Monnezza e capitalismo: fratelli gemelli
dic 8th, 2010 | Di Antonio Catalano | Categoria: Primo Piano
Antonio Catalano
Napoli è la città associata al degrado, i cumuli di spazzatura, che fanno da sfondo come un tempo il Vesuvio col pino in primo piano, parlano superficialmente dell’indolenza di una popolazione che accetta una simile situazione. Facile pensare che si tratti di un’anomalia, partenopea appunto. Facile perché così ci si spazza la coscienza da ingombranti dubbi e interrogativi che potrebbero condurre a risposte ben più serie e concrete. «Questa è la domanda» diceva il personaggio principale del film Questioni di cuore. E qui la domanda non può che essere perché questa immondizia. Certamente cattiva amministrazione, mancanza di differenziazione e di siti adeguati per lo smaltimento dei rifiuti eccetera; rimane però il fatto che è questione non perimetrabile al territorio napoletano e campano. Sappiamo ormai bene che quella dei rifiuti è una questione generale, che guadagna le prime pagine non perché sia aumentata la coscienza ecologica ma perché i rifiuti ci sommergono, e non metaforicamente. Oltre a sporcare e degradare gli ambienti urbani e rurali i rifiuti generano problemi di enorme gravità al livello della salute del territorio, con evidente ricaduta sulla salute della collettività. Tempo fa mi occupai del caso di una grande discarica abusiva nella terra di Capitanata – in seguito all’inchiesta del giornalista Gianni Lannes – ricavata scavando nelle viscere di una fabbrica di laterizi dismessa tempo addietro. L’inchiesta portò alla luce l’incontestabile relazione fra questi rifiuti altamente tossici (ed anche radioattivi) e l’aumento dei casi di malattie tumorali nella popolazione della zona; e che questi rifiuti provenissero non da Foggia o Bari ma dalle regioni del nord-est italiano se non addirittura dalla lontana Corea.
Se nel nostro Occidente ora ce ne rendiamo conto, è solo perché le grandi discariche terrestri e marine del Sud del mondo sono ormai piene. Cerchiamo di essere razionali, e quindi seri: il problema non può ridursi alla mancanza di capacità gestionali degli enti periferici preposti all’amministrazione dello smaltimento dei rifiuti (anche se questa critica ci può stare, anzi ci sta); bisogna volare alto, rendersi conto che il difetto sta nel manico, cioè che la causa delle causa non è un modello di sviluppo ma è il modo di essere di questo sistema. L’imputato è il capitalismo, sistema per sua natura intrinseca privo di senso etico, cioè di riflessione su ciò che è bene e su ciò che è male, sistema che pone a ragione della sua stessa sopravvivenza la logica del profitto e dell’accumulazione permanente senza limite. È proprio questa assenza di limite la caratteristica fondamentale del capitalismo, una mancanza di limite che si coniuga con l’idea di libertà intesa come libertà di e non libertà per. Dove la differenza della preposizione esprime la fondamentale differenza fra il concepire la libertà come il diritto di fare tutto ciò che si vuole e libertà intesa come processo di costruzione di percorsi di emancipazione e quindi di vera libertà.
Il capitalismo è il sistema che educa al senso della libertà senza confini e senza limiti: la libertà economica, intesa come l’architrave della libertà (guai a metterla in discussione!), per cui basta avere del capitale da investire e qualsiasi produzione diventa lecita, al di là della sua utilità sociale, e naturalmente diventa lecito lo smercio di questa produzione (e se non è direttamente lecito lo diventa per vie traverse); la libertà del consumo illimitato è la libertà che direttamente ne consegue (guai a metterla in discussione!). Si scomodano schiere di intellettuali e filosofi embedded (assoldati) per spiegare e convincere che si tratta di libertà fondamentali. Produrre e, soprattutto, consumare sempre e in ogni luogo, senza interruzione e senza limitazioni, altro che giorni festivi, santificati o meno poco importa. I centri commerciali, e non solo, devono essere sempre aperti, e tutti devono sempre poter accedere al consumo liberamente. Che poi questo abbia sconquassato le abitudini sociali inserendo in esse micidiali meccanismi di flessibilizzazione e quindi di precarietà lavorativa e sociale poco importa. Perché ci si tiene tanto a garantire la libertà dell’individuo a consumare merci? Perché se no che senso avrebbe la libertà economica? Solo così si può creare il circolo virtuoso della produzione illimitata di plusvalore! Possiamo quindi affermare con il filosofo Massimo Bontempelli che «il limite non è la negazione della libertà, ma addirittura la sua condizione costitutiva; la libertà, al di fuori del limite, perde natura sua propria, che è la autodeterminazione, convertendosi in un impulso eterodiretto, cioè nel suo contrario».
