L’avvenire di troppe illusioni
ott 28th, 2010 | Di Sebastiano Isaia | Categoria: Contributidi Sebastiano Isaia
La straordinaria forza di questa società risiede anche nel fatto che, grazie alla mostruosa forza produttiva delle sue industrie, essa ha dato praticamente a tutti, anche agli ultimi, qualcosa da perdere, non importa quanto consistente dal punto di vista economico, e quanto «artificiale» sul piano dei bisogni sia questo qualcosa. Qualcosa è sempre meglio che niente! Si tratta di vedere fino a che punto può durare questa potente illusione. Qualcosa da perdere e nessun mondo da conquistare: la «questione operaia» oggi si trova impigliata in questa tragica situazione. Come venirne fuori?
Per reagire con una certa efficacia all’ennesimo attacco che le classi dominanti e il loro Stato stanno portando alle nostre condizioni di vita e di lavoro, dobbiamo sbarazzarci urgentemente di alcune illusioni che ci condannano all’impotenza. Queste illusioni sono tanto più robuste e difficili da smantellare, in quanto hanno avuto modo di radicarsi in profondità nelle nostre teste nel corso di molti decenni, e perciò siamo ben coscienti di iniziare un discorso tutt’altro che facile da digerire. Ma in questi agitati tempi nulla è facile, e ce ne accorgiamo giorno dopo giorno. Chi cerca scorciatoie e facili soluzioni, è condannato in partenza all’insuccesso. Perciò, mentre lottiamo o mentre speriamo di poterlo fare al più presto, cerchiamo anche di capire in quale situazione il capitale ci ha cacciato con la consueta brutalità, appena mitigata dall’ipocrita ideologia del bene comune, che ci sussurra all’orecchio che «siamo tutti sulla stessa barca».
E’ vero, siamo tutti sulla stessa barca, ma a remare non sono certo le classi dominanti; non sono certo esse che rischiano di annegare nel mare in tempesta della crisi economica e a pagare il prezzo salatissimo delle inevitabili ristrutturazioni aziendali. Chi ci vende l’illusione del bene comune merita di venir vomitato per la salute della nostra mente. Soprattutto nei momenti critici i lavoratori hanno bisogno di lucidità, quella lucidità che le classi dominanti, anche manovrando con scientifica precisione tutti i mass-media, cercano di vanificare creando un clima di scontro fazioso tra opposte – e ugualmente ributtanti – tifoserie politiche (del genere berlusconiani Versus antiberlusconiani). Le pagine che seguono intendono offrire un contributo alla discussione tra coloro che si stanno ponendo seriamente il problema di come reagire a questa situazione.
Qui parliamo in modo diretto della società italiana, ma è chiaro che senza un riferimento allo spazio sociale assai più vasto che si chiama mondo ogni riflessione intorno alla nostra condizione di lavoratori italiani ha poco senso. Ormai appare sempre più chiaro come sia davvero impossibile isolare le questioni nazionali e persino locali da quel contesto più generale, e quest’ultima crisi economica è venuta a gridarci in faccia che tutto il pianeta giace sotto un unico cielo: quello capitalistico. La vera e propria invasione dei nostri mercati da parte delle merci, dei capitali e dei lavoratori cinesi non è che la manifestazione più eclatante della nuova situazione maturata nei decenni che ci stanno alle spalle. Un altro sintomo assai eloquente dei nuovi tempi è la politica dei sacrifici adottata contemporaneamente in Grecia, in Spagna, in Irlanda e in Inghilterra: ovunque la ricetta è tagliare la spesa pubblica improduttiva (per il capitale), tagliare i salari, aumentare la produttività del lavoro, innalzare l’età pensionistica.
Alla ricerca sempre più ossessiva di profitti, il capitale mondiale ha finito per abbattere ogni confine e ogni limite, sfruttando come non mai le risorse naturali e le risorse umane. L’idea che esistano soluzioni ai nostri problemi che prescindano da ciò che succede nel mondo, appartiene anch’essa al novero delle illusioni. Abbiamo visto come la Fiat ha posto il problema di Pomigliano: «o accettate questa minestra, oppure investiamo in Polonia, in Serbia, in Brasile, in India, insomma lì dove la forza lavoro costa di meno e sgobba di più. I capitali sono nostri e noi decidiamo le condizioni della produzione. Vogliamo essere padroni a casa nostra!». La Fiat ha solo rotto il ghiaccio, indicato una strada, ponendosi come sempre all’avanguardia del movimento capitalistico italiano. Quel che manca è il movimento operaio! Giustamente è stato obiettato a Marchionne, il quale aveva invitato i lavoratori ad abbandonare le vecchie idee incentrate sulla «lotta di classe», che in realtà la lotta di classe oggi la fanno i capitalisti contro i lavoratori, i quali si limitano a subirla. Ebbene occorre che i lavoratori diano un significato non banale a quest’obiezione, prendendo l’iniziativa, uscendo fuori della passività che li rende oggetti passivi di una ristrutturazione del sistema capitalistico che si annuncia di portata epocale.
