La “globalizzazione”, le “piccole patrie” e le “comunità”

nov 3rd, 2010 | Di | Categoria: Dibattito Politico

di Piero Pagliani

Il dibattito che è seguito all’articolo di Lorenzo Dorato sul “marchionnismo” (Marchionne, l’Italia e il servilismo di una classe politico-sindacale), si è svolto nell’alveo del ruolo dell’imprenditore svizzero-canadese come punta di diamante di un supposto attacco “globalistico” al lavoro.

Che in Italia ci sia un feroce attacco al lavoro è fuori di dubbio. Che questo attacco sia globalistico non capisco cosa significhi.

Intanto in Cina c’è una lenta, ma costante, inversione di tendenza, ovvero verso maggior diritti per i lavoratori e maggiore sicurezza sociale. Si dirà: “Be’, quelli partivano quasi da zero”. Dubito che fossero proprio a zero, come ci è stato sempre detto, ma comunque posso concordare che molto avanti probabilmente non lo erano.

Tuttavia l’obiezione rivela una cosa su cui nessuno vuole fare i conti. Perché, sia come sia, essendo la Cina al centro della supposta “economia globalista” (qualcuno ne dubita?), di conseguenza l’attacco al lavoro non è di sicuro “globalistico”. Così come non è globale la crisi, dato che Cina, India, Turchia, Brasile e finanche il Vietnam viaggiano su aumenti del PIL che noi non ci potevamo sognare nemmeno durante il boom economico (che poi questo non significhi automaticamente un progresso nella gerarchia mondiale del valore aggiunto accaparrato, è un discorso diverso).

La stessa Fiat non è un caso “globalistico”. Il bell’articolo di Lorenzo Dorato si dimentica di accennare a “quella vocazione atlantica” della Fiat, con cui nell’omonimo articolo dell’8 giugno 2009 sul “Corriere Economia” Giulio Sapelli illustrava l’accordo tra Torino e la Chrysler.

Vocazione atlantica”, per dirla in termini più brutali e spicci, significa “rappresentanza di interessi transnazionali che avvantaggiano gli Stati Uniti”. Perché se no Obama si sarebbe speso personalmente e a fondo per far spuntare quell’accordo a Marchionne? Per gli operai Fiat? Per gli operai della Chrysler? Ma chi è? Babbo Natale? E per quale motivo Epifani si era così arrabbiato con Berlusconi perché non sosteneva politicamente Marchionne nelle trattative? Non lo capiva come sarebbe andata a finire per gli operai della “corporation” Fiat? Io non so nemmeno se abbia fatto lo sforzo per capirlo. Mi è più facile pensare che anche Epifani abbia una “vocazione atlantica”. D’altronde la sua parte politica di riferimento quella vocazione ce l’ha avuta fino a farci fare una guerra incostituzionale contro la Serbia.

Tornando a noi, devo allora dire che a me i termini “organi della mondializzazione” e “comando globalista” lasciano molto perplesso.

Io sono convinto che stiamo assistendo alla fase terminale (che può essere anche lunga) di una crisi sistemica che, come tutte le crisi sistemiche, ristrutturerà il capitalismo sia nel suo funzionamento come modo di produzione (compresi quindi i rapporti sociali, o meglio le varie implementazioni, diciamo così, del rapporto sociale capitalistico), sia nei rapporti di potenza tra le diverse società, o blocchi di società, capitalistiche.

Per ora non vedo nessun “organo della mondializzazione” e nessun “potere globalista”, bensì poteri e organi che confliggono tra di loro, si alleano, si tradiscono, si allontanano, si riavvicinano. Sia poteri e organi economici e finanziari, sia poteri politico-territoriali. In una varietà di combinazioni.

Se da questo scontro nascerà un nuovo ordine mondiale capitalistico o una permanente anarchia capitalistica, o infine una società in qualche modo comunista, io ora non lo so e sfido chiunque a dichiarare di saperlo. I tempi non sono ancora maturi per azzardare ipotesi. D’altra parte dopo il crollo di Wall Street del 1929 solo un matto avrebbe potuto affermare che tempo 15 anni gli Stati Uniti sarebbero diventati i padroni del mondo. Invece sarebbe stato uno straordinario profeta. E io straordinario profeta non lo sono.

