: fuor di metafora, se accogliamo troppi immigrati finisce a scazzottate. Per evitare le scazzottate per entrare in dieci in cinquecento basterebbe ricorrere ad un furgone, per le altre scazzottate differenti considerazioni dovremmo invece fare. La domanda da porsi è: «Chi vuole che questi lavoratori immigrati siano sottoposti ad uno sfruttamento bestiale e ad un’esistenza vissuta in condizione di sub-umanità?».
Più nessuno, tranne qualche imbecille (nel senso che non ha capacità di discernimento), pensa che gli immigrati facciano quei “lavori che gli italiani non vogliono fare”, questa filastrocca per tanti anni ripetuta è servita solo a favorire il lavoro immigrato nei vari comparti produttivi fuori da ogni garanzia contrattuale. È vero sicuramente che gli italiani non vogliono – e non possono, almeno per il momento – prestarsi a determinati lavori all’attuale prezzo e alle attuali condizioni. Se un padrone ha a disposizione dei lavoratori immigrati che può sottopagare e per i quali non ha obblighi contrattuali (o può facilmente derogare a essi) è difficile che si faccia scrupoli morali a metterli al suo servizio, considerando che siamo in vigenza di una legislazione che lo favorisce in quanto esercita sui migranti il ricatto del permesso di soggiorno regolato col contagocce (e sui quali le questure lucrano bei soldini in uno schifoso commercio di taglieggio-concessione). Non dimentichiamo, inoltre, che il migrante senza nemmeno permesso di soggiorno è considerato clandestino. Questa forza-lavoro a prezzi stracciati fa gola ai padroni e padroncini, favorisce nei fatti il depotenziamento della forza contrattuale dei lavoratori locali che così si trovano a dover fare i conti con una concorrenza difficilmente sostenibile. Per questo motivo ci sono tanti posti di lavoro dove l’italiano fatica ad inserirsi, nei quali è fortemente condizionato dalla sua capacità di reggere la concorrenza con il lavoro migrante che più facilmente si sottopone a ritmi di lavoro forsennati con paghe ridotte ai minimi, tanto più che i migranti spesso si adattano a vivere in condizioni improponibili per gli italiani non perché questi siano più civili ma perché diversa è la condizione che vivono.
Ricordo personale: da ragazzo spesso approfittavo delle vacanze estive per andare a fare lavori nei campi della Capitanata foggiana per la raccolta di pomodori, peperoni, melanzane, carciofi, uva, barbabietole da zucchero, finocchi. Con me c’erano tanti altri ragazzi oltre ad uomini e donne. Questa circostanza, oggi, è improponibile per il semplice fatto che c’è disponibile un esercito di migranti viaggianti nel Sud (si sposta di regione in regione al seguito dei lavori da svolgere nei campi) che vende la propria forza-lavoro nei lavori agricoli in cambio di paghe ridottissime, lavorando come ciucci, fuori da qualsiasi tutela sindacale e assicurativa, che finita la giornata torna in situazioni improponibili per noi italiani, vere e proprie bidonville dove le condizioni igieniche sono del tutto inesistenti. Sono dei ghetti (così come è definito quello di Rignano garganico) di cui spesso non si sa nulla, tranne nei casi in cui succede qualcosa o perché sono ripresi dalle camere dei Medici senza frontiera. Mi è capitato di vedere (sempre nelle campagne del foggiano) dopo il tramonto scene davvero crudeli: lavoratori stesi sull’asfalto o perché sfiniti o perché affogati nell’alcool o perché tutti e due.
In queste circostanze la presenza degli immigrati genera contraddizioni con le popolazioni locali – non stiamo parlando di certo di chi lucra da queste situazioni – e a poco servono i richiami alla tolleranza e all’accettazione del diverso perché sono armi spuntate che al più portano all’autocertificazione di antirazzismo. Chi in queste situazioni blatera irresponsabilmente di multiculturalismo[9] e cose simile non si rende conto di giocare col fuoco, è un modo sbagliato e controindicato di affrontare la questione, quasi sempre produce il rigetto di qualsiasi tentativo di impostare seriamente la questione. La primavera scorsa a Roma qualcuno ebbe la brillante idea di proporre il cambiamento di titolazione della scuola elementare “Carlo Pisacane” (bel nome per giunta) con quella del pedagogista giapponese Makiguchi. I multiculturalisti, che immaginano un mondo benettoniano, subito sposarono la proposta mentre la stragrande maggioranza del quartiere visse questa come una provocazione. Un esempio tra i tanti per spiegare come simili atteggiamenti siano controproducenti.