La globalizzazione capitalistica rende oggi possibile un facile, rapido e poco costoso trasferimento delle produzioni e dei servizi da un posto all’altro del pianeta, e questo ci rende ricattabili come mai prima. D’altra parte, ogni nostro ripiegamento di carattere europeistico, nazionalistico o localistico non farebbe che accelerare e rendere ancora più dura la nostra disfatta, anche qualora dovessimo nell’immediato ottenerne qualche beneficio, cosa peraltro quantomeno dubbia. Se non vediamo negli immigrati altro che gentaglia che è venuta da chissà dove a «rubarci il lavoro», schiavi che si accontentano di un salario ridicolo, e che perciò ci costringono ad accettare a nostra volta salari sempre più bassi e condizioni di lavoro sempre più dure, ci mettiamo su una china che ci porta dritti a una guerra tra poveri che non può avere che un vincitore: il capitale.
Esposti alla seduzione del razzismo e dello sciovinismo sono soprattutto i lavoratori delle piccole e medie imprese, i precari e i disoccupati, ossia coloro che si trovano più esposti alle ingiurie della crisi e della globalizzazione, e che rischiano di precipitare sul lastrico senza poter contare sul «paracadute sociale» (cassa integrazione, prepensionamenti, ecc.) cui i lavoratori delle grandi aziende possono ancora ricorrere. Non sarà affatto facile far passare tra la massa dei lavoratori il massaggio che, in quanto salariati e dominati, si è davvero tutti sulla stessa barca, a prescindere dal colore della nostra pelle, dalla nostra nazionalità, cultura, religione e quant’altro. Eppure, prima capiamo questo fatto, e prima e meglio possiamo attrezzarci per la lunga lotta di resistenza che ci attende. I tragici fatti di Rosarno ci dicono a cosa può portare una rabbia priva di coscienza e di organizzazione.
Coscienza e organizzazione: è questa la sola alternativa alla marea razzista, sciovinista e localista che sale in primo luogo – e necessariamente – tra i ceti più bassi della società, mentre certamente non lo è l’ideologia «multiculturale» e «multirazziale» dei buoni di spirito, la quale dappertutto ha fatto fallimento – persino negli Stati Uniti d’America! Il capitale non ci valuta in base al colore della nostra pelle o al Dio in cui crediamo: per esso siamo solo una fonte di profitti, che conserva un valore fino a quando dà profitti. Cerchiamo almeno di imparare la lezione che il capitale c’impartisce tutti i giorni nelle fabbriche e sui mercati.
Coscienza e organizzazione: è la sola strada praticabile per resistere con efficacia alla sfida che il capitale nazionale e internazionale ci ha lanciato. Non offriamo una vecchia ricetta per affrontare nuovi problemi, visto che, al di là delle apparenze, ai lavoratori sono mancati da decenni proprio quei due requisiti che ne potrebbero fare un soggetto sociale degno di questo nome. Il punto è: quale coscienza e quale organizzazione. La consapevolezza della nostra attuale impotenza non deve deprimerci ulteriormente, ma deve anzi rappresentare il punto in cui è possibile invertire la tendenza. La realtà è brutta, e promette di diventarlo ancora di più, ma è necessario guardarla in faccia, se vogliamo incominciare a venirne fuori, magari all’inizio goffamente e tra mille contraddizioni, ma non importa: non si diventa subito adulti. Meglio sbagliare nel tentativo di sollevarci e metterci sulle gambe, che continuare a strisciare illudendoci che altri (sindacalisti, politici, demagoghi televisivi, populisti, ecc.) possano fare ciò che solo noi possiamo fare.
