Marchionne, l’Italia e il servilismo di una classe politico-sindacale
ott 28th, 2010 | Di Lorenzo Dorato | Categoria: Primo Pianodi Lorenzo Dorato
La recente intervista a Marchionne nella trasmissione di Fabio Fazio, in cui il manager-capitalista della Fiat dichiarava impunemente che senza l’Italia la Fiat farebbe molto meglio, ha scatenato una serie di reazioni politiche di diversa natura.
La Fiat, tramite la sua dirigenza, sta perseguendo da alcuni mesi a questa parte una vera e propria strategia provocatoria per minare materialmente e culturalmente le ultime resistenze agli “inevitabili frutti delle necessità espresse dalla concorrenza internazionale”. Gli obiettivi finali naturalmente sono i seguenti:
1-tenere sotto scacco e sotto pressione lo Stato italiano, sia in termini di rapporti di forza geopolitici (qui entrano in gioco complessi intrecci internazionali che mostrano la Fiat come indiretta emanazione di interessi USA in Italia), sia in termini di assistenza al capitale (di cui la Fiat ha da sempre beneficiato e che da trent’anni a questa parte non riceve più alcuna contropartita in termini di sviluppo e occupazione).
2- infliggere un durissimo colpo alle resistenze sindacali e politiche all’operazione di smantellamento definitivo del contratto di lavoro nazionale e alla conseguente contro-rivoluzione delle relazioni industriali (retrocedendo di almeno 60 anni nei rapporti di forza tra capitale e lavoro).
Ogni singola azione e dichiarazione fatta propria dalla dirigenza del Lingotto negli ultimi tempi ha il preciso obiettivo di surriscaldare il clima sociale e politico mostrando in forme dirette la consueta arroganza del gruppo dirigenziale FIAT nel dettare legge. I toni vengono esasperati volutamente pur sapendo che susciteranno oltre a forme di protesta sociale (inevitabili) anche qualche tiepido e formale malcontento politico….tanto poi il malcontento passa, il messaggio è filtrato, la minaccia viene fatta assimilare a livello sociale e politico e si può sempre dire: “Marchionne sbaglia nei toni, ma la sostanza del suo monito in fondo è giusta”.
L’Amministratore delegato di FIAT può ostentare senza paura la propria parte di manager che mira solo al profitto, poiché non rischia nulla fintanto che esiste da un lato un asservimento totale della classe politica, dall’altro una struttura politico-istituzionale che cede spazio ad una totale ed incondizionata libertà del capitale non più soggetto ad alcun vincolo in termini contrattuali e soprattutto spaziali.
Marchionne afferma castronerie vergognose sia in tema di sussidi statali (mentendo fra l’altro quando asserisce che FIAT non ha chiesto alcun aiuto negli ultimi due anni, l’aiuto è stato semplicemente rifiutato da parte del governo) sia a proposito della presunta scarsa competitività ed efficienza della produzione italiana. Su quest’ultimo punto l’a.d. FIAT insiste con particolare accanimento, perché si tratta del centro della questione. Se l’Italia non è competitiva me ne vado ad investire altrove. Cita paesi a noi vicini come Francia e Germania, salvo poi fare espresso riferimento alla Polonia (e quindi implicitamente ai suoi ritmi di lavoro più massacranti) quando si tratta di commisurare i diversi livelli di produzione per stabilimento. Parla di non responsabilità diretta dei lavoratori nella mancanza di competitività italiana e se la prende con un generico contesto istituzionale bloccato, secondo il solito copione di luoghi comuni sull’Italia burocratizzata, gerontocratica e poco dinamica. Quello stesso contesto istituzionale che ha permesso ai profitti del gruppo FIAT di fiorire per decenni, salvando l’ azienda dalle proprie crisi periodiche causate dalle difficoltà di vendita nel mercato internazionale e dalla mancanza di investimenti nella filiera produttiva.