Tornando ai nostri cari rifiuti, come non possiamo citare la mostruosità della Pacific Trash Vortex (Grande Chiazza di Immondizia del Pacifico)? Molti ormai sanno di questa gigantesca concentrazione di spazzatura che arriva soprattutto dagli Stati Uniti e che per una serie di correnti a spirale si concentra fra il 135° e 155° meridiano Ovest e fra il 35° e il 42° parallelo Nord (nell’Oceano Pacifico). Si estende su un diametro di circa 2500 chilometri ed è un concentrato senza eguali di spazzatura, dove l’80% è plastica. La dimensione di questo agglomerato di spazzatura è stata valutata da un minimo di settecentomila chilometri quadrati (oltre la superficie della Francia) ad un massimo di dieci milioni di chilometri quadrati (oltre la superficie degli USA); mentre il peso di questo concentrato di spazzatura va da un minimo di 3,5 a cento milioni di tonnellate. Ed ogni sopralluogo continua a mettere in evidenza come questo continente galleggiante continui a crescere. Recenti studi e avvistamenti hanno individuato il formarsi di altri agglomerati di questo tipo: a sud-est del Giappone, nel Mar dei Sargassi, a ovest delle coste del Cile e, nell’Atlantico, tra l’Argentina e il Sud Africa. L’aspetto raccapricciante è che il materiale plastico si degrada sotto l’esposizione alla luce (non è biodegradabile ma fotodegradabile) in porzioni molto piccole, fino a raggiungere la dimensione dei polimeri che la compongono. I quali polimeri galleggiano, ed essendo simili al plancton, sono preda dei molluschi che se ne cibano, portando così la plastica a percorrere la catena alimentare e raggiungere anche altre specie animali e quindi l’uomo. E di plastica se ne continua a produrre, nel mondo, oltre cento miliardi di chili all’anno.
Dovremmo a questo punto individuare come fattore preponderante della messa in circolo di plastica e rifiuti in genere i centri commerciali: questi, infatti, per poter limitare il personale (generalmente poco retribuito e poco garantito, molto spesso costretto ad accettare contratti a tempo parziale) aumentano in modo incredibile gli imballaggi fino ad arrivare a costringerci ad acquistare su ogni cento grammi di merce anche dieci grammi di plastica, cartone, vetro eccetera. I centri commerciali, realtà che hanno soppiantato i luoghi tradizionali dell’incontro e della socialità così contribuendo in modo decisivo alla trasformazione di abitudini sociali che storicamente hanno visto nella piazza il luogo per eccellenza sia dell’incontro sia della socialità; quelli che Marc Augé ha definito, insieme ad altre situazioni, come nonluoghi, cioè spazi non tradizionali dove nulla è destinato al caso: al loro interno è calcolato il numero dei decibel, dei lux (unità di misura per l’illuminamento), la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazioni. Nonluoghi che sono identici a Roma, a New York, a Singapore, a Parigi. Nonluoghi come rappresentazioni della nostra epoca, caratterizzata dalla precarietà, dalla provvisorietà, dal transito e da… un individualismo solitario.
Giusta questa critica, e senz’altro da considerare in linea con la definizione del concetto di libertà per di cui prima si scriveva. Criticare il modo in cui questo antiumano sistema – il capitalismo – determina i modi dello sfruttamento, della miseria, del degrado, dell’alienazione, non solo è giusto è necessario. Ma è illusorio, e quindi perdente, pensare che questo modo di produzione – capitalistico – possa perdere i caratteri strutturali della barbarie pensando di: proporre modelli alternativi di consumo o di sottoconsumo; trasferirsi, individualmente o per piccoli gruppi, in luoghi apparentemente fuori della piovra; rifugiarsi nell’idea astratta e consolatoria di una catastrofe liberatrice. Il capitalismo è come un vampiro che, per sopravvivere, deve nutrirsi di sangue di creature umane. Per questo è necessario che cresca, oltre alla rabbia, la capacità di mettere radicalmente in discussione (con le lotte, con l’organizzazione, con la teoria, con la politica, con la filosofia) questo infame sistema. Napoli non è, quindi, l’escrescenza malata di un corpo sano, ma l’espressione esasperata (nel nostro Primo Mondo) di una società – capitalistica – fortemente piagata da metastasi.
Per tutto questo, è giusto aderire e partecipare alla manifestazione nazionale di sabato 11 dicembre a Terzigno per la chiusura immediata e la bonifica della cava Sari e delle discariche del Vesuvio.
Caro Antonio,
fai bene ad evidenziare, in apertura del tuo intervento, che la questione della “monnezza” non è circoscrivibile al territorio campano, ma che anche questa è una questione nazionale destinata prima o poi ad esplodere, e rappresenta, in ultima analisi, un ulteriore guasto ambientale, nel contempo un problema di ordine sanitario e sociale prodotto dalle dinamiche di questo capitalismo.
Nella regione in cui vivo e lavoro, il Friuli Venezia Giulia, fin dai tempi della prima grande emergenza rifiuti che ha investito Napoli e il suo territorio, si sussurrava che se dovessero andare fuori uso uno o due inceneritori in loco, si sarebbe inevitabilmente scatenata un’emergenza simile nel nord-est.
Napoli non è affatto, come scrivi, un’escrescenza malata di un corpo fondamentalmente sano, ma una prova tangibile che questa economia è sostanzialmente, seppur informalmente e non penalmente, criminale e si confonde sempre più spesso all’economia criminale propriamente detta, cioè quella della malavita organizzata.
Impregilo e camorra non sarebbero, dunque, che facce di una stessa medaglia, ed aspetti complementari di un unico degrado etico.
Che tutto ciò può essere ricondotto allo stesso funzionamento ed alla riproduzione del capitalismo contemporaneo, esattamente come la precarizzazione dell’intera vita umana attraverso la flessibilizzazione del lavoro, è ovviamente vero, e l’unica speranza che ci rimane, per uscire da questa grottesca matrix, è che l’uomo, quale ”ente naturale generico”, non sarà mai pienamente riducibile per sua stessa natura ad un atomo disperso, che aderisce perfettamente alle logiche di questo capitalismo – come ha messo bene in evidenza Costanzo in molte sue opere – e perciò rappresenta pur sempre l’unità minima di resistenza a questo stato di cose, allo “stato di mafia” come alla falsa ed artificiale comunità capitalistica, al sistema anti-ecologico, anti-etico, anti-sociale ed in definitiva anti-umano vigente.
Saluti anticapitalisti
Eugenio Orso