Un Nobel per lo yuan
ott 12th, 2010 | Di Pietro Garante | Categoria: Politica Internazionaledi Pietro Garante
Quando ero ragazzo e si davano i Nobel per la Pace al dottor Schweitzer e a Martin Luther King, o a Linus Pauling, credevo che quel premio avesse un senso umanitario.
Ero giovane ed ingenuo, ma anche i tempi erano oggettivamente diversi: il mondo era stabile sotto il duopolio USA-URSS e l’Occidente accumulava capitalisticamente con grande lena, coordinato, guidato e protetto dagli Stati Uniti.
Poi venne una stagione fitta di Nobel dati a politici e capi di stato (era già avvenuto in precedenza, ma con moderazione). Vedemmo allora premiati il dottor Kissinger assieme al vietnamita Le Duc Tho, che però rifiutò il premio, e poi Begin assieme a Sadat, per aver fatto la pace tra Israele ed Egitto, o Peres, Rabin e Arafat per aver fatto finta di far la pace tra Israeliani e Palestinesi. Mi “perplimono” un pò questi premi, ma con un pò di cinismo e di realpolitik possiamo capirne il senso, per lo meno formale.
Da quando siamo nel pieno dei sommovimenti tellurici dovuti al crollo dell’URSS e al conclamarsi della crisi planetaria dell’egemonia USA, vediamo invece un progressivo affollarsi di premi dati ai “dissidenti”, ovvero a coloro che criticano i governi (solitamente detti “regimi”) che danno fastidio agli Stati Uniti (col recentissimo entr’acte esilarante di un premio Nobel preventivo per la Pace assegnato al guerrafondaio Barack Obama).
Capostipite fu Sakharov, poi venne il polacco Wałęsa, poi il Dalai Lama, quello che ha dovuto ammettere di essere stato per anni sul libro paga della CIA al suon di 180.000 dollari all’anno, poi la birmana Aung San Suu Kyi, dolce e non-violenta leader di un partito, la National League for Democracy, con filiali a Washington, capitale di un noto Paese non-violento; poi l’iraniana Shirin Ebadi ed ora il cinese Liu Xiaobo.
Tutte persone con buone ragioni per voler dissentire dai loro governi. Tutte persone scelte, tra le mille possibili, con serissimi criteri geopolitici, per essere laureate Nobel per la Pace da parte del Norwegian Nobel Committee.
Scelte che si sono spesso associate a tentativi concreti di rovesciare governi, regimi, poteri. Sempre in una stessa identica direzione: quella in cui si deve in un modo o nell’altro “esportare la democrazia”.
Ecco allora la “rivoluzione verde” iraniana, la rivolta dei monaci in Tibet, quella dei monaci nel Myanmar, quella degli Uiguri nello Xinjiang (che però è finita sotto silenzio appena è saltato fuori che in realtà erano gli Uiguri a massacrare i cinesi Han – viva l’obiettività).
Gli USA hanno sviluppato tecniche, una volta abbastanza raffinate ma ormai sputtanate dalla ripetitività, per far leva sui malumori di minoranze o ceti sociali e sfruttarli nei loro giochi politici e geopolitici. L’Einstein Institution, col suo corredo di false ONG, è l’esempio apodittico di fucina di queste tecniche (ne parlò anche un servizio di “Report”).
I media allineati e gli intellettuali allineati (praticamente tutti, con una percentuale che rasenta il 100% tra quelli cosiddetti “progressisti”) fanno da cassa di risonanza di queste tecniche, così come il solito pittoresco jet-set di nani e ballerine, il cui leader indiscusso è il canterino miliardario Bono.
Ecco l’origine del politically correct, che ha fatto della sinistra radicale un luogo di aristotelica corruzione culturale e politica (si pensi a un Kouchner o ad un Cohn Bendit, o ai nostri meno illustri Sofri, Mieli, Annunziata, Nirenstein), o dove si agitano generosi useful idiots, e di quella non radicale un luogo di diretto asservimento alle mene di potenza statunitensi.