Alla fine i nodi vengono al pettine. Il problema non è certo la produttività del lavoro in sé o la scarsa efficienza del “sistema Italia” (orrenda espressione imprenditoriale abusata negli ultimi anni). Il problema non è l’assenteismo negli stabilimenti (qui Marchionne riporta cifre e numeri totalmente inventati, dando prova di rara sfacciataggine), né l’entità delle pause e dei ritmi di lavoro dei lavoratori italiani.
Le questioni sono solo e semplicemente due:
1- la prima è la massimizzazione del profitto dell’impresa FIAT che, secondo una normale logica capitalistica, vuole spostare (come tutte le imprese) la propria produzione dove costa meno e dove, fra le altre cose (vedi i paesi ex-socialisti) esiste altresì una contemporanea tradizione di qualità del lavoro operaio (che esiste naturalmente anche in Italia ma a costi più elevati). Nulla a che vedere con l’avidità di manager o capitalisti che eccedono. Semplice logica intrinseca del capitale.
2- la seconda questione è l’esistenza di un quadro politico-istituzionale che permette, anzi favorisce e spesso incentiva la delocalizzazione della produzione nei paesi a basso costo di manodopera. Oggi, all’interno dell’UE, e in parte anche all’esterno, delocalizzare non costa nulla così come non costa nulla riesportare poi le merci in madrepatria. Due piccioni con una fava. Si produce all’estero a basso costo e si mantiene integro il mercato interno italiano ed europeo con la sua domanda di merci (in questo caso di auto). Un quadro istituzionale di questo tipo naturalmente produce un meccanismo perverso di concorrenza al ribasso sui costi di produzione, poiché tutte le aziende perseguono lo stesso obiettivo e possono giocare con i differenziali salariali e normativi (tasse sulle società) delle diverse nazioni per competere sul prezzo mantenendo alti margini di profitto. A quel punto la strada è spianata in termini di coerenza logica interna per far leva sull’ l’argomento della competitività. Ma il problema non è la coerenza logica interna, bensì la cornice istituzionale e sistemica che la rende possibile e la fa apparire persino ovvia e naturale.
E così con la scusa della competitività e della naturale ricerca del massimo profitto in un contesto di imprese in concorrenza tra loro, si può procedere allo smantellamento dei fondamenti del diritto del lavoro delle nazioni europee in cui il compromesso tra capitale e lavoro aveva raggiunto (grazie anche a decenni di lotte sociali) i livelli più alti. Con la stessa scusa si smantella lo Stato Sociale e si riducono i salari diretti e indiretti (secondo una tendenza ormai più che ventennale).
Alla luce di queste considerazioni le reazioni degli esponenti politici italiani appaiono particolarmente grottesche. Da un lato si hanno gli svergognati apologeti di Marchionne e delle sue verità sulla non competitività dell’Italia: tra di essi Casini e l’incredibile sindacalista giallo Bonanni che ormai non rinuncia a nessuna occasione per ribadire la sua totale adesione al massacro sociale in atto. Dall’altro lato si hanno timidi rimproveri alle esuberanze dell’A.D. Fiat che naturalmente non vanno a scalfire né le intenzione né la capacità ricattatoria dell’azienda torinese. E non le vanno a scalfire perché nessuno osa parlare del problema politico che rende possibile alla FIAT di tenere sotto scacco i governi (ieri con i sussidi senza contropartita sociale-occupazionale, oggi ancora con i sussidi e in più con la minaccia permanente di una delocalizzazione a costo zero).
E così l’ineffabile Marchionne, agente del capitalismo italiano delle industrie decotte, continua a portare avanti la sua strategia “terroristica”, ottenendo insieme due obiettivi:
1- nuovi soldi da spremere ai cittadini contribuenti.