Il segretario nazionale della Fiom Maurizio Landini ha dichiarato alla stampa che, di questo passo, «rischiamo di diventare una Repubblica democratica fondata sullo sfruttamento del lavoro». Rischiamo? Ma l’Italia è una Repubblica democratica fondata sullo sfruttamento del lavoro, e lo è ormai da oltre sessant’anni, sotto l’egida di quella Costituzione che all’articolo 1 sancisce il dominio del capitale sul lavoro nel modo più chiaro possibile, e che per Landini e soci rappresenta il faro che illumina il cammino dei lavoratori… verso il baratro! Lavoro, in questa società, significa lavoro salariato, e quindi lavoro venduto dagli operai ai capitalisti, che lo acquistano per ricavarne dei profitti. Tutte le Repubbliche di questo mondo, da quella «Democratica» italiana a quella «Popolare» cinese, sono fondate sullo sfruttamento del lavoro, e pensare che possa esistere oggi un lavoro («materiale» o «immateriale», manuale o intellettuale) che non sia, dall’inizio alla fine, sottomesso agli interessi del capitale (pubblico o privato) è una pia illusione. Il lavoro non è un «bene comune», come ci dicono i progressisti di “destra” e di “sinistra” (vai poi a capire chi è di “destra” e chi di “sinistra”!), ma il bene più prezioso del capitale, il quale ci concede graziosamente di vivere come salariati fino a quando non diventiamo «eccedenti», «obsoleti», «improduttivi», «costosi». Quando questo accade, e periodicamente deve accadere, ci accorgiamo che valore ha il cosiddetto «capitale umano»: zero. Il «capitale umano» è semplicemente capitale, il quale non ha nulla di umano.
I lavoratori delle medie e piccole imprese tutto questo lo hanno sempre sperimentato sulla loro pelle, perché al contrario dei lavoratori delle grandi imprese, assai infiltrate dal capitalismo di Stato e assoggettate al più rigido monopolio sindacale, essi non hanno potuto beneficiare delle tutele sancite dallo Statuto dei Lavoratori, e solo in minima parte hanno goduto del cosiddetto Stato Sociale, peraltro finanziato attraverso un drenaggio fiscale sempre più pesante e insostenibile. E’ questo il prezzo che la democrazia basata sullo sfruttamento del lavoro ha pagato per mantenere saldo nelle sue mani il controllo dei lavoratori, divisi in «aristocrazia operaia» e in proletariato salariato sempre in bilico tra occupazione, precarietà e disoccupazione. Che oggi anche molti «lavoratori intellettuali» vivano questa situazione, è davvero il segno dei tempi, e anch’essi farebbero bene a scrollarsi di dosso tante illusioni circa il loro status sociale.
A proposito di status sociale: nelle ultime manifestazioni organizzate dalla Fiom-CGIL, diverse persone indossavano una maglietta che riportava questa scritta: «orgoglio operaio!». Ma orgoglio di cosa? C’è davvero di essere orgogliosi di questo “status sociale”? O non è piuttosto, quella operaia, una condizione dalla quale occorre rifuggire prima possibile? Il problema è che non è così facile scappare dalle fabbriche! Nessuno può essere orgoglioso di una vita fondata su un salario, e se lo pensiamo è solo perché ci siamo abituati ad un’esistenza davvero miserabile, soprattutto se confrontata con la ricchezza sociale che produciamo come lavoratori. La condizione operaia è una maledizione che accettiamo in mancanza di alternative, ma cerchiamo almeno di non cadere nelle trappole ideologiche «operaiste» architettate da chi ha interesse al mantenimento dello status quo.
Se poi «orgoglio operaio» significa un’altra cosa, e cioè conquista della coscienza che bisogna reagire con la lotta all’attacco padronale e statale, allora non è certo alla Fiom che dobbiamo guardare. Infatti, se i dirigenti di CISL e UIL sono «mosche sul capitale», altrettanto lo sono quelli della CGIL, come testimonia la storia passata e recente. Soprattutto quando al governo ci sono i suoi partiti di riferimento, la CGIL si mostra più collaborativa e «responsabile» degli altri due sindacati collaborazionisti. Per quanto riguarda la responsabilità aziendale e nazionale quel sindacato non è mai stato secondo a nessuno.