Piazza Tienanmen fu innanzitutto un profondo scontro di potere all’interno del Partito Comunista Cinese. Poi un tentativo da parte di poteri politici, economici e finanziari internazionali di ripetere il processo che stava frantumando il blocco sovietico e che da lì a poco avrebbe portato al collasso dell’URSS, ad alcuni milioni di morti per indigenza e all’aumento del 13% della mortalità nell’ex impero sovietico (e a tal fine cercarono di mobilitare anche Gorbaciov, che guarda caso l’ anno dopo ricevette il Nobel per la Pace). Infine Piazza Tienanmen fu il tentativo del nuovo ceto medio cinese che si stava sempre più prepotentemente formando, e che come in Iran aveva un punto di forza nelle Università, di ottenere più gradi di libertà e privilegi.
Un ceto medio in progressiva ascesa, le cui pulsioni “democratiche” sono state tacitate più dall’enorme arricchimento reso possibile proprio grazie alla sconfitta del tentativo di Tienanmen, che non dalla repressione. Per il futuro si vedrà.
Come al solito gli “idealisti” ci lasciano le penne, perché si trovano, il più delle volte senza rendersene conto, nel bel mezzo dello scontro tra grandi poteri ed enormi interessi.
Ci lasciano le penne perché finiscono soli, uccisi o dietro le sbarre. Oppure perché ricevono un pelosissimo premio che li equipara ad un semplice termine di negoziazione per ottenere la rivalutazione dello yuan (il Corriere della Sera era addirittura sfrontato nell’accostare le due cose il giorno dopo il premio).
Mammona ha vinto ancora: stavolta il Nobel per la Pace.
Chissà perché il Nobel non è mai stato dato alla dissidente anticapitalista e antimperialista Silvia Baraldini condannata a 43 anni di carcere negli Stati Uniti, e ivi imprigionata in condizioni terribili per 16 anni?
Perché Liu Xiaobo ha conseguito il «Premio Nobel per la pace»
di Domenico Losurdo
Nel 1988 Liu Xiaobo dichiarò in un’intervista che la Cina aveva bisogno di essere sottoposta a 300 anni di dominio coloniale per poter diventare un paese decente, di tipo ovviamente occidentale. Nel 2007 Liu Xiaobo ha ribadito questa sua tesi e ha invocato una privatizzazione radicale di tutta l’economia cinese.
Riprendo queste notizie da un articolo di Barry Sautman e Yan Hairong pubblicato sul «South China Morning Post» (Hong Kong) del 12 ottobre.
Non si tratta di un giornale allineato sulle posizioni di Pechino, che anzi in questo stesso articolo viene criticato per aver colpito un’opinione sia pure «ignobile» con la detenzione piuttosto che con la critica.
Da parte mia vorrei fare alcune osservazioni. Anche sui manuali di storia occidentali si può leggere che, a partire dalle guerre dell’oppio, inizia il periodo più tragico della storia della Cina: un paese di antichissima civiltà è letteralmente «crocifisso» – scrivono storici eminenti; alla fine dell’Ottocento, la morte in massa per inedia divene noioso affare quotidiano. Ma, secondo Liu Xiaobo, questo periodo coloniale è durato troppo poco; avrebbe dovuto durare tre volte di più! Il meno che si possa dire è che siamo in presenza di un «negazinionismo» ben più spudorato di quello rimproverato ai vari David Irving. Ebbene, l’Occidente non esita a rinchiudere in galera i «negazionisti» delle infamie perpetrate ai danni del popolo ebraico, ma conferisce il «Premio Nobel per la pace» ai «negazionisti» delle infamie a lungo inflitte dal colonialismo al popolo cinese! Purtroppo, in modo non molto diverso si atteggia spesso la sinistra occidentale, che si è ben guardata dal condannare l’arresto a suo tempo di David Irving e di altri esponenti della stessa corrente ancora in stato di detenzione, ma che in questi giorni inneggia a Liu Xiaobo.