Detto incidentalmente, è impressionante come tutti, a destra come a sinistra, non riflettano un secondo sul problema posto da quel chiaro esempio dell’impossibilità di prevedere anche solo i tempi brevi e medi, impossibilità che da sola fa piazza pulita di ogni economicismo e di ogni determinismo storicistico. Nessuno che dica mai: “Caspita, è vero. Da quando gli USA sembravano economicamente spacciati a quando sono diventati la più grande potenza mondiale sono passati solo 15 anni. Facciamoci un po’ mente locale. Non è che finora ci è sfuggito qualcosa?”.

Sull’esistenza o meno di un “potere globalista” e di “organi della mondializzazione” è quindi assolutamente necessario arrivare ad una convinzione condivisa. Le varie componenti della sinistra anticapitalistica (indichiamola per il momento con questo nome) devono aprire un dibattito serio su questo punto e non girarci intorno con un colpo al cerchio (ad esempio “l’impero descritto da Negri e Hardt non esiste”) e uno alla botte (ad esempio “questa è la – o una – crisi del capitale” – che quindi deve essere la crisi di un qualcosa di diffuso, uniforme, omogeneo: globale, per l’appunto).

Ancora, dobbiamo chiarirci se siamo davvero in presenza di un “capitalismo assoluto”, per usare un termine di Costanzo Preve. Non rinnovo qua i motivi per cui io sono un po’ restio a una visione “stadiale” del capitalismo (forse sarà anche per via delle concenti sconfitte che i comunisti hanno avuto dopo che era stata proclamata la “fase suprema” del capitalismo). Accenno a questo punto perché è connesso a quello precedente ed è un’affermazione impegnativa, con molte conseguenze. Ad esempio quella di poter intravedere nel concetto di “comunità” ciò che era sintetizzato nel concetto di “classe” meno ciò che non è andato liscio negli esperimenti falliti di socialismo (non si sta parlando di “tradimenti”, di “infiltrazioni” o di “partito usurpatore della classe”, ma di fattori reali che si sono rivelati negativi).

Visto che si è toccato il tema devo dire en passant che io capisco e in larga parte condivido la pars destruens di Costanzo Preve, ovvero l’analisi di ciò che non ha funzionato, ma non riesco ad afferrare la pars construens, ovvero il concetto di “comunità” e di “comunitarismo” se non come, detto in termini semplificati, il contrario di ciò che non è andato liscio. Alla fine mi sembra che tramite il richiamo alla filosofia classica greca si arrivi all’elogio del corrispondente modo di produzione pre-ellenistico di piccoli produttori indipendenti, rispettosi del metron, della misura. Quindi, alla fin fine, siamo di nuovo ai liberi produttori associati di Marx non funzionalizzati alla valorizzazione senza fine. Ovvero siamo daccapo a quel poco di descrizione che Marx ha fatto della società comunista. Non che me ne dispiaccia. Io quel poco ancora me lo tengo stretto. Ma non basta.

Può essere colpa mia che non capisco. Sicuramente non è colpa di Costanzo Preve. Per lo meno lui un tentativo di non rimanere nella palude della sconfitta storica materiale e teorica del comunismo l’ha fatto. Ed è un tentativo egregio, uno dei tasselli di un puzzle che mi ha permesso di capire un po’ di più, di aprire una delle lucine che mi permettono con molta fatica di farmi strada nel buio senza sbattere troppo il naso, specialmente su ostacoli ripetuti ma non risaputi.

Tuttavia lo sforzo per uscire dalla palude, anzi dalle sabbie mobili, è improbo e non spetta ad una sola persona. Men che meno in assenza di un movimento concreto (non uso il termine “reale” perché ha generato confusioni nel marxismo).