Sempre nelle manifestazioni cui accennavamo sopra, altri militanti della Fiom sfoggiavano una maglietta color rosso vivo con impresso il volto di Sant’Enrico Berlinguer, ossia di colui che alla fine degli anni Settanta sostenne, insieme alla Democrazia Cristiana e al Partito Socialista, una durissima politica di sacrifici e di «austerità» (per i lavoratori, beninteso). «Le vecchie classi dominanti e il vecchio personale politico – scriveva Berlinguer nel 1977 – sanno ormai di non essere più in grado di imporre sacrifici alla classe operaia e ai lavoratori italiani: i sacrifici, oggi, ce li devono chiedere, e ce li chiedono». E il suo partito li accettò, i sacrifici, eccome! I Super Collaborazionisti Lama e Berlinguer: ecco chi sono gli eroi della Fiom! Oggi questa organizzazione mostra il muso duro nel tentativo di intercettare la tensione crescente nelle fabbriche, per controllarla e usarla anche a fini squisitamente politici, ossia per volgerla contro «il governo delle destre» e la «destra» del Partito Democratico (quella che ha espresso solidarietà alle «mosche» della CISL e della UIL, per intenderci). La Fiom è un residuato bellico dei «tempi d’oro» del PCI da Togliatti a Berlinguer. Un po’ come lo è, su un altro versante, Magistratura Democratica.
Possiamo essere certi che i dirigenti della CGIL ci chiederebbero di ingoiare una pillola ancora più amara, in nome degli «interessi superiori del Paese» e di una politica di governo «finalmente onesta e normale», se al governo ci fosse, non il Cavaliere Nero di Arcore, ma l’onesto Bersani, magari coadiuvato dal manettaro Di Pietro (volevamo scrivere «fascista», ma sarebbe stato un gratuito insulto ai fascisti “seri”) e dallo statalista di ferro Nichi Vendola – e, perché no?, con l’«appoggio esterno» degli onesti Casini e Fini. Ma venir sfruttati e governati da padroni e politici onesti e normali ci cambia forse la vita? Non ci hanno preso già abbastanza in giro i populisti e i moralisti di “destra” e di “sinistra”? Massimo D’Alema lo ha detto chiaro e tondo: via Berlusconi e avanti con un «governo tecnico» sul tipo dei governi Amato e Ciampi: la GGIL sta già preparando la vaselina…
Prima abbandoniamo l’illusione che possano esserci, per noi lavoratori, governi e sindacati amici, di “destra” o di “sinistra” che siano, e prima ci mettiamo sulla sola strada che può darci forza: l’autonoma organizzazione dei nostri interessi di lavoratori, di precari, di disoccupati, di individui sempre più stressati dal capitale e dallo Stato. Dobbiamo imparare a muoverci da soli, autonomamente; magari all’inizio cadremo, commetteremo degli errori, ma almeno proveremo a schiodarci di dosso l’impotenza sociale che ci lascia in balia degli eventi.
Bertinotti ha denunciato «il radicale rovesciamento tra la dichiarazione della Repubblica fondata sul lavoro e il modello odierno basato su bassi salari, flessibilità e precarizzazione»; la verità è che proprio in grazia di quella dichiarazione, che esprime un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, il capitale può oggi rivendicare condizioni sempre più pesanti per i lavoratori. Assistiamo non al ribaltamento, ma all’attuazione della Costituzione! Solo un passatista e statalista (più o meno “rifondato”) come l’ex Presidente della Camera può rimpiangere il tempo in cui il rapporto tra «democrazia e mercato» pendeva, a suo dire, a favore della prima, mentre oggi la bilancia penderebbe decisamente dalla parte del mercato. In realtà il primato assoluto è stato sempre dalla parte del capitale, pubblico e privato, anche nel corso dei «trent’anni gloriosi» seguiti alla promulgazione della Costituzione che egli rivendica come una mitica età dell’oro. D’altra parte, Bertinotti rimpiange persino «l’esistenza dell’URSS», perché almeno «teneva in piedi la sfida planetaria tra capitale e lavoro»: ecco un bell’esempio di “amico” dei lavoratori! Come dice il noto proverbio, dei nemici mi guardi Dio…
Nel suo ultimo libro l’ex capo di Rifondazione Statalista si chiede «Chi comanda qui?»; strano che proprio lui non lo sappia. Prendiamo per buona la sua imbarazzante ignoranza e glielo diciamo con tanta modestia operaia: comanda, ormai dall’Unità d’Italia, la classe che detiene nelle sue mani il capitale e il potere politico. A SkyTG24 egli ha detto «che oggi non siamo più un governo democratico, ma siamo un governo oligarchico, cioè in cui sono pochi a comandare»: ma proprio questa è la democrazia fondata sul lavoro (salariato)! Non è mai tardi per svegliarci dall’ipnosi democratica che, come elettori, ci rende strumenti impotenti nelle mani dei partiti politici e dei loro dirigenti, «onesti» o «malfattori» che siano.