2- fungere da punta di lancia, boicottando persino la stessa unità confindustriale, dell’attacco frontale al diritto del lavoro. Il problema, e Marchionne lo sa benissimo, non sono i dieci minuti di pausa nello stabilimento di Pomigliano (cavillo su cui la propaganda insiste per mostrare la presunta testardaggine della FIOM), ma è l’insieme di un accordo, come quello di Pomigliano, che oltre a risultare complessivamente gravoso per i lavoratori, deroga pesantemente al contratto collettivo nazionale creando così un pericolosissimo precedente che potrà essere usato per sconvolgere i cardini delle relazioni industriali in Italia.
Le proteste di politici che reclamano una maggior prudenza di linguaggio, ma che concordano con Marchionne sui fondamentali della sua strategia, oltre a non servire a nulla, non fanno altro che mostrare il grado di ipocrisia e insieme di debolezza e viltà della classe politica italiana.
La parola d’ordine comune è quella di “modernizzare il paese” che Sacconi, Tremonti, condividono con il loro colleghi dell’opposizione parlamentare (dal Pd, all’Udc, passando per l’Idv) e con la dirigenza Confindustriale. Si tratta del trampolino di lancio ideologico per imporre una nuova configurazione dei rapporti sociali che, facendo leva anche sull’atomismo individualistico (come orizzonte culturale), elimini di fatto ogni forma di compromesso politico tra la parte più debole (e produttiva) della società e le oligarchie capitalistiche.
Sia benvenuta, dunque, ogni resistenza alla modernizzazione capitalistica. La condizione affinché tale resistenza (oggi espressa ad esempio almeno parzialmente dal sindacato FIOM al di là di tutti i propri limiti) diventi produttiva e coerente è che si riempia di contenuti politici e non puramente rivendicativi.
Marchionne è forse definibile un manager – espressione degli interessi della “rendita finanziaria” – ma non un leader.
Marchionne non è neppure un imprenditore in senso schumpeteriano.
Come precisano tutti i manuali che contengono l’abc del management, manager è colui “che sa fare le cose”, mentre il leader, la guida, è colui che riesce a far fare agli altri le cose che si vorrebbe facciano, gadagnandosi la loro stima e il loro rispetto.
Se il manager è imposto – nel caso di Marchionne dai grandi rentiers globalisti – il leader deve essere riconosciuto come tale e accettato da chi lo segue.
Il manager si deve sopportare, come imposizione dell’onnipotente Proprietà Privata, ma il leader si deve accettare come tale, altrimenti tale non è.
L’imprenditore schumpeteriano era una sorta di “eroe moderno” [intendendo con questa espressione "eroe capitalistico"] dotato di immaginazione, creatività e disposto al rischio.
Prendiamo pure per buono che sono effettivamente esistiti alcuni imprenditori con queste caratteristiche.
A Marchionne non servono più di tanto immaginazione, creatività, coraggio per affrontare il rischio.
Piuttosto è più produttivo, per lui, mentire – i 20 miliardi da investire in Italia in tre anni, la Fiat se se ne andrà dall’Italia ripagherà tutti i debiti con lo stato italiano, abbiamo restitito i soldi ricevuti, eccetera – o minacciare i più deboli.
Marchionne usa spesso l’arma del ricatto perché questo capitalismo, ormai, vive di ricatti.
Marchionne deve creare valore finanziario per l’azionista, non necessariamente “scoprire nuovi mercati” [le terre vergini di cui il capitale è sempre stato alla ricerca], suscitare nuovi bisogni, lanciare pionieristicamente prodotti mai visti prima …
Marchionne non è quindi né un leader né un imprenditore ardimentoso/ “eroe capitalistico” [in senso schumpeteriano, sia chiaro], ma un mero agente strategico del capitale ultimo, nel senso previano del termine, pur ad un alto livello di responsabilità e decisione.
Menzogne, minacce e ricatti fanno parte del suo repertorio, e lui sa di non essere troppo difficilmente sostituibile, essendo – appunto – un agente strategico, espressione che suggerisce spersonalizzazione, intercambiabilità.
Marchionne non è Beneduce, non è Valletta, non è Mattei … e tantomeno Ford.
Da un momento all’altro la proprietà potrebbe rimuoverlo, e lui lo sa.