Bisogna poi capire – e sto parlando di tutta la sinistra anticapitalistica – se il rimando di ogni questione ad istanze sovranazionali (ad esempio quelle europee) non si traduca alla fine nell’accettazione di un terreno molto sfavorevole alle classi subalterne, dato che esse sono quasi per definizione ancorate ad un territorio nazionale e da esso traggono la poco o molta forza che hanno, laddove il capitale trae la sua forza dall’essere solo debolmente legato ad un territorio nazionale, tranne durante le fasi terminali delle crisi sistemiche, quando alcuni poteri territoriali – in specie quello del Paese dominante e dei suoi competitor, storicamente hanno messo in piedi meccanismi per controllare il capitale.

Non è che mentre qualcuno interessatamente addita alle classi subalterne istanze istituzionali vaghe, “sempre più in là” e sulle quali le lotte possono avere solo una minima incidenza, nel concreto operino forze ed interessi i cui rapporti con i vari poteri territoriali potrebbero essere ben identificati, con ciò permettendo di concentrare lo scontro verso istanze raggiungibili e sensibili?

Non sapere più “con chi pigliarsela” e non sapere più da dove emanano le decisioni, ha portato alla metamorfosi di questi anni della “questione nazionale” in tante “questioni locali”, dove ognuno si inventa una piccola patria e i suoi nemici. Col termine “piccola patria” non mi riferisco necessariamente all’estensione, ma posso riferirmi anche a modi mistificati di intendere uno spazio nazionale, ad esempio come spazio mitico e non come il precipitato di interessi politici ed economici territorializzati del capitale.

Non è un caso, ad esempio, che la cosiddetta “globalizzazione” abbia indotto in India un aumento stupefacente dei consensi per il BJP, il partito nazionale indù, che a livello simbolico traduce null’altro che la richiesta di protezione al familiare panteon nazionale, a partire dal dio Ram, contro un remoto e distruttivo dio straniero chiamato “mercato mondiale”. Allo stesso modo abbiamo avuto il successo impensabile della Lega col suo corredo simbolico con a capo l’esilarante “dio Po”. E’ lo stesso fenomeno in dimensione non più asiatica ma europea (Marx, da qual genio che era, aveva capito che l’India era un’Italia di dimensioni asiatiche).

Per fortuna, della centralità di una “questione nazionale” sono ormai in molti a iniziare a capire l’importanza, nella sinistra anticapitalistica. D’altra parte detta questione è il duale di una qualsiasi concezione dell’imperialismo ed è sempre stata una questione tradizionale per le forze comuniste, et pour cause. Una questione complessa, difficile, specialmente in Paesi sub-dominanti come il nostro, laddove nei Paesi dominati o non-dominanti può invece far tutt’uno con la questione di classe eventualmente combinata con quella di comunità emarginate e aggredite dallo sviluppo capitalistico.

Ma nonostante la sua complessità e la sua delicatezza, se non ce ne facciamo carico accade una semplicissima cosa: la lasciamo alle mercé di risposte reazionarie. E’ già successo e già sta succedendo. Si guardi, per l’appunto, alla Lega, che è forse ciò che attualmente in Italia meglio si approssima al fascismo; un fascismo strutturato su una nazione fittizia, la Padania. Il leghismo è un mini-nazionalismo xenofobo e corporativistico (e infatti la Lega è votata anche dalle classi lavoratrici), con tanto di simbologie neo-pagane che nonostante l’ilarità che possono suscitare alla fin fine danno risultati politici netti superiori a quelli delle reti Mediaset, e di Minzolini ed Emilio Fede messi insieme. Un nazionalismo xenofobo e corporativistico che si è ritagliato un ottimo campo d’azione, una “piccola patria” nata sulla carta, ricca e facilmente definibile in base all’esclusione e al PIL pro capite. Un capolavoro politico costruito da un personaggio intellettualmente primitivo così come lo fu, in grande, il nazismo (la variante fascista fu diversa in un singolo punto, perché Mussolini in realtà si atteggiava a zotico, ma non lo era – tutto sommato era stato direttore dell’Avanti!).

Chi vede in Berlusconi un piccolo Duce e spera che la Lega si associ un’altra volta in un ribaltone, non ha capito ciò che sta avvenendo.

Così come coloro che presi da una disperazione indotta e fatta lievitare surrettiziamente con vari mezzi, si “alleerebbero col diavolo”, come è stato detto, per scacciare il “demonio”.