Nemmeno il Contratto Nazionale di lavoro in sé dev’essere un feticcio, un articolo di fede per i lavoratori.. Infatti, attraverso la stipula di contratti collettivi di lavoro aventi valore di legge e vincolanti per tutti i lavoratori appartenenti ad una data professione – siano essi sindacalizzati o meno – si è realizzato, di fatto, un maggior controllo sociale da parte dello Stato, il quale entra nelle controversie tra padroni e lavoratori sotto le mentite spoglie dell’arbitro «super partes». Più che una conquista dei lavoratori, il Contratto Nazionale di lavoro ha segnato un successo per le organizzazioni imprenditoriali, per i sindacati collaborazionisti e per lo Stato, in primo luogo perché ha tolto ai lavoratori di ogni singola fabbrica la gestione diretta dei loro interessi, abituandoli alla mortale prassi della delega. Delegare e scioperare a comando: questa è la prassi a cui hanno abituato i lavoratori.
Oggi che il vecchio modello contrattuale non è più funzionale ai nuovi processi produttivi e al nuovo scenario della competizione internazionale, la Confindustria preme affinché i sindacati ne prendano a loro volta atto, cosa che peraltro essi ufficiosamente già fanno, CGIL compresa. La struttura giuridica e il fondamento politico del vecchio Contratto Nazionale di lavoro, che per decenni ha garantito il monopolio sulla forza lavoro qualificata da parte del grande capitale e dei grandi sindacati (sul modello corporativo fascista), sono ormai diventati fin troppo obsoleti, come d’altra parte obsoleto è l’intero assetto politico-istituzionale del Paese.
Il contratto collettivo è soltanto un armistizio. Tutte le volte che ne hanno l’occasione i padroni stracciano i contratti collettivi per imporci condizioni a loro più favorevoli. Il rispetto religioso di questi contratti da parte dei sindacati ufficiali, ormai diventati degli organismi parastatali, si spiega con il loro interesse a non perdere un eccezionale strumento di potere politico, istituzionale ed economico. Dovrebbero essere i lavoratori a prendere l’iniziativa di rompere quei contratti tutte le volte che ciò sia nel loro esclusivo interesse.
Lo stesso sciopero generale, evocato ultimamente da Landini e blandito, con la solita prudente «responsabilità», dallo stesso Epifani, non è in sé un valido strumento di lotta, ma diventa tale solo se riempito di contenuti che danno forza all’iniziativa autonoma dei lavoratori. Lo sciopero generale di Landini e soci sembra invece avere il significato esattamente opposto: mobilitare la massa operaia ai fini di una battaglia politica intersindacale e interpartitica.
Se, oggi, difendendo il Contratto Nazionale intendiamo porre un argine all’attacco padronale, ebbene difendiamolo pure (chi può, chi lo ha, chi ci crede), ma con la consapevolezza che il nostro vero problema è come attrezzarci per resistere a quell’ attacco, e magari contrattaccare quanto prima. Se non acquistiamo questa coscienza, ogni nostra piccola vittoria non sarà che il preludio a sconfitte sempre più pesanti, sciopero dopo sciopero, arbitrato dopo arbitrato, compromesso dopo compromesso, contratto collettivo dopo contratto collettivo. E questo non in contraddizione con l’artico 1 della Santa Costituzione, ma in assoluta armonia con esso.
Bisogna spezzare il circolo vizioso della delega, costituire in ogni posto di lavoro: fabbrica per fabbrica, ufficio per ufficio, comitati d’iniziativa operaia (o come altrimenti vorremo chiamarli) nei quali le decisioni sono prese insieme dai lavoratori e da essi direttamente e autonomamente trasformate in azioni rivendicative. Occorre anche che questi comitati cerchino il contatto con i disoccupati, i precari e gli immigrati, per allargare e rafforzare la risposta dei lavoratori all’attacco padronale, e occorre anche favorire la nascita di comitati di discussione e di lotta tra i precari, i disoccupati e gli immigrati.