Il corno del problema non è allora quello di fare dell’antirazzismo e dell’antixenofobia di maniera ma provare a rovesciare l’ordine dei fattori. Come? Innanzitutto mettendo in evidenza come siano funzionali al capitalismo i flussi migratori, funzionalità dimostrata dai benefici incalcolabili derivanti dallo sfruttamento di forza-lavoro a buonissimo mercato ottenuti da tutti gli agenti dello sfruttamento in una situazione di concorrenza generalizzata che svantaggia tutti i lavoratori. È la determinazione scientifica di quella che spesso è chiamata “guerra dei poveri”.
In Annozero del 14 gennaio 2010 Travaglio, nel suo intervento L’Italia senza immigrati,[10] descrive lo scenario conseguente all’assenza di tutti gli immigrati dal Paese. Dice Travaglio: «Immaginiamo che un giorno un mattino ci svegliamo e non c’è più un extracomunitario… bambini senza tata, nonni senza badanti, classi soppresse per mancanza di bambini, mancanza di operai delle piastrelle, pomodori che marciscono, parrocchie chiuse per assenza di preti stranieri, Inter senza più giocatori, insomma la catastrofe economica». Uno scenario apocalittico. Travaglio col suo efficace intervento non fa altro che riproporre la seguente tesi: fate bene attenzione signori, siate più buoni, non esagerate nelle vostre intemperanze xenofobe, non lasciatevi prendere dalla irrazionalità, i migranti servono come il pane all’economia nazionale, per cui siate più tolleranti. Una sinfonia che si sente spesso, come a dire: va beh! lo sappiamo che cinque milioni di lavoratori immigrati creano problemi ma volete mettere i vantaggi che ne derivano? Non ci siamo, questa logica è da rigettare perché è un’esca che contiene un amo micidiale, l’accettazione dello stato di cose presenti, cioè la situazione voluta dal Capitale di concorrenza a ribasso fra tutti i lavoratori e quindi lotta intestina alla classe lavoratrice. La risposta deve essere è un’altra, deve poggiare su ben altri presupposti, essa contiene la comprensione che la situazione attuale è un preciso portato dell’azione internazionale del capitalismo. A tale proposito è interessante un’intervista[11] fatta ad Edgar Galiano, ecuadoregno, Segretario generale del Comitato Immigrati, il quale sostiene la tesi di una immigrazione come processo guidato dal Capitale e non come fenomeno spontaneo inarrestabile. L’immigrazione è un processo – e non un fenomeno, come tiene a sottolineare Galiano nella sua intervista – che non può essere interpretato alla luce degli schemi forniti dall’antirazzismo solidale. Riporto alcuni passaggi dell’intervista: «La migrazione, lo ripeto, è un processo guidato. Il lavoro nella edilizia prima era dei polacchi, poi degli albanesi, oggi è dei romeni. Se certe nazionalità vengono a svolgere uno specifico lavoro, ciò non è incidentale, bensì pianificato. Vladimir, il compagno della associazione Iliria, ha fatto uno studio su questo processo pilotato. Ad esempio, dal prossimo anno gli albanesi avranno il visto per entrare in Italia, così che possa prodursi un ricambio generazionale. Ci hanno bombardato con l’idea degli affamati che scappano: ma se gli immigrati lasciano condizioni di vita spaventose, il loro moto non è poi così spontaneo. In Italia le comunità prevalenti sono quelle marocchina, albanese, filippina, romena. Pensate ai romeni: 22000 imprese italiane operano in Romania (“dando lavoro” a 800000 persone). Con l’ingresso della Romania nell’UE, nel 2007, questa situazione è diventata a rischio: in patria i romeni prendono dalle imprese 200 euro al mese, allora per loro è meglio andare in Italia o in Spagna. Quindi, in questo caso il processo è sfuggito un po’ di mano. Le imprese italiane in Romania stanno spingendo per farli ritornare lì. E’ da questa spinta che è nata la pressione bestiale nei confronti dei romeni: la campagna mediatica, davvero massiccia, contro la comunità romena è stata determinata anche dalla volontà degli imprenditori italiani che operano in quel paese». Ancora: « Ma se possiamo fare un ulteriore passaggio, va detto che le leggi sulla immigrazione gestiscono i flussi per intervenire sulla composizione del mercato del lavoro. Le leggi sin qui varate in Italia, la Turco-Napolitano come la Bossi-Fini, sono andate in questa direzione. In questo quadro, il ricatto a determinate comunità è parte del gioco. In Italia si è assistito a campagne mirate prima contro i marocchini, poi contro gli albanesi, per arrivare all’attacco ancora in atto contro i romeni. Sono le comunità più presenti che vengono criminalizzate, per ricattare meglio un settore di manodopera. Oggi, il datore di lavoro che assume un romeno, può fargli pesare il clima pesante che c’è nei confronti della sua comunità, può fargli credere che gli sta facendo quasi un favore».