Ciò che serve è tutt’altro. Pensiero critico e autonomia politica. Dopo, solo dopo, ci si può alleare anche col diavolo. Sempre che ne valga la pena.

5 commenti
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  1. Ciao Piero come sai sono sostanzialmente d’accordo sulle tue posizioni riguardanti l’attuale fase capitalistica. Anche io ho letto una parte di Arrighi e la sua visione dei cicli istemic , integrata dai tuoi discorsi e dalla tua lezione, mi ha convinto. Mi sembra una visione più concreta, più politica, una visione che permetterebbe veramente di uscire dal “pensiero astrattoide” di una certa sinistra moderata e no che dimostra di non vivere la realtà o quanto meno di stare in una dimensione parallela.
    Il problema cui tu hai fatto cenno riguardante l’incapacità di non sapersela più con chi prendere è una questione molto complessa che ha permesso a un certo tipo di destre localiste di prendere il sopravvento e, al contempo, di far sparire le sinistre. Come mai? Questa questione l’ho un minimo affrontata anche io in un articolo sul sito (Psicopolitica) ed è, secondo me, una delle principali campi su cui si giocano le possibilità per costruire qualcosa di nuovo. Mi spiego meglio. Se la Lega e realtà analoghe per il resto del mondo hanno da proporre in opposizione alla finanziarizzazione capitalistiche e al dominio incontrastato del dio mercato il riemergere delle loro “tradizioni” localistiche in salsa postmoderna, noi cosa abbiamo da proporre? Il sol dell’avvenire? Noi non abbiamo nulla è questa la verità. Noi abbiamo solo analisi dello schifo che ci circonda, ma non creiamo immagini, non creiamoappigli abbastanza solidi. Per come la vedo io, sarebbe potuta essere la parola da riempire di contenuto, di un contenuto non astratto e fatto di formule, bensì denso di immagini dense e concrete. Le forze reazionarie ci riescono spesso e volentieri, noi invece persi nelle nostre formule non ci riusciamo. Questo è un dato di fatto incontrovertibile che ci obbliga a fare un esame di coscienza e a rivedere con occhio critico la tradizione politica da cui si proviene.
    Lo so è una sfida difficile e magari, per come l’ho spiegata ora pure incomprensibile, ma penso sia la strada da cominciare a percorrere se si vuole costruire qualcosa.
    Un saluto.

  2. Posso?
    A me la Lega non ricorda il fascismo. Dopotutto, l’unico vero fascista di rilievo in quell’organizzazione è il signor Mario Borghezio (quando parla del “mondialismo” o cita Guénon sembra una versione semplificata del prof. Mutti).
    Secondo il mio modesto parere, la Lega è davvero “una costola del movimento operaio” (Baffino da Gallipoli). èRappresenta una forza dio sinistra classica, d’antan, tradeunionistica. La Lega è appunto una lega (federazione) di liste civiche. Queste liste civiche sono tenute insieme da un ceto politico nichilista e spregiudicato proveniente, perlopiù, da sinistra (pensiamo solo a Maroni e Bossi). Queste liste (travestite da sezioni locali del partito centrale) sono popolari, e lo saranno sempre di più, perchè operano come sindacati del territorio; la funzione corporativa che svolgono, di difesa delle rivendicazioni del borgo o del circondario, incontra le istanze di un plebe impaurita, provinciale e xenofoba. La difesa delle pretese egoistiche (cioè dei diritti) di queste pseudo-comunità, politica tipicamente sindacale e sinistrorsa, garantisce alla Lega continui successi nei luoghi nei quali la presenza dello stato e più debole e le gli ex-comunisti sono meno radicati.
    è l’etica dei diritti che fa trionfare il separatismo padano. L’etica dei doveri di mazziniana memoria, se implementata, lo spazzerebbe via.