Insomma, si tratta di costruire rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori di tutte le “tipologie”, perché i diritti sono un fatto di forza e come tali dobbiamo incominciare a considerarli, abbandonando le vecchie illusioni legalitarie e democratiche. E’ una strada difficile da imboccare, anche per chi scrive, ma è la sola che possiamo percorre orgogliosamente e con qualche probabilità di successo. Tutto il resto è sconfitta, materiale, politica, morale, in una sola parole: esistenziale.
Ci sono diversi punti in questo contributo che necessitano, a mio modo di vedere, di un commento critico.
1) Viene detto che “l’ipocrita ideologia del bene comune [...] ci sussurra all’orecchio che siamo tutti sulla stessa barca”.
In realtà questa è una semplificazione. L’ideologia del bene comune è più raffinata e oltre a far riferimento a limiti ecologici che ci accomunerebbero tutti, si basa sull’ipotesi che sia possibile ribaltare in senso positivo alcuni meccanismi istituzionali ormai globalizzati collegandoli con istituzioni locali virtuose.
Quel che non funziona in questa ipotesi è che i rapporti sociali capitalistici spariscono, così come i rapporti di forza intra-nazionali e inter-nazionali.
2) Parlare di “vera e propria invasione dei nostri mercati da parte delle merci, dei capitali e dei lavoratori cinesi” rischia di rilanciare, sicuramente in modo inintenzionale, schemi e termini nazional-localistici (“invasione”?) di cui ad esempio è esperta la Lega, che tengono ben nascosti i meccanismi reali della cosiddetta “globalizzazione”. Purtroppo a sinistra c’è spesso un’accettazione acritica di un modo di parlare che proviene dagli avversari e che genera confusione.
3) Si afferma che “tutto il pianeta giace sotto un unico cielo: quello capitalistico” e più in là che “il capitale mondiale ha finito per abbattere ogni confine e ogni limite”. Io vorrei sapere che cosa si intende con “capitale mondiale” e “unico cielo capitalistico”. Il capitale è unico come modo di produzione e rapporto sociale, ma i capitali reali e le società capitalistiche reali sono tanti ed in conflitto tra loro. E per fortuna, altrimenti non ci sarebbe stata nemmeno la possibilità della Rivoluzione d’Ottobre
4) Si fa riferimento al “movimento operaio”. E’ un riferimento nostalgico e mitologico, perché sfido chiunque a definire cosa sia il “movimento operaio” qui e adesso nella sua concretezza sociologica, culturale e politica. Non ci si può curare una ferita secolare con unguenti magici. Non nego che possa ricostituirsi un “movimento operaio” inteso come movimento di soggetti reali con un comune denominatore nel rapporto sociale capitalistico e che si ponga in alternativa al capitalismo. Ma dal costruirlo al sognarlo pensando al primo amore ce ne passa.
5) Si afferma che “la globalizzazione capitalistica rende oggi possibile …”. L’idea che ci sia una globalizzazione capitalistica avulsa dalle forze concrete che la promuovono e che ivi entrano in conflitto è un parlare per luoghi comuni. I luoghi comuni dell’avversario all’attacco, che ha tutto l’interesse di presentare il terreno di scontro dove si svolgono i conflitti contro le classi subordinate e tra i vari segmenti di capitale, come se fosse un prodotto naturale. Non basta aggiungere l’aggettivo “capitalistico” per metterne a nudo l’innaturalità, perché finora ci sono state solo globalizzazioni capitalistiche. Ed esse non sono mai state processi spontanei di un capitalismo acefalo, che agisce secondo “leggi bronzee” sovrapersonali e sovranazionali.
6) La conseguenza dei fraintendimenti precedenti porta infine alla conclusione: “Ogni nostro ripiegamento di carattere europeistico, nazionalistico o localistico non farebbe che accelerare e rendere ancora più dura la nostra disfatta”. Con ciò si lascia il campo libero ad un’Europa antipopolare e pronta a servire gli interessi di poteri oligarchici collegati a quelli statunitensi, ad un nazionalismo reazionario fascisteggiante (la lezione della Storia e dei grandi marxisti, ma anche di Marx stesso, non è servita a nulla) e a semifascismi localistici. Per lo meno una volta c’era lo slogan “Pensare globalmente e agire localmente”. Era uno slogan con un senso, che forse varrebbe la pena rilanciare. Qui invece si vuole gettare il cuore oltre l’ostacolo puntando ad una “globalizzazione buona” contro una “globalizzazione cattiva”, per l’appunto come se essa fosse il prodotto finale delle bronzee leggi del capitalismo. C’è un secolo di sconfitte alle nostre spalle che ci dovrebbe invitare a non pensarla più così. A meno che si pensi che queste sconfitte sono dovute a “tradimenti” o al fatto che i tempi “non erano maturi” (e chi ha detto allora che adesso lo siano? qualche elucubrazione intellettuale più onirica delle altre?). O a tutte e due le cose.