La via da seguire non è quella indicata da chi gli sta cuore la sorte dell’economia (capitalistica) della nazione per cui vede negli immigrati una risorsa strategica. Non è bestemmia dichiarare che la difesa dell’Economia Nazionale (capitalistica e imperialistica) è un feticcio che porta le classi dominate a dover accettare tutte le compatibilità di sistema. È chiaro che se si rende Sacro l’Interesse Nazionale si dovrà agire di conseguenza e quindi accettare il fatto che le proprie imprese per essere più competitive sul mercato internazionale dovranno ridurre i costi della produzione e che per poter ridurre i costi della produzione dovranno ridurre i costi del lavoro e che per poter ridurre i costi del lavoro dovranno utilizzare gli immigrati che… costano meno. Così vanno le cose così devono andare cantavano anni fa i Csi. Ecco perché il leghismo è demagogico e profondamente – strutturalmente – legato a questo sistema, non può mettere in discussione le compatibilità del capitalismo che anzi è il suo fertile terreno di coltura. Per cui quando agita la sua bandiera anti-immigrati lo fa solo per tenere questi a cuccia, che stiano buoni buoni senza creare problemi, cioè senza rivendicare diritti, insomma che stiano nella loro capanna. «La libertà della “Padania” non prevede infatti che questa sia liberata dalle basi militari straniere, che occupano il territorio usandolo per ogni tipo di traffico illegale, compreso quello degli immigrati clandestini» come si dice in un interessante intervento apparso sul blog di Comidad[12]. L’anticentralismo federativista della Lega è l’espressione del suo attaccamento centralista al capitalismo… padano. Ma non è che le altre forze non nominalmente leghiste siano migliori solo perché non arrivano agli eccessi padani! Esse sono tutt’uno con la Lega quando assumono infatti come bene primario il bene dell’impresa e dell’Economia Nazionale, anche se non si parla della Padania.
Il rifiuto della logica delle compatibilità capitalistiche è la necessaria premessa per svolgere non solo una conseguente difesa degli interessi di tutti i lavoratori ma anche, e soprattutto, l’unico modo per condurre una battaglia a tutto campo contro l’inumano modo di produzione capitalistico. L’ideologia capitalistica cerca di convincere che non ci sono alternative e che si possono ottenere dei risultati ‘positivi’ solo in periodi di vacche grasse. La mancanza oggi di una simile impostazione si coglie nell’impotenza che i lavoratori esprimono quando reagiscono agli attacchi padronali, ai licenziamenti in particolare. Gli operai di Termini Imerese (Pa), dell’Alcoa di Portovesme (Ci), dell’Adelchi di Tricase (Le), solo per citare alcuni casi, purtroppo hanno le armi spuntate quando si limitano a contestare questi provvedimenti che nascono da politiche padronali di ristrutturazioni e delocalizzazioni. Sarebbe importante in questi casi provare a prendere contatti con gli operai stranieri dei paesi dove gli impianti saranno dislocati perché si possano gettare dei ponti di solidarietà nel rifiuto delle logiche padronali che mirano alla riduzione dei costi col supersfruttamento. Ma per far questo si dovrebbe comprendere la necessità politica “sia di qua sia di là” di farla pagare cara al padrone, nel senso di rendergli la vita difficile e non permettersi di giocare sul mercato internazionale. Inutile dire che non è un punto di partenza, ma senza queste premesse di contenuto sarà davvero difficile invertire la tendenza. Le cronache spesso registrano le azioni isolate e disperate di operai che salgono sui ponteggi, sulle gru, che fanno scioperi della fame, o che arrivano finanche a togliersi la vita, come è accaduto il 31 gennaio nel bergamasco dove un operaio di trentacinque anni si è dato fuoco dopo essersi cosparso di benzina. Gli operai riescono pure ad essere invitati al festival di San Remo, raccolgono comprensione e pietà. Ma come mai quando lottano e si organizzano e lo fanno in modo determinato e secondo le modalità proprie della lotta di classe la simpatia nei loro confronti cessa di esistere? Farla pagare cara al padrone certo, ma per padrone non dobbiamo intendere solo la persona fisica, padrone sono i rapporti sociali capitalistici, sono questi che devono essere investiti della feroce critica sociale, perché se così non è al più si rimane, per quanto possano essere efficaci determinate lotte, al livello della forma che assume il modo di produzione capitalistico.