  3. Federico ha ragione: alle mitologie localistiche reazionarie finora la sinistra ha potuto contrapporre solo la contromitologia della cosiddetta “globalizzazione”. O direttamente come fenomeno positivo al quale aderire con entusiasmo (ciò che fece e fa la sinistra “ulivista”, uso questo aggettivo tanto per intenderci), o cercando invece di interpretarla come terreno favorevole alla lotta per la liberazione dal rapporto sociale capitalistico. In ogni caso si è assunto che la globalizzazione fosse effettivamente quella cosa che i padroni delle ferriere ci raccontavano e continuano a raccontarci attraverso i loro mezzi di comunicazione e il loro apparati ideologici e culturali.
    Di fronte a questi atteggiamenti disastrosi che hanno fatto piazza pulita di ogni possibilità di critica reale, direi materialistica, dell’economia politica, ecco allora che il “dio Po” diventa una divinità più confortante e familiare del dio “mercato globale”.
    Un simbolo può essere più o meno bello esteticamente, ma di per sé è privo di sostanza, e può essere persino ridicolo; tuttavia se riflette delle esigenze concrete può fare di una cosa inesistente (ad esempio la “Padania”) una realtà. E’ quanto è successo sotto i nostri occhi ridicolizzando ogni analisi che si autoproclamava “seria” ma che in realtà cantava le audaci imprese di un’altra entità inesistente: il capitale globale.
    E’ in questo vuoto di analisi, di proposte e di capacità politiche, che il sole delle Alpi ha preso il posto della falce e martello proprio laddove essa era più forte.
    Ma non perché la Lega ha seguitato una politica comunista, bensì perché essa ha ereditato quelle derive corporative, autoreferenziali e consociative del sindacato che gli anticapitalisti da tempo avevano denunciato (credo che sia questo ciò che intende Claudio). Riprova che di per sé una lotta rivendicativa, per quanto legittima possa essere, può andare in una direzione o in un’altra.
    Non c’è quindi bisogno che tutti i dirigenti della Lega siano nazi-padani come Borghezio per poter definire questo partito la migliore approssimazione attuale del fascismo. Sono abbastanza sicuro che la gran parte dei leghisti e di chi vota Lega storcerebbe il naso di fronte ad un fascio littorio o ad una svastica. Ma in realtà non c’è bisogno di nessun fascio littorio o di nessuna svastica per perseguire una politica di difesa reazionaria di una “piccola patria”. I contesti cambiano e quindi i simboli cambiano, ma anche l’apparato ideologico e persino i sentimenti che ruotano attorno ad un’idea politica. L’importante è capire se si è guidati dalla tensione verso l’emancipazione oppure, al contrario, dalla costrizione entro il rapporto sociale capitalistico.

    Piero

  4. “la Lega (…) ha ereditato quelle derive corporative, autoreferenziali e consociative del sindacato…”
    Perfetto. è esattamente ciò che intendevo. Lo si vuole chiamare fascismo? Prima bisognerebbe intendersi su cosa sia il fascismo. Una cosa comunque è certa, che Tuđman è alle porte.

  5. In sé le famose “derive” non sono sufficienti a definire il “fascismo” (ammesso che sia sensato utilizzare questo termine). Il Fascismo storico, come poi il nazismo, si caratterizzò come reazione nazionalistica al predominio mondiale dell’impero britannico e della finanza angloamericana. In realtà bisognerebbe parlare di finanziarizzazione dell’economia britannica e di posizione creditoria mondiale degli Stati Uniti.
    La soluzione fascista era ovviamente tutta interna al rapporto sociale capitalistico, ed era caratterizzata, così come lo furono tutti i governi dell’epoca (USA compresi), tranne quello britannico, dallo sforzo di riportare la finanza al servizio del credito per gli investimenti produttivi.
    La ripresa veniva trainata da investimenti pubblici nei quali un ruolo cruciale era giocato da quelli per il riarmo (fu così anche dopo la II Guerra Mondiale, quando fu più importante il riarmo dovuto all’inizio della Guerra Fredda che non il Piano Marshall per la ripresa europea.). Questo processo fu inserito in un nazionalismo colonialista e razzista e la sua attuazione fu presa in carico da un partito unico fortemente leaderistico, che era unico anche perché rappresentava sia la destra che la sinistra, ovvero era la camera di compensazione dei conflitti sociali. In ciò il corporativismo giocava un ruolo organico.
    Non è difficile rivedere questi elementi, anche se in chiave a volte farsesca, nella politica della Lega.

    Piero

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