Guadagna molto, quasi cinque milioni di euro l’anno, circa quattrocento volte un operaio italiano, ma sono pur sempre i lavoratori che producono.
Marchionne è un Ad di un grande gruppo globalista, carica che equivale oggi a quella di primo ministro, ma sa bene di non essere un Capo e di non essere un “eroe”.
Lui sa bene ciò che è … ed anche noi lo sappiamo.
Che vada a farsi fottere!
[Scusate ...]
Saluti
Eugenio Orso
Che vada a farsi fottere è più che legittimo affermarlo, caro Eugenio, anzi è poco! Poi rimane il fatto che questo signore può permettersi di dire e fare tutto ciò che fa e dice perché se lo può permettere, e non tanto perché trova una classe politica del tutto compiacente o, se non così, del tutto subordinata agli interessi di cui questo signore è espressione. E’ sempre più all’ordine del giorno la necessità che si cominci a delineare a livello non di piccoli gruppi una capacità politica radicalmente anticapitalistica. Fottendosene di qualsiasi discorso sulle compatibilità, sia esse globali siano esse interne.
X il compagno Catalano
Possiamo sollevare, a questo punto, questioni di grande rilievo sia pur in modo sintetico/ schematico.
1) Lo schema di potere globalista, con il quale dobbiamo fare i conti quantomeno in occidente, a mio sommesso avviso funziona su tre livelli principali:
I] Livello strategico-politico massimo [Strategic Global class]. Il cuore della decisione sulle grandi materie, quali la distribuzione del prodotto, le questioni geopolitiche, l’ambiente.
II] Esecuzione delle poltiche decise nell’”empireo” da parte degli organi della mondializzazione [vecchi e nuovi]. Questo secondo livello è incaricato/ responsabile della “gestione”.
III] Livello dei vecchi stati nazionali/ federazioni quale cinghia di trasmissione finale [verso il basso] del comando globalista filtrato attraverso il secondo livello.
Sotto il terzo vi sono poi altri livelli inferiori – ancor più distanti dal vero centro decisionale, ma non per questo privi di importanza politica, economica e sociale – quale ad esempio su un piano squisitamente territoriale quello regionale [regioni, macroregioni, lander di stati federali, eccetera, con vari gradi di autonomia a secondo degli ordinamentio vigenti], poi quello sindacale, delle associazioni, delle corporazioni, eccetera.
2) La costituzione del Movimento [non certo di piccoli gruppi frutto dell'atomizzazione e della frnatumazione del quadro sociale!] deve svilupparsi in parallelo con una Nuova Critica dell’Economia Politica.
A riguardo della Nuoca Critica, riporto di seguito un breve passaggio tratto da un mio scritto recente:
“Se il capitalismo contemporaneo è giunto alla piena coscienza della propria forza, al punto di sciogliere i vincoli della vecchia società demolendo nel contempo le costruzioni culturali pregresse non più funzionali ai suoi scopi, ed edifica i nuovi immaginari sul grado più alto di autofondazione dell’economia relativizzando tutto il resto, allora la cosiddetta teoria dell’economia politica liberale, stratificatasi nel corso di oltre due secoli, acquista una rilevanza particolare, rivela il suo ruolo ideologico ed occupa una posizione centrale nel nuovo ordine, sottratta completamente al “controllo” della Filosofia, della Religione, dell’Etica, della Politica.
Per demistificare l’economia politica critica del tutto interna a questo capitalismo [dalla teoria classica ai neokeynesiani in apparente ripresa, fino alle nuove “star” Krugman, Attali e Stiglitz] che lo supporta pur con accenti superficialmente critici e debolmente riformatori, garantendone nei fatti la riproduzione e preservandone gli aspetti costitutivi, diventa urgente costruire una Nuova Critica dell’Economia Politica, intesa come Critica Complessiva al Capitale Ultimo ed alle sue dinamiche culturali e sociali, esattamente come ci hanno insegnato il filosofo idealista hegeliano Karl Marx dei Gründrisse e in tempi recenti il filosofo Costanzo Preve, hegeliano e libero allievo di Marx.
