Determinazioni e dominanze
ago 27th, 2010 | Di Stefano Moracchi | Categoria: Cultura e societàdi Stefano Moracchi
La conoscenza che noi abbiamo dell’altro da noi è una conoscenza per “tipi”, ovvero delle immagini confezionate dalla società che ricalcano una gerarchia di condizioni sufficienti e necessarie alla riproduzione dei rapporti sociali, e che derivano da chi detiene di fatto i mezzi di produzione.
Questo rapporto tra individuo e costruzione individuale per “tipi” non coincide con il rapporto tra particolare e concetto generale, ma configura piuttosto una generalizzazione che rispecchia fedelmente l’immagine che la società costruisce sul soggetto fin dalla sua nascita.
Questa immagine non rappresenta l’individuo per sé ma l’individuo per la società.
La comunanza che nasce da questi rapporti sociali non ha nulla a che vedere con la forma comunitaria del per sé, ma rimanda costantemente alla forma comune del per-gli-altri che, altro non sono, che le varie forme della dominanza o, se si preferisce, la catena infinita delle determinazioni.
La non coincidenza tra individuo e tipo ci porta ad osservare l’insufficienza di spiegare una individualità rispetto al rapporto sociale che egli può avere con i membri; mentre il rapporto comunitario non si ferma a questa spiegazione e approfondisce la considerazione che l’individuo è qualcosa di più della condizione determinata dalla società in cui si è trovato a vivere e che non ha avuto possibilità di scegliere.
La questione della scelta è elemento essenziale della conoscenza.
Ognuno di noi si presenta all’altro non soltanto per quello che è nella sua condizione sociale, ma è anche portatore di contraddizioni che si risolvono soltanto se si ha la capacità di approfondire e valorizzare gli elementi socialmente significativi, che non mortificano le relazioni che non rientrano nella contrattazione dell’interesse.
L’esclusione dalla società di tutti i tipi che non rientrano nella classifica idealtipo che la società ha costruito diventano, di fatto, la condizione possibile della vita associata. Questi tipi sociali sono: lo straniero, l’asociale, il diverso, il criminale, il disoccupato, eccetera.
Se teniamo conto che le forme di socialità non possono essere comprese solo in funzione dell’interesse, ma che vi è una forma interessata nel disinteresse, comprendiamo anche gli aspetti più profondi delle relazioni.
Se pensiamo che la società è costituita da un insieme di formazioni che sono emanazioni di individui capaci di determinare comportamenti e scelte e che, tuttavia, queste scelte non possono mai essere del tutto prevedibili, e che la loro imprevedibilità è data dal fatto che l’essere umano ha sempre la capacità di mettere in discussione tutto, anche il proprio interesse, allora dobbiamo anche pensare che gli individui stanno dentro ma anche fuori dalla società. Questo significa che oltre alla determinazione di scelte esteriori vi sono anche scelte interiori. Se quelle esteriori sono determinate, quelle interiori dovrebbero avere il carattere di libertà. La mancanza di coincidenza tra queste due forme di convivenza è alla base di ciò che noi chiamiamo società e ciò che chiamiamo comunità.
La comunità altro non è che la possibilità di far coincidere i due interessi: quello per sé e quello per gli altri. Altro non è che la forma dell’interesse disinteressato.
Cos’è un interesse disinteressato? E’ l’attuazione di un processo che vede finalmente la possibilità per l’individuo di poter valorizzare la sua particolarità interiore in quanto elemento indispensabile per tutta la comunità.
In società la mortificazione individuale è l’elemento essenziale della sua possibilità di sopravvivenza. La propria mortificazione è valorizzazione sociale. Si tratta di una forma di figura sociale che tiene costantemente in tensione l’individuo di fronte se stesso e di fronte gli altri da sé.
Questa tensione è una degenerazione sociale o disarmonia sociale.
Nel momento stesso che l’individuo mortifica se stesso per un presunto bene sociale che gli viene richiesto come presupposto essenziale per il suo inserimento lavorativo, si attiva automaticamente l’impossibilità di espletare il suo contributo alla vita comunitaria con prestazioni positive (perché dettate dall’armonia tra il per sé e il per gli altri).
La mortificazione individuale è una forma diffusa di alterazione sociale che determina tensioni che generano situazioni di messa in discussione dell’ordinamento sociale. Queste tensioni da pericolo sociale diventano, governate con strumenti repressivi, forme e strumenti essenziali alla società stessa. Paradossalmente, senza queste tensioni sociali create attraverso la mortificazione continua e sistematica dell’individuo, la società si troverebbe a vivere in condizioni di assoluta libertà relazionale, mettendo in discussione l’intero impianto sociale.
Se prendiamo le considerazioni che abbiamo fin qui svolto e le confrontiamo con il concetto di “plusvalore”, e con esso quello di “classi” in conflitto tra loro per l’accaparramento del prodotto sociale, vediamo che la lotta che l’individuo conduce con se stesso (il per sé) e quella che svolge con la società (il per-gli-altri) altro non è che una emanazione di determinazioni sociali che combattono tutte per un unico fine: la valorizzazione dell’astrazione sociale.
L’astrazione sociale porta con sé, inevitabilmente, il conflitto e la tensione sociale, perché il suo limite è l’impossibilità di dotarsi dei limiti. La valorizzazione è infinita.
Il concetto di sovrappiù, che è un termine più neutro di quello di plusvalore, ma che definisce e comprende meglio le due parti del mio ragionamento, si costituisce in scienza nel momento stesso che viene pensato come un rapporto sociale. Il sovrappiù è niente altro di ciò che resta una volta espletate tutte le incombenze necessarie a far si che la riproduzione sociale possa continuare a svolgere la sua funzione, che è anche la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori, purchè siano produttivi.
Nel corso della riproduzione sociale alcuni beni capitali si sono logorati e consumati allo stesso modo dei lavoratori e alle stesse condizioni delle merci. Il logoramento e la consunzione non sono altro che forme di trasformazione. Il lavoratore si trasforma allo stesso modo delle merci. Come si trasformano le sue percezioni del lavoro e allo stesso modo i rapporti sociali di produzione.
La condizione del lavoratore improduttivo può sorgere soltanto in un determinato rapporto sociale di produzione.
Se pensiamo alla figura del povero prima delle varie forme di capitalismo che si sono affacciate nella storia, non l’avremmo mai potuto pensare come un individuo incapace di consumare.
A questo riguardo sono utili le considerazioni di Simmel:
- Una società che è tenuta insieme o organizzata in base alla coscienza di stirpe rinvia il povero alla cerchia della sua stirpe.
- In una società che è tenuta insieme o organizzata in base al ruolo essenziale della Chiesa, sono le istituzioni ecclesiastiche a mediare la reazione sociale del povero.
- L’ultimo stadio raggiunto dallo sviluppo sociale è quello della moderna organizzazione statale (che ha sostituito il comune come luogo che ha goduto delle prestazioni economiche del soggetto ora impoverito e come organo dal quale si può quindi pretendere una relazione solidale).