Nawal e il Ramadan
ago 21st, 2010 | Di Antonio Catalano | Categoria: Primo Pianodi Antonio Catalano
Siamo in pieno agosto e, come spesso in questi ultimi anni mi capita, trascorro buona parte di agosto con i miei vecchi genitori, che hanno bisogno di assistenza, in particolare mio padre che ha perso l’autosufficienza. Ad aiutarli c’è una ragazza marocchina, Nawal, stanziatasi qui con la sua famiglia da alcuni anni. Una badante, quelle per le quali l’attuale governo appena insediatosi, dopo aver sparato ad alzo zero contro gli immigrati e gli irregolari definiti clandestini, dovette subito a “furor di popolo” ritrattare l’originaria intenzione di non regolarizzazione in quanto questa avrebbe messo a dura prova la capacità di tenuta della società italiana in totale assenza di una politica di assistenza e di cura delle persone.
Nawal è una ragazza di vent’anni, e con i suoi genitori, e la comunità islamica, segue in questo periodo (dall’11 agosto) il precetto del Ramadan – atto basilare di culto per gli islamici – che implica l’osservanza di questa regola: digiuno completo dalle quattro del mattino sino alle otto di sera. Alle venti Nawal interrompe il digiuno, prima beve latte accompagnato da datteri poi consuma il pasto. A mezzanotte un altro pasto ed alle quattro del mattino si sveglia per la preghiera e beve tanta acqua. Nawal segue la regola del Ramadan con determinazione, con perseveranza, con convinzione. E con serenità. Nonostante si trovi in una casa dove il digiuno non è osservato e quindi si fa colazione pranzo e cena regolarmente oltre che, facendo molto caldo, si beve tanto e spesso. Eppure, nonostante le provocatorie e scherzose offerte di mio padre non si lascia tentare di un ette, avanti per la sua strada come Gesù nel deserto che sdegnosamente rifiutava le profferte di Satana (come raccontano i vangeli). Lei lavora tutto il giorno, con le dovute pause, e innegabilmente risente dello stato di privazione sia di acqua che di cibo, è più stanca e a suo stesso dire affaticata. Fino al 10 settembre!
La nostra civiltà occidentale tardo-capitalistica esalta il principio edonistico in nome del quale tutto va subordinato. Non che questo corrisponda ad uno stato di benessere collettivo che – anzi! –, di questi tempi diminuisce a vista d’occhio in particolare per i ceti popolari. Lo stesso nostro stanco cattolicesimo è sempre meno capace di suscitare moti di spiritualità e di “sacrificio”: tutti possono far la comunione senza passare per l’ “antipatica” porta della confessione – per giunta dopo aver appena fatta colazione, e semmai con una gomma da masticare ancora in bocca mentre si accoglie l’ostia (che per un cattolico dovrebbe rappresentare il corpo di Cristo). Il venerdì non è più vissuto come un giorno di penitenza per cui tutto procede come sempre e casomai non si dovesse mangiare carne è solo per abbuffarsi di altro. Per non parlare della Quaresima – che ormai i più nemmeno sanno più cosa rappresenti – e dei riti ad essa collegati, e della quasi nulla opposizione (in ogni caso debole e inefficace) della Chiesa per contrastare il fenomeno dell’apertura sine die degli esercizi commerciali (con il micidiale portato della necessaria flessibilità e conseguente precarietà che si accompagna a questo fenomeno). Insomma, quel che voglio dire è che il senso di religiosità diffuso nel nostro corpo sociale è ormai così annacquato che nulla possono fare i richiami del teologo/papa Ratzinger/Benedetto XVI ad un ritorno al vero valore della fede. La Chiesa in questa epoca di capitalismo selvaggio ed assoluto (nel senso che è un capitalismo che ha penetrato tutte le sfere della vita sociale con annesso processo di mercificazione della vita sociale e spirituale) è sempre più secolarizzata e laica, la massa dei “credenti” è quasi del tutto all’oscuro della precettistica cattolica.
Per amore di chiarezza, non sono un credente, cerco solo di essere attento a quel che accade nello sforzo di individuare le linee di rottura con l’assetto capitalistico della società, che ritengo essere un modo di produzione, un sistema, geneticamente anti-umano, quindi votato a deprivare l’essere umano della sua naturale tendenza a considerare l’altro non un suo concorrente/nemico da smarcare e svilire ma un potenziale elemento di riferimento per la costruzione di processi emancipatori e di liberazione. Ben sapendo, comunque, che la società capitalistica non è un insieme indistinto di persone o cittadini, ma una struttura complessa dove agiscono in contrapposizione movimenti derivanti dai differenti interessi di classe che fra di essi confliggono.