Negli ultimi anni, Preve è riuscito a cogliere l’inesistenza, ipocritamente postulata dagli intellettuali subalterni e dagli ambienti accademici, della distinzione fra teoria economica liberista e pensiero politico liberale, sintetizzati e ridotti ad unità sostanziale in un unico apparato ideologico di domino e di legittimazione, da lui definiti con estrema chiarezza “due aspetti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio”.
Appare chiaro che operare una Nuova Critica dell’Economia Politica significa non restare confinati nel puro spazio dei rapporti economici, nell’universo artificiale e fuorviante dei meccanismi di mercato e della formazione del valore, negli anfratti microeconomici o nelle periodiche tempeste finanziarie che increspano la superficie dell’oceano capitalistico, se non si vuole rischiare di fare il gioco del Nemico principale.
Egli si muove molto agevolmente in tali spazi, anche e soprattutto quando si scatenano tempeste e perturbazioni finanziarie, essenzialmente perché è proprio questo il suo habitat, nonché una sorgente irrinunciabile del suo potere e una sorta di “deposito di armi” utilizzate concretamente contro di noi, come nel caso dei meccanismi del Libero Mercato che sfavoriscono e impoveriscono sempre e soltanto i subordinati, oppure simbolicamente per piegare le resistenze culturali, come nel caso della diffusione di modelli di vita precari, basati sulla presunta dinamicità di una “società di mercato” competitiva, tecnologicamente evoluta e con i costi sociali da ridurre rigorosamente al minimo.”
Per ora, credo che possa bastare, ma ne riparleremo.
Saluti
Eugenio Orso
La tua descrizione degli spazi di dominio, condivisibile sotto certi aspetti, trova però un importante punto debole nella definizione di “potere globalista”. Di cosa si tratta esattamente? Siamo certi che esista un potere globalista unificato che gestisce gli affari capitalistici del mondo? Io credo proprio che non sia così e che, anzi, parlare di potere globalista sia assai rischioso, poiché si oscura il fatto che il potere politico-economico-militare e financo culturale fa capo a precisi spazi politici territoriali, Stati-nazione dominanti, in primis gli Stati Uniti che stanno gestendo la crisi specifica del proprio ciclo egemonico.
E’ un punto importante perché rimane necessario definire senza vaghezza l’imperialismo (l’Impero mondiale di Toni Negri infatti semplicemente non esiste) e le sue case madri principali (USA in testa). Se ci si riferisce genericamente a poteri globalisti si cade nella trappola del linguaggio usato dalle stesso oligarchie per occultare (dietro l’ideologia della globalizzazione che ovviamente entrambi avverisiamo) la specifica origine politico-territoriale dell’attuale configurazione di dominio imperialistico.
La stessa questione nazionale, che è una questione centrale, laddove correttamente impostata, per una pratica progressiva di liberazione sociale, ha senso proprio perché non esiste un capitalismo unificato sotto un unico potere.
Lorenzo Dorato
X Lorenzo Dorato
Delle due l’una: c’è un equivoco, o forse non mi sono spiegato con sufficiente chiarezza … anzi, è quasi sicuramente vera la seconda.
Rimedio subito.
Io non intendevo ipotizzare una sorta di “spectre” globale capitalistica, un Trust Mondiale Globalista, o, con altri termini, una specie di cupola globale global-capitalistica, simile a quella mafiosa.
La classe globale è divisa e conflittuale, per quanto riguarda quello che io chiamo il livello strategico [poche migliaia di individui con vecchi, bambini e inattivi al seguito].
E’ divisa geograficamente fra Occidentali e Orientali e vi sono rivalità reciproche all’interno di ciascun gruppo, che non è assolutamente nomade e integralmente cosmopolita, ma è comunque legato a specifiche aree del mondo.