Quest’ultimo, peraltro, non si è limitato a esprimere opinioni, sia pure «ignobili» (come riconosce il South China Morning Post»). Dopo aver invocato nel 1988 tre secoli di dominio coloniale in Cina, l’anno dopo è ritornato di corsa (di sua spontanea iniziativa?) dagli Usa in Cina, per partecipare alla rivolta di Piazza Tienanmen e impegnarsi a realizzare il suo sogno. E’ un sogno per la cui realizzazione egli continua a voler operare, come dimostra la sua celebrazione (in un’intervista del 2006 a una giornalista svedese) della guerra Usa per l’esportazione della democrazia in Iraq. Come si vede, siamo in presenza di un personaggio che contro il suo paese invoca direttamente il dominio coloniale e, indirettamente la guerra d’aggressione. E’ un sogno che gli ha procurato al tempo stesso la detenzione nelle galere cinesi e il «Premio Nobel per la Pace».
Il Premio Nobel diventa “dissidente”
di M. H. Lagarde*
su http://www.cubasi.cu del 10/10/2010
Traduzione di l’Ernesto online
* M.H. Lagarde, giornalista cubano, è direttore del sito Cubasi.cu
Con una lista di più di 200 candidati, tra i quali si trovavano l’Associazione Civica argentina Nonne di Piazza di Maggio o il presidente boliviano Evo Morales, tra gli altri, il Comitato Nobel, che si ruinisce a Oslo, ha preferito consegnare il Nobel per la Pace al dissidente cinese, attualmente incarcerato, Liu Xiaobo.
Secondo coloro che assegnano il premio, Liu Xiaobo se ne è reso meritevole “per la sua lunga e non violenta lotta per i diritti fondamentali” nel suo paese.
Il curriculum vitae di Liu Xiaobo, naturalmente, non si differenzia in nulla da quello dei “dissidenti” che gli Stati Uniti da decenni usano, con maggior o minor successo, come quinte colonne in quei paesi che risultano non di loro gradimento per il semplice fatto di dissentire dalla loro egemonia.
Nel caso di Liu Xiaobo, le coincidenze sono significative. Presidente del PEN club degli scrittori indipendenti della Cina, categoria questa che gli darebbe la dignità di intellettuale – che rimanda all’esempio dei “giornalisti” al servizio degli USA recentemente liberati a Cuba – Xiaobo è stato condannato nel suo paese per avere sottoscritto la cosiddetta Carta 08, ispirata alla Carta 77, redatta da artisti e scrittori cechi nel 1968.
L’altro dissidente premiato è stato lo scrittore peruviano, naturalizzato spagnolo, Mario Vargas Llosa, uno dei grandi autori della letteratura latinoamericana che, dal mio punto di vista, avrebbe dovuto ottenere l’onorificenza molti anni prima, quando l’autore di “Conversazione nella Cattedrale” era molto più scrittore che politico.
In questo modo si sarebbe evitato che persino Vargas Llosa dicesse, intervistato dalla stampa dopo aver ricevuto la notizia, che “sperava che il premio non gli fosse assegnato per le sue posizioni politiche”.
Penso esattamente la stessa cosa anch’io, perchè il Nobel, in questo caso, invece di rendere giustizia come letterato ad uno dei grandi del boom latinoamericano, rappresenta un incoraggiamento ad uno degli ideologi più reazionari della nostra epoca.
Sebbene l’apostata della sinistra Vargas Llosa si dichiari ora “un liberale laico difensore della democrazia e critico ostinato della dittatura” – quelle di Cuba e del Venezuela in primo luogo, naturalmente – la sua imparzialità rispetto a quanto c’è di più reazionario nella destra internazionale è testimoniata dai suoi silenzi sull’ingiusta guerra scatenata dagli Stati Uniti contro l’Iraq o sulle torture nel campo di concentramento di Guantánamo.
Del resto, a seminare ancora maggior incertezza su quali siano i motivi per cui si è premiato il peruviano, ci sono le agenzie di stampa che si stanno dividendo tra la celebrazione delle sue doti letterarie e la colloocazione in primo piano delle dichiarazioni che lo scrittore ha fatto in merito al “regresso rappresentato per l’America Latina dalla mancanza di democrazia a Cuba e in Venezuela”.
