Ricostruire l’esperienza comune
ott 9th, 2010 | Di Stefano Moracchi | Categoria: Dibattito Politicodi Stefano Moracchi
Dopo la caduta dell’esperienza politica “comunista”, il percorso di elaborazione nell’individuare il soggetto del cambiamento, capace di sovvertire l’ordine esistente, ha inevitabilmente scoperto il fianco di chi si era fatto portatore “serio” di quell’esperienza, mettendone a nudo le inconsistenze, oltre che rivelare la distanza enorme tra i “buoni propositi” e le “azioni di fatto”. Nel 1981, Pierre Andreu scrive che le possibilità di costruire una società nuova si debbano ricercare in Sorel, in quanto le sue tesi appaiono sempre più attuali. Il Sorel critico dei partiti e fautore delle forme di vita associativa, delle cooperative e del mutualismo: altro non significa che ripartire dall’esperienza comune.
E’ proprio sul significato di esperienza comune risiede la base del discorso filosofico-politico di Sorel. Esperienza comune significa non delegare a nessuno il proprio destino. Significa che ogni individuo deve sentirsi parte attiva del tutto. Non vi sono demiurghi e interpreti dei bisogni collettivi. Non vi sono capi e capetti con la delega in bianco. In questa prospettiva, andando a fondo nel pensiero di Sorel, si può riscontrare la sua diffidenza nel seguire la scia di un maestro unico: difatti Sorel riprende Proudhon, Bergson, Marx, Kant, Jhering e Pareto e non solo.
La grandezza di Sorel sta nella sua formazione didattica, contro ogni scuola, e per questo non intendeva lasciare nessun sistema ai posteri.
Se, al contrario, restiamo alla superficie, troviamo la caricatura del sorelismo di destra e di sinistra. Perché questa semplificazione inutile di Sorel? Perché Sorel, essendo un vero fautore della libertà, non disdegnava quelle che, agli occhi degli sciocchi, appaiono “cattive compagnie”. Eppure, mai come ai giorni nostri il pensiero e la vita di Sorel ci potrebbero insegnare molte cose.
Sorel, già alla fine dell’ottocento, credeva che la teoria dovesse modificarsi e sottomettersi alla critica imposta dai fatti nuovi; come pure la diffidenza negli schemi rigidi che non lasciano spazio all’arricchimento dei contributi esterni. Sorel si richiama al dover essere kantiano in quanto perennemente non-finito, al concetto di durata di Bergson, al concetto del mito come elemento propulsivo per la lotta.
Oggi, dove i nostri passi sono incerti a causa delle macerie lasciate dal crollo del comunismo storico novecentesco, ripartire dall’esperienza comune di questa disfatta, attraverso un percorso di elaborazione condivisa di una strada possibile, scevra da pregiudizi e da sterili propagande sempre pronte a distruggere ogni possibile tessitura che non provenga da chi di dovere, è non solo possibile ma anche auspicabile.
La strada che porta alla sconfitta, al contrario, è quella di credere di poter rappresentare il “soggetto del cambiamento”, di essere il fondatore e l’ideatore del nuovo percorso.
Perché Sorel vedeva il sindacato come una comunità attiva, autonoma, in relazione e non solo in opposizione con lo stato? Perché egli crede che ogni individuo sia un produttore e non un consumatore. Perché crede che il peggior danno che si possa infliggere ad una comunità (proprio così, Sorel vede il sindacato come una comunità) è quella di umiliare l’individuo privandolo della propria scelta.
L’esperienza comune è anche saper riconoscere la separazione tra conoscenza e azione e ricercare sempre le motivazioni che conducono all’agire e chiedersi sempre del perché dell’inazione di qualcuno vicino a noi, perché probabilmente si sta creando una distanza, che è un modo come un altro di riprodurre una gerarchia insopportabile.
Comunità, quindi, nella prospettiva di Sorel, è la possibilità di pensare con la propria testa all’interno di una comune esperienza.