Il reciproco conflitto esiste ed inoltre vi sono delle differenze – fra globalisti Occidentali [Americani, Europei, eccetera] e quelli Orientali [Cinesi, Russi] – per quanto riguarda la gestione del potere e gli strumenti di dominio utilizzati.
Differenze che possono essere descritte, brevemente e semplicemente, come segue:
“Il Nuovo Capitalismo, suscitato dalla mutazione genetica ultima del liberal-liberismo, non richiede lo smantellamento del Partito Comunista Cinese, se questo rappresenta essenzialmente un “club”, sotto il pieno controllo dei globalisti locali, e nel contempo un efficace strumento di controllo sulla società e sulla struttura produttiva del paese.
Il Partito Comunista Cinese, per certi versi, è un vecchio strumento ereditato dal maoismo, che consente un controllo diretto delle strutture statuali, delle risorse naturali, della moneta, dell’apparato industriale e dell’intera società.
L’adozione paradigmatica dell’”economia socialista di mercato”, avvenuta in Cina all’inizio degli anni novanta [nel 1992, per la precisione], lo stesso anno della fine formale dell’Unione Sovietica [primo gennaio 1992] sancisce il momento formale – ma non sostanziale, perché questo è precedente – del passaggio dal comunismo maoista-confuciano-orientale della Lunga Marcia e della Rivoluzione Culturale al capitalismo mercatista in procinto di diventare egemone.
Dietro la stella rossa cinese, sopravvissuta come simulacro, vi è un sistema di comando che funziona, diverso nell’organizzazione ma non negli scopi strategici di domino, dalla catena di comando attivata dai globalisti occidentali, ed articolata su tre livelli: centri decisionali effettivi, spesso informali e costituiti in veste di club o di forum [Bilderberg, Davos, eccetera], organi della mondializzazione incaricati di gestire politiche congruenti con gli interessi della Strategic Global class [F.M.I., B.M., U.E.M., e altri], stati nazionali e federazioni che trasmettono verso il basso tali politiche, recependole a livello governativo e legislativo quale vera e propria “catena di trasmissione finale” dei diktat globalisti.”
Spero di essere stato chiaro.
Saluti
Eugenio Orso
Eugenio, in realtà sei stato chiaro fin dal principio e, fra l’altro, avendo letto il tuo libro scritto con Preve sulla nuova composizione delle classi sociali nell’attuale capitalismo, ho più o meno un’idea della concezione che nell’ultimo messaggio hai ben riesposto.
Non volevo attribuirti l’idea di un capitalismo unitario non conflittuale. Se l’ho fatto, mi scuso, perché il punto della questione in realtà è ulteriore. Ovvero, concordiamo sul fatto che il capitalismo non sia unico e mondiale, ma abbia diversi centri di potere territoriali e politici tra di loro confliggenti (e all’interno di ogni centro vi è un ulteriore conflitto permamente tra capitali). Tuttavia il problema risiede nella definizione stessa di globalizzazione. Tale fenomeno non è, a mio avviso, il frutto di un’espansione generale e generica del capitalismo, ma è una precisa strategia di espansionismo (in vista dell’arginamento di una crisi che perdura dal 1971) del capitalismo nord-americano che a sua volta ha guidato e tutt’ora guida il ciclo di accumulazione capitalistica su scala planetaria. E’ un punto di distinzione molto importante, perché può implicare strategie e scelte politiche diverse.
Altri capitalismi si sviluppano parallelamento a quello egemonico con forme e strutture nuove e forse un giorno assumeranno il controllo di nuovi cicli di accumulazione (ma ancora non possiamo dirlo). Sicuramente stiamo assistendo ad una fase di aumento della concorrenza tra formazione capitalistiche agguerrite in uno spazio mondiale sempre più policentrico.
Per quanto riguarda la Cina, onestamente ho difficoltà ad esprimermi con punti fermi, perché è un tema che, ahimé, conosco troppo poco. In ogni caso la tua veloce disamina mi stimola la riflessione su questo specifico argomento.
Un saluto
Lorenzo Dorato