Il Ramadan non è pertanto un istituto compatibile col capitalismo globalizzato, il che non vuol significare che sia anti-capitalistico (questo presuppone l’intenzione di opporsi a tale sistema), le sue regole vanno in rotta di collisione con le necessità di una società liquida che individua come processi di valorizzazione solo quelli che portano profitto. Il Ramadan è un istituto interno ad una società con caratteristiche ancora non completamente assoggettate alla logica totalizzante ed assoluta (nel senso di cui prima) del capitalismo, esso richiede tempi e comportamenti che destano oltre che stupore e incomprensione in noi occidentali “civilizzati” intralcio ai meccanismi veloci e performanti della società dove il tempo è una variabile strettamente dipendente del meccanismo della riproduzione capitalistica.
È questo un elemento in più per comprendere l’attuale clima di islamofobia che il cosiddetto capitalismo globalizzato ingenera e propaganda. Non perché il capitalismo globalizzato sia di per sé antireligioso, infatti esso tollera, anzi coccola, quella religiosità che nasce e si rafforza nel suo seno, che coniuga la fede in Dio con quelle del dio mercato, che non teme di mettersi al servizio delle ragioni imperiali del capitalismo in nome delle quali esporta la “santa” democrazia a suon di bombe e genocidi.
Non c’è in questa breve riflessione nessuna nostalgia passatista e nemmeno l’esaltazione di società e culture (a volte semi-arcaiche) che spesso si arroccano su stesse per difendersi dallo spossessamento operato dal violento penetrare in esse dell’ideologia – altro che religiosa! – globalista. Sono infatti consapevole che anche nelle società islamiche non vi siano rapporti sociali liberati dalla logica dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma processi di liberazione veri e profondi non possono che nascere dal rifiuto secco dell’ideologia capitalistica che ritiene la religione un orpello del passato solo quando essa non si sottomette alla sua devastante ed annichilente macchina schiacciasassi.
Complimenti Antonio! Davvero una bella riflessione!
Aggiungerei la mia convinzione del fatto che il non condividere nostalgie passatiste non signifca non ritenere sacrosanta, anche quando non anticapitalistica (per ovvie ragioni), la pratica di rifiuto dei ritmi che il capitalismo occidentale impone. Questo non deve naturalmente impedirci di saper criticare in forma circostanziata tutte le diverse forme di assoggettamento personale e sociale esistenti nel mondo che si esprimono in maniera diversa dal capitalismo ultra-liberalizzato e atomistico da noi dominante.
Ma resta l’importanza delle’elemento di resistenza alla logica di penetrazione capitalistica e imperialistica occidentale (nel tuo scritto peraltro ben descritto).
Bella testimonianza. Concordo con te che il “ramadam” non è un istituto compatibile con il capitalismo che noi conosciamo. Personalmente come cristiano di rito protestante -per l’esattezza calvinista- non sono affetto da islamofobia, anzi…
Ritengo che la libertà di esprimere e praticare il proprio credo religioso sia uno degli aspetti più importanti della battaglia antirazzista. Infatti nel nostro paese la 2° religione più praticata è quella islamica ed è questa una realtà di cui dobbiamo tenere conto tutti quanti.
E’ tutto ciò non è in contradizzione con la nostra battaglia anticapitalista.
Ciao Stefano
Fortuna che il capitalismo odierno si trovi ancora di fronte a resistenze “tradizionali” che impediscono che esso possa dispiegarsi ancor più liberamente di quanto già non sia. Quindi ben vengano tutte le resistenze: culturali, religiose, umane, direi anche comportamentali. Queste da “sole”, purtroppo, non possono mettere in moto quei processi necessari non solo per evitare che il capitalismo dilaghi ma che ne sia inceppata e messa in discussione l’infernale macchina con la quale si muove. Questa macchina va inceppata e distrutta, ma questo pressuppone che queste resistenze necessarie e sacrosante incontrino altre resistenze costrette a fare i conti con la non riformibilità di questo sistema. E allora servono teorie, programmi, politiche, “dure” strumenti necessari per porsi all’altezza del compito prometeico.
… dimenticavo, grazie Lorenzo e grazie Stefano e ciao!