Non penso di essere uscito fuori del seminato, la questione centrale trattata in questo articolo non può risolversi rimanendo sul tema specifico. Ma per tornare a noi vediamo cosa è possibile fare per impostare politicamente la questione sulla base del quadro d’analisi fin qui sviluppato. È fondamentale che si svolga un intenso lavoro d’intervento aperto nelle situazioni a più alto rischio di conflitto tra lavoratori indigeni ed immigrati, un lavoro politico che sia in grado di sostituire nella pratica i valori sistemici razzistici e xenofobi, non con sermoni moralistici ma con l’affermazione della necessità e opportunità dell’unità da costruire nell’azione comune, nella lotta e nell’organizzazione tra tutti i lavoratori e proletari (occupati e non, migranti e non). Si tratta, quindi, di organizzare interventi nei quartieri a forte presenza di immigrati dove è alta la tensione, nei posti di lavoro a più alto tasso di immigrati, nelle scuole (in particolare nei professionali). Per rendere efficaci questi interventi si dovrà entrare nel merito delle contraddizioni e abbandonare qualsiasi idea astratta della lotta di classe che riduce il tutto alla lotta “contro i padroni”. Non perché questo non serva, anzi!, ma perché i piani sono tanti e tutti bisogna saperli affrontare. Le contraddizioni attraversano orizzontalmente tutti gli strati sociali, per cui bisogna avere la capacità di individuare sul terreno le linee di frattura tra le diversi parti, tra chi è interessato nei fatti alla difesa dell’attuale sistema e chi no, a prescindere dalla coscienza elaborata.
Dopo la rivolta di Rosarno discutevo con un compagno sul che fare nelle situazioni concrete per far capire in particolare ai giovani proletari (che spesso sono i più rabbiosi contro gli immigrati) che è loro interesse evitare di cadere nella trappola della contrapposizione e quindi della “guerra tra poveri”. Si concordava sul dare risposte forti a questi giovani arrabbiati abbandonando gli inconcludenti discorsi genericamente antirazzisti e incanalare questa rabbia nell’alveo della lotta di classe, condizione indispensabile per la maturazione di livelli di coscienza antagonista al sistema. Premesse dalle quali nasce e si sviluppa un tessuto organizzativo e comunitario dove introdurre tutte le tematiche anticapitalistiche. Ma necessario e fondamentale è affrontare le contraddizioni interne sia ai lavoratori italiani sia ai lavoratori immigrati: i lavoratori italiani devono rendersi conto della funzionalità al capitale del lavoro degli immigrati e quindi individuare in questi ultimi non la propria controparte ma degli ottimi alleati; i lavoratori immigrati, per conto loro, devono – con tutte le difficoltà che possiamo immaginare – rifiutarsi di diventare strumento di ricatto reclamando l’applicazione degli stessi diritti. «Stesso lavoro stesso salario». E se i padroni non potranno più scegliere tra i migliori offerenti sarà vita più difficile per il capitalismo… e per gli stessi razzisti.
Il sogno del capitalismo è un lavoratore che si sottomette e fatica come un cane per arricchire il padrone, che quando ‘sbaglia’ preferisce le botte piuttosto che essere cacciato, perché lui tiene figli che vogliono il pane e chi glielo dà e lui, il papà. Così come nell’atroce canzone Padrone mio del grande cantore pugliese Matteo Salvatore.
Padrone mio, ti voglio arrecchire,
padrone mio, ti voglio arrecchire,
comme nu cane i vò fatijá,
comme nu cane i vò fatijá.
E qquanno sbaglio, damme li bbotte,
e qquanno sbaglio, damme li bbotte
voglio la morte, ma nnu’ mme caccià,
voglio la morte, ma nnu’ mme caccià.
