Società e Movimento
ott 25th, 2010 | Di Eugenio Orso | Categoria: Dibattito Politicodi Eugenio Orso
La nostra è già, irreversibilmente, una società di mercato prodotta dalle dinamiche neoliberiste e dai processi di globalizzazione, oppure la transizione dai vecchi assetti sociali ai nuovi è ancora in corso e il periodo che stiamo vivendo è un tormentato e in incerto interregno, in cui l’affermazione del nuovo ordine può ancora essere messa seriamente in discussione, attraverso la resistenza propositiva della classe povera del terzo millennio?
Per quanto non sia facile rispondere a questa domanda, chi scrive propende con decisione per la seconda ipotesi, ed infatti le resistenze, gli scioperi contro la rischiavizzazione del lavoro, i blocchi nei rifornimenti energetici, le conseguenti repressioni, si estendono dalla Grecia alla Francia, dalla Spagna all’Italia, con un’estensione delle proteste fino in Nuova Zelanda.
E’ ancora d’attualità ciò che disse, a suo tempo, Karl Marx, e cioè che «la crisi farà entrare la rivoluzione anche nelle teste di legno», perché esistono dei limiti fisici e psicologici alla compressione in termini materiali dei subordinati e alla loro manipolazione, delle soglie invalicabili di esproprio che neppure questo capitalismo, il quale sta raggiungendo l’apice della propria potenza e il culmine della propria trasformazione storica, potrà superare restando indenne.
Ed è di una certa attualità, particolarmente per quando riguarda il caso italiano, ciò che scrisse nel 1922 su Ordine Nuovo Amedeo Bordiga: «Quando si dimostrerà che anche l’esperienza di un governo di sinistra della macchina statale borghese non fa fare un passo alla soluzione di quei problemi vitali per i lavoratori, allora l’azione di grandi masse sulla rete di lavoro e di organizzazione da noi tracciata, si svolgerà efficacemente sulle vie rivoluzionarie [...]»
Se ad Atene si occupa l’Acropoli, simbolo remoto di tutta la civiltà occidentale, nella Francia di Sarközy si bloccano i rifornimenti di carburante, minacciando di lasciare l’intero paese all’asciutto, mentre in Italia la vera opposizione politica e sociale inizia a radunarsi sotto le bandiere di un sindacato, la Fiom, ed elementi insurrezionali si insinuano nella protesta di popolo, alle pendici del Vesuvio e nei paesi prossimi al parco naturale, contro le discariche di rifiuti brutalmente imposte alle comunità.
Elementi insurrezionali si manifestano in contemporanea con tentativi di organizzazione della protesta anticapitalista e di costituzione del Nuovo Movimento, ed una tendenza dissolutrice, che non lascia spazio ad alcun progetto futuro, convive con il senso di responsabilità di quanti si impegnano a creare il nuovo, partendo da quel tanto di strutture e gruppi antagonisti che ancora sopravvive.
E’ sintomatico di una situazione sociale che tende ovunque a diventare intollerabile che il giorno 16 di ottobre c’è stata in Italia la pacifica ed oceanica manifestazione di Roma indetta dalla Fiom, politica nel senso più proprio del termine e non puramente sindacale, il 19 ottobre la Francia si è fermata per lo sciopero generale contro la riforma delle pensioni, e nella stessa settimana sono scesi in campo quindicimila lavoratori neozelandesi, a molte migliaia di chilometri di distanza.
Le ostilità si sono aperte a partire dai vecchi stati nazionali, dall’Europa mediterranea fino agli angoli più remoti del cosiddetto mondo occidentale, ma per ora non c’è un coordinamento della protesta che riesce a superarne i confini e a “sincronizzare” le azioni di lotta.
Su questo punto cruciale, con riferimento al vecchio continente, sappiamo bene che l’Unione Europea non è uno spazio politico autentico, accessibile a tutti noi, ma una creatura globalista, mascherata e neppure troppo bene da unione di popoli consenzienti, la cui funzione è di imporre certe politiche agli stati nazionali e garantire, nel contempo, l’allineamento dell’Europa con i centri di potere nordamericani.
Ma sappiamo altrettanto bene che nei singoli paesi vi sono ragioni comuni di lotta antiliberista ed antiglobalista che la crisi rende sempre più evidenti, ed esiste, o esiterà in futuro, quando circostanze più drammatiche lo imporranno, una possibilità di aggregazione sopranazionale.
Il problema può essere posto nel modo seguente, partendo dal presupposto che «il nostro mondo può essere considerato come una struttura in uno spazio a infinite dimensioni, uno spazio dentro il quale noi e le nostre menti ci muoviamo come pesci nell’acqua» [Rudolf von Bitter Rucker, La quarta dimensione].