L’ambiguità dei titoli dei giornali dà da pensare. Sarà stato un premio per riconoscere l’autore di “La Casa Verde” o un Nobel per attaccare Cuba e il Venezuela?
Si sa che la firma di Vargas Llosa non manca mai negli appelli di condanna di Cuba che, perlomeno ogni sei mesi, vengono lanciati dal Partito Pro-americano spagnolo (PP). Ma con un’opera di così indiscusso valore alle spalle, è proprio necessario un così futile e inutile motivo per concedere il Nobel a un “dissidente” portavoce dell’impero?
Ciò che risulta chiaro è il fatto che, con tali eletti, il poco prestigio che già rimaneva al Nobel si diluisce sempre più nello sconcerto.
C’è da sperare che si tratti solo di una di quelle sbandate ideologiche che il prestigioso premio di una volta ha subito nel corso della sua storia e non una nuova regola.
Ci immaginiamo cosa accadrebbe se nell’ottobre 2011 fossimo informati che il nuovo Premio Nobel della Letteratura è stato assegnato al terrorista Carlos Alberto Montaner
Non conoscevo l’attività di agitatore procolonialista di Xiaobo.
Quando ho parlato di “idealisti” alla fine del mio post volevo mantenermi su una posizione di prudenza: per quel che fino ad allora sapevo, Xiaobo poteva anche esserlo.
Ma in realtà gli ideali del neo laureato Nobel per la Pace sono agghiaccianti. Ignobili, come per l’appunto dice il giornale di Hong Kong.
Solo un meschino idiota, un ignorante o un prezzolato può augurare alla Cina trecento anni di colonialismo, perché già molto meno di due secoli di dominio semicoloniale sono bastati a ridurre quella che alla fine del Settecento era la più fiorente nazione del globo in un inferno.
Le due Guerre dell’Oppio imposero all’Impero Cinese l’importazione della droga coltivata soprattutto nel Bengala, dominato dagli Inglesi, in modo da succhiare la ricchezza cinese e trasferirla in Inghilterra, e da lì nel resto dei Paesi occidentali, triangolando con il Raj britannico.
Detto incidentalmente, quelle due guerre fecero degli Inglesi i più grandi narcotrafficanti della Storia. Vi ricordate quando l’orrendo Tony Blair (idolo della nostra sinistra) faceva le sue sparate propagandistiche a favore dell’invasione dell’Afghanistan, dicendo che bisognava fare quella guerra anche per fermare il traffico di eroina che minava la salute dei giovani sudditi britannici? Che ipocrita! E doppiamente ipocrita se si tiene conto che dai tempi dell’invasione la produzione di oppio in Afghanistan è aumentata a dismisura (si scoprì che arrivava negli USA anche coi cargo militari).
Il prosciugamento delle finanze dell’impero Qing e le altre condizioni imposte alla Cina indussero carestie e rivolte con decine di milioni di morti.
E si sta parlando solo degli effetti della pressione militare e diplomatica dei Paesi coloniali. Pensate cosa sarebbero stati trecento anni di dominio coloniale diretto (un’idea ce la possono dare le tragedie vissute dall’India).
Se questi sono gli ideali di Mr. Xiaobo, si capisce perché sia stato infilato nel novero dei Nobel per la Pace dell’epoca dello scontro geopolitico acuto. Non per nulla in un’intervista del 2006 ad una giornalista svedese si dichiarò entusiasta per la guerra di Bush per “esportare democrazia” in Iraq.
E’ il degno successore di Mr. Obama.
Invece un Nobel per la Pace vecchio stampo, la nordirlandese Mairead Corrigan, la più giovane persona insignita di tal premio, nel 1976, ha ricevuto un ordine di deportazione forzata da Israele. L’ordine di deportazione forzata comporta l’impossibilità di rientrare in Israele e nei Territori Occupati per dieci anni. Non mi sembra che nessuno si sia stracciato le vesti per questo. Men che meno in Italia.
E la sinistra, di solito così chiassosamente e loquacemente sollecita per tutto ciò che è politically correct, tace.
Dio, che deserto!
Pietro Garante
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