I’ tenghe li figghje che vonne lu pane,
I’ tenghe li figghje che vonne lu pane
chi cce lu daje jè lu tatà,
chi cce lu daje jè lu tatà
gennaio 2010
APPELLO degli Immigrati di Rosarno
(arrivati a Roma)
Le nostre richieste al governo
In data 31 gennaio 2010 ci siamo riuniti per costituire l’assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma. Siamo i lavoratori che sono stati obbligati a lasciare Rosarno dopo aver rivendicato i nostri diritti. (…) Vivevamo in fabbriche abbandonate, senza acqua né elettricità. Il nostro lavoro era sottopagato. Lasciavamo i luoghi dove dormivamo ogni mattina alle 6 per rientrarci solo la sera alle 20 per 25 euro che non finivano nemmeno tutti nelle nostre tasche. A volte non riuscivamo nemmeno, dopo una giornata di duro lavoro, a farci pagare. Ritornavamo con le mani vuote e il corpo piegato dalla fatica.
Eravamo bastonati, minacciati, braccati come le bestie… prelevati, qualcuno è sparito per sempre. Ci hanno sparato addosso, per gioco o per l’interesse di qualcuno. (…) Non ne potevamo più. Coloro che non erano feriti da proiettili, erano feriti nella loro dignità umana, nel loro orgoglio di esseri umani. Non potevamo più attendere un aiuto che non sarebbe mai arrivato perché siamo invisibili, non esistiamo per le autorità di questo paese. (…).
Domandiamo alle autorità di questo paese di incontrarci e di ascoltare le nostre richieste:
• domandiamo che il permesso di soggiorno concesso per motivi umanitari agli 11 africani feriti a Rosarno, sia accordato anche a tutti noi, vittime dello sfruttamento e della nostra condizione irregolare che ci ha lasciato senza lavoro, abbandonati e dimenticati per strada.
• Vogliamo che il governo di questo paese si assuma le sue responsabilità e ci garantisca la possibilità di lavorare con dignità.
1 Hic Rhodus, hic salta. O della necessità di impostare la questione dell’immigrazione oltre ogni luogo comune, in “Comunismo e Comunità” n. 0, …facciamolo questo salto! in “Comunismo e Comunità” n. 1.
2 Per una prima bibliografia ragionata consultare il sito: http://centrostudi.gruppoabele.org/?q=node/319
3 Per un’acuta analisi della situazione economica in cui si svolge la vicenda rosarnese è utile leggere l’articolo di Elisabetta della Corte e Franco Piperno, Rosarno l’alibi del razzismo e della ‘Ndrangheta, pubblicato il 24/01/10 su ilquotidianodellacalabria.it.
[4] Per una cronaca di queste violenze leggere di Alessio Magro Una caccia lunga vent’anni, in “Arance insanguinate, dossier Rosarno” Dasud, febbraio 2010.
5 Sebastiano Isaia, Rosarno, in http://cpr.splinder.com/
6 http://conflittiestrategie.splinder.com/post/22129322#more-22129322
7 Triste sì, ma non perdere la bussola! in http://cpr.splinder.com/
8 Triste, ma se continua così… in http://www.conflittiestrategie.splinder.com/?from=10
9 Su questo punto condivido pienamente Preve quando afferma che il «il cuore del problema sta nel capire che il modello multiculturale, proiezione ideologica subalterna del modello della globalizzazione neoliberale (in termini marxisti, potremmo dire che la globalizzazione neoliberale è la struttura, mentre il multiculturalismo è la sua sovrastruttura), è un nemico del dialogo interculturale e della indispensabile comunicazione fra culture. Esso infatti predetermina a priori una sorta di terreno obbligatorio preliminare laddove il dialogo fra culture è per definizione aperto ad ogni possibile esito. Si può infatti accogliere, modificare, respingere una proposta culturale, mentre invece se si postula che esiste già un multiculturalismo da cui partire questa “apertura di possibilità” non è automaticamente più possibile». Costanzo Preve, L’Uno che si nasconde dietro i Molti. Il Multirazziale, il Multireligioso, il Multietnico, il Multinazionale, il Multiculturale. Lo scenario di un inganno. Torino, maggio 2009, pubblicato in questo numero della rivista.
10 http://www.youtube.com/watch?v=f3m4rNql-L0
11 http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o16545:e1
12Comidad, Il leghista non è xenofobo con le basi Usa, http://www.comidad.org/dblog/storico.asp?s=&m=&pagina=5&ordinamento=desc