Se le soggettività antagoniste dimorano in uno spazio bidimensionale, e quindi nel piano, che rappresenta metaforicamente i singoli paesi in cui si muovono e manifestano i subordinati, ancora divisi dai confini e talora da rivalità nazionali, il Nemico si muove agilmente in uno spazio tridimensionale, e così in effetti fanno la UE, la UEM, la BCE, gli altri organi della mondializzazione come il FMI o il WTO, ma soprattutto quella classe globale che ne determina le politiche e i diktat in base ai suoi interessi “privati”.
Il Nemico ci osserva dall’alto, tiene sotto controllo gli stati nazionali e le masse di subalterni come se fossero suoi strumenti, ha capacità di intervento nello spazio inferiore, ma non lo si vede chiaramente, e quindi non si riesce a combatterlo con efficacia.
Il Nemico si muove in una dimensione superiore a quella dei resistenti-antagonisti, e sappiamo bene che uno spazio con una dimensione in più non può essere visto da chi dimora nella dimensione inferiore, ma solo descritto con l’uso di algoritmi, attraverso le formule matematiche.
E’ proprio nella dimensione superiore che hanno preso forma le politiche globalizzatrici, ed è in questo empireo che sono stati pensati e generati gli strumenti di espropriazione finanziaria.
Per tale motivo c’è una generale difficoltà nell’individuare il Nemico Principale, nel dargli un volto riconoscibile, nel tracciarne un preciso identikit, e questo a differenza di quanto accadeva nello scorso millennio, in cui il despota contro il quale si sollevava il popolo era riconoscibile e dimorava nel castello [si sapeva, in linea di massima, “dove andarlo a prendere”], mentre il capitalista-proprietario aveva un nome, un cognome e un indirizzo.
Il despota contro il quale si sollevava il popolo e il capitalista-proprietario che estorceva il classico plusvalore si muovevano anche loro sul piano a due dimensioni, essendo interni all’organizzazione statuale e legando a questa le loro fortune e il loro potere.
Superare l’angusto piano, caratterizzato dalle due dimensioni rappresentate dallo stato nazionale e dalla classe antagonista interna allo stato, vorrebbe dire accedere alla terza dimensione, definita da tre coordinate: gli organi sopranazionali della mondializzazione che dettano le politiche e le strategie per conto della nuova classe dominante, gli stati nazionali che le trasmettono al loro interno, quale catena di trasmissione finale, e la classe antagonista [europea o planetaria] che le subisce.
Se nelle due dimensioni ci si può muovere soltanto avanti/ indietro e a destra/ a sinistra, il Nemico che popola la terza dimensione ha “una marcia in più”, perché può spostarsi anche dall’alto verso il basso e viceversa, surclassando i subordinati senza che questi se ne accorgano.
Accedere alla dimensione superiore – cioè aggregare la protesta a livello europeo o addirittura planetario – significherebbe poter vedere in piena luce il vero Nemico principale ed epocale, che a quel punto avrebbe grandi difficoltà a nascondersi, come ha fatto abilmente finora suscitando nemici immaginari o secondari, e vorrebbe dire combatterlo con qualche possibilità di successo nella sua stessa dimensione.
In altre parole bisogna affrontare il Nemico nel suo spazio “superiore”, invadendolo.
La metafora dimensionale potrà sembrare a qualcuno un po’ bizzarra, e così anche il riferimento ad un matematico, musicista e scrittore di fantascienza come Rudy Rucker, ma è un tentativo di chiarire con semplicità i motivi perché sino ad ora le lotte contro la de-emancipazione neoliberista, rinchiuse entro gli angusti spazi nazionali, si sono rivelate generalmente inefficaci, non riuscendo a fermare il processo di sussunzione capitalistica di intere società e di intere aree economico-culturali nel mondo.
Per la verità, c’è stato il movimento antiglobalista che ha dato l’impressione del superamento dei confini da parte della protesta, e dell’unificazione delle sue componenti sociali, culturali e nazionali, ma tale movimento si è rivelato effimero e scarsamente efficace, più simile ad un’occasionale “onda moltitudinaria” non riconducibile ad un’unica volontà politica che ad una vera sintesi planetaria dell’antagonismo sociale.
Alla fine del primo decennio di globalizzazione spinta, con crisi economico-finanziaria incorporata, le cose sembrano essere cambiate, pur non potendo ancora osservare la tanto attesa “internazionalizzazione della protesta”.
Per ora, si procede in ordine sparso, restando all’interno dei singoli paesi e in modo del tutto indipendente dagli altri gruppi e movimenti che altrove organizzano la lotta.