Non è allora un caso che si affermi anche che “il capitale non ci valuta in base al colore della nostra pelle o al Dio in cui crediamo: per esso siamo solo una fonte di profitti, che conserva un valore fino a quando dà profitti”.
Ma manco per idea: nonostante il suo interesse per il “lavoro astratto” il “capitale” (diamo per buono questo termine collettivo) è sempre pronto ad utilizzare ogni divisione per scompaginare le fila del “lavoro”. E, viceversa, i “lavoratori” sono sempre pronti ad utilizzare ogni differenza (di razza, religione o sesso) per non sottostare al tendenziale livellamento da parte del “capitale”. Sono fatti storici e semplificare il quadro per nascondere i problemi è un procedimento dannoso.
Allo stesso modo come si fa ancora a parlare di “capitale e il suo Stato”? L’idea dello Stato come semplice “comitato d’affari della borghesia” non ha permesso di capire le disarticolazioni che negli Stati non solo dominati ma anche sub-dominanti erano indotte dalla globalizzazione. Che lo Stato (sia esso quello di un Paese dominato o sub-dominante) non sia super partes è un altro dato di fatto. Ma è un dato di fatto che non toglie il vantaggio che abbiano certe forze dedite alle razzie internazionali di risorse materiali e finanziarie a spostare il terreno di scontro, confronto e negoziazione tra le classi dominanti (per loro natura dotate di grande mobilità) e quelle dominate (che storicamente hanno una forza eminentemente territorializzata) in sfere sempre più deterritorializzate e inaccessibili: le “norme europee”, i “mercati mondiali”, la “crisi globale”.
Fantasticare di un superstato supercapitalistico e accettare il terreno di scontro più favorevole all’avversario sono, lo si voglia o no, la stessa cosa.
Piero Pagliani
Il tradizionale sciopero può avere soltanto un’efficacia limitata e temporanea, di questi tempi.
Può consentire di “bloccare sul bagnasciuga”, per un po’, il potente attacco portato dal capitalismo del terzo millennio e dai suoi ascari al Lavoro, al Welfare, alla Giustizia Sociale, limitando temporaneamente/ diluendo i danni, ma non può fermare definitivamente l’attacco.
L’attacco è reso necessario dall’applicazione delle logiche sistemiche e dai paradigmi caratterizzanti il capitalismo del terzo millennio, primo fra i quali quello della creazione del valore finanziario.
Lo sciopero, per ora, non è rivoluzionario – in Italia come nella Francia degli scioperi generali, dove la combattività e la determinazione sono maggiori – ma è un lontano discedente delle “secessioni” plebee che caratterizzarono lo scontro sociale Patres-Plebs fin dalla repubblica romana arcaica.
Come le plebi romane non volevano “abbattere il sistema” di allora, ma in quanto braccia volevano più modestamente faticare un po’ meno per nutrire lo stomaco [Mennenio Agrippa lo aveva compreso, all'inzio del V secolo a.C.], così una parte rilevante dei lavoratori che oggi scioperano lo fa con intenti “socialdemocratici”.
Il movente ridistributivo è ancora forte, perché, come giustamente rileva l’autore dell’articolo, c’è ancora qualcosa da perdere.
Ma lo strato di “ciccia” si va assotigliando rapidamente, visto l’uso strumentale della crisi per accelerare i processi di de-emancipazione e impoverimento dei subalterni [non del solo lavoro operaio].
Con il procedere della compressione, però, gli intenti degli scioperanti potranno cambiare, anche in modo radicale, e potranno diventare più efficaci le armi che questi utilizzeranno nello scontro politico-sociale..
Questa è una speranza che tutti noi, credo, condividiamo.
In generale, ha ragione Costanzo Preve quando afferma che le uniche forze/ azioni rivoluzionarie sono quelle intermodali, cioé quelle in grado di realizzare il passaggio da un modo di produzione storico ad un altro.
Detto questo saluto
Eugenio Orso