In Francia un intero popolo, a partire dai lavoratori dipendenti, mostra di resistere davanti al rullo compressore della riforma delle pensioni, che altro non è se non l’ennesimo duro colpo inferto in Europa al welfare, ma lo fa in modo del tutto indipendente dall’Italia, in cui si consuma l’attacco generalizzato ai diritti dei lavoratori, e dalla Grecia soggetta alla dittatura finanziaria e monetaria degli organi sopranazionali.
Eppure esistono centrali sindacali europee e mondiali, ed esiste un’evidente convergenza di interessi non soltanto fra gli operai italiani, quelli serbi e quelli polacchi vessati dal globalista Marchionne, ma fra questi e la “parte buona” del ceto medio declassato, e addirittura fra questi ed elementi della vecchia borghesia proprietaria, il cui mondo culturale e le cui prospettive future sono state distrutte dalla globalizzazione.
Dal professore universitario precarizzato che rivendica i suoi diritti all’operaio della grande industria manifatturiera ridotto a “fattore della produzione”, dal pensionato di Terzigno, in Campania, costretto a manifestare contro le discariche di “monnezza”, al marginale che partecipa ai sommovimenti popolari in Atene, sembra di udire una sola voce che si leva contro questo capitalismo, una voce che si leva da soggettività in passato forse contrapposte, sul piano sociale come su quello politico, ma oggi tutte impegnate nella resistenza alle dinamiche ultraliberiste.
Vittime sacrificali della classe globale trionfante, abbandonati a sé stessi dai cartelli elettorali che hanno sostituito gli storici partici, dai moderni sindacati “riformisti” che li usano come merce di scambio e dalle cosiddette istituzioni, nessuno di questi gruppi ha una vera rappresentanza politica all’interno del sistema, cosa che possiamo facilmente osservare in Italia, paese in cui l’astensionismo elettorale, per decenni di dimensioni modeste, avanza ad ampie falcate fino a raggiungere [e forse a superare] i livelli storicamente riscontrati nelle democrazie anglosassoni.
Con riferimento al nostro paese, in cui il dilemma “Società e Movimento” antagonista presentato nel titolo è sembrato negli ultimi vent’anni irresolubile, in presenza di una progressiva disgregazione della società e in assenza di un Nuovo Movimento di opposizione sistemica, la data del 16 ottobre 2010, che è quella della manifestazione Fiom a Roma, assume già fin d’ora un alto valore simbolico, anzitutto in termini di aggregazione e partecipazione.
Il 16 ottobre 2010 potrà segnare per moltissimi il momento del passaggio da una situazione di passività ad una nuova situazione di reattività organizzata, e potrà rappresentare il discrimine fra la rassegnata accettazione dei modelli neoliberisti e l’insorgenza concreta della protesta nel nostro universi cives.
La Fiom diventa nella società italiana contemporanea il catalizzatore di una protesta che esce dagli steccati dell’attività sindacale, per aggredire finalmente la dimensione politica.
Aggredire la dimensione politica, per ora a livello puramente nazionale, significa porre le questioni della rappresentanza di milioni di persone marginalizzate, della loro partecipazione al processo decisionale su materie che le riguardano, nonché delle alternative ai modelli politici, sociali ed economici vigenti.
I Nemici sono il Mercato globale e la sua società, il paradigma da rifiutare è quello della creazione del valore finanziaria, azionaria e borsistica, e sul piano sociale l’avversario è la nuova classe dominante, composita e stratificata, che possiamo unificare con l’espressione di Global Class.
Sullo sfondo c’è la formazione della nuova classe povera antagonista [Pauper Class], destinata a subire i rigori del capitalismo transgenico finanziarizzato del terzo millennio.
Questa classe è costituita non soltanto da operai [New Workers, il Nuovo Lavoro Operaio], ma da altre componenti significative, come i ceti medi novecenteschi ri-plebeizzati [Midlle Class Proletariat, che esprime il lavoro intellettuale dipendente nel pubblico e nel privato], dalla “parte buona” dei cosiddetti marginali [Under Class], non collusa con la delinquenza e le attività criminali, e addirittura da rappresentanze della vecchia borghesia proprietaria, a sua volta espropriata dai globalisti.
La precarizzazione si estende dal lavoro manuale al cosiddetto ceto medio ed è sintomatica, nella formazione del “nuovo mondo” e nell’affermazione di un nuovo modo di produzione sociale, l’espropriazione della stessa borghesia, un tempo dominante e oggi “cannibalizzata” dai globalisti.
Nel contempo, il lavoro operaio oscilla fra la minaccia dell’esclusione dal processo produttivo, con o senza l’anticamera della cassa integrazione, e la crescente invisibilità in termini di istanze e rivendicazione di diritti.
Se grattiamo lo strato superficiale delle appartenenze e dei simboli, che in apparenza hanno caratterizzato e colorato la grande manifestazione di Roma del 16 di ottobre, affiorano queste nuove appartenenze e con loro un’inedita strutturazione sociale.
Sotto le sigle ed i colori di numerosi soggetti e micro-soggetti politici extraparlamentari che si definiscono comunisti, ecologisti, anti-globalisti, decriscisti, si può certo nascondere un certo nostalgismo, ma questo sempre più spesso convive con la consapevolezza che è necessario costruire, e in fretta, un nuovo soggetto politico allargato, per non mancare il possibile appuntamento con la storia.
Non si tratta, perciò, della “battaglia di retroguardia” di chi vorrebbe un ritorno al passato, né della protesta di gruppi di “estremisti” del tutto minoritari nel corpo sociale, secondo le accuse strumentali lanciate dal governo, dalla Confindustria e dai sindacati gialli, e tanto meno di un sostegno indiretto ai “morti viventi” della principale opposizione parlamentare, l’informe cartello elettorale del Pd, che aderisce alla visione neoliberista e, perciò, si è ben guardato dal partecipare alla manifestazione di Roma.
Nuova strutturazione di classe, interessi convergenti fra il lavoro operaio e quello dei ceti medi ri-plebeizzati hanno mosso, in quella circostanza, la partecipazione.
Il movente economico e ridistributivo ha avuto una grande importanza, nella decisione di aderire alla manifestazione di Roma, ma non è certo l’unico, perché il disagio è ben più ampio e profondo.
L’altro movente fondamentale è la ricerca di una rappresentanza politica, così come è posto bene in rilievo in un articolo, dal titolo Se la Fiom coinvolge il ceto medio, comparso in rete proprio in questi giorni:
«Oggi non esiste un’opposizione politica, ma non perché manchi lo spazio sociale per un’opposizione; al contrario: non viene permessa l’esistenza di un’opposizione proprio perché questa, altrimenti, avrebbe a disposizione uno spazio sociale storicamente senza precedenti per vastità.» [http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=381]
Una vera opposizione politica, in grado di esprimere alternative radicali in relazione alle politiche sociali, a quelle industriali, monetarie e finanziarie, non può esistere in una liberaldemocrazia dominata dal Partito Unico della Riproduzione Capitalistica e caratterizzata dalla politica come consumo, marketing, illusione mediatica.
E’ per questo che il Nuovo Movimento d’opposizione, nella società italiana agli albori del millennio, si costituisce fuori dei circuiti della politica liberaldemocratica, la quale lo nega e lo blandisce con ogni mezzo, applicando le tecniche del silenziamento e quelle della disinformazione mediatica, quando non si possono nascondere gli eventi, le proteste popolari, le manifestazioni di disagio diffuso.
Data la situazione con la quale dobbiamo fare i conti, in base all’analisi concreta della situazione concreta, con un piglio dal vago sapore leninista, appare chiaro che il Movimento non può che costituirsi intorno all’unico sindacato antagonista e combattivo del paese, caratterizzato da una storica militanza, mai venuta meno, e da strutture diffuse sul territorio.
Quello che per Lenin è stato il partito dei rivoluzionari di professione, quale avanguardia della Rivoluzione, catalizzatore della protesta e guida per i subalterni, nel nostro tempo potrebbe essere il Sindacato-Movimento, in cui le rivendicazioni salariali, per un’equa distribuzione del prodotto e per invertire la rotta dopo due decenni di espropriazione mercatista, si fondono con la richiesta di partecipazione al processo decisionale strategico-politico, in cui le istanze operaie si armonizzano con quelle dei ceti medi declassati, ed in generale con quelle delle altre componenti della classe povera del futuro.
Un sindacato immarcescibile quello degli operai e degli impiegati metallurgici – classe 1901 e perciò ultra-centenario –, da sempre in prima linea nel difendere i lavoratori ed il diritto alla partecipazione e al lavoro, ed oggi vero catalizzatore della protesta in tutti i suoi aspetti.
Se il gioco dei potentati locali – dalla maggioranza di governo all’opposizione formale del Pd, dagli industriali affamati di denaro pubblico alla centrale sindacale gialla della CISL – è quello di isolare la Fiom per ridurla a più miti consigli, sappiano, questi ascari della classe globale, che saranno loro ad essere isolati dal nuovo che emerge nella società italiana, rischiando di portare con sé, nella caduta, le stesse istituzioni statuali che hanno occupato e screditato.
Il Nuovo Movimento è forse l’unica speranza che ci rimane, per non sprofondare definitivamente, a milioni, nelle bassure e negli inferi della postmodernità capitalistica, in quel buco nero pronto ad inghiottirci che è la “globalizzazione senza veli”.
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