Berlusconi, Tremonti e la decrescita
lug 23rd, 2010 | Di Eugenio Orso | Categoria: Dibattito Politicodi Eugenio Orso
L’accostamento presente nel titolo del mio intervento odierno potrà sembrare ai più una stranezza, una mera ironia, una bizzarria decisamente fuori luogo…
Insorgerebbero, davanti a questo accostamento, sia Badiale e Bontempelli – sostenitori di una via originale alla Decrescita costellata di dure lotte con le oligarchie/ suboligarchie/ caste dominanti, che impongono una crescita distruttiva, per gli umani e per l’ambiente, postulata dalla religione liberalcapitalistica del Progresso – sia un intellettuale come Pallante che rispetto ai primi ha una diversa visione del fenomeno decriscista, certo più “felice” e bucolica, credendo possibile una ricostruzione delle reti sociali di rapporti e di scambi, nella progressiva sostituzione delle merci con i beni, sostanzialmente per via pacifica e al di fuori delle logiche capitalistiche dominanti.
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Bravo Eugenio!
Credo che sia importantissimo mostrare i lati contraddittori delle teorie decrescitiste e soprattutto il loro ampio margine di integrabilità nel progetto che ben chiami “della decrescita forzata”, ovvero nient’altro che un attacco di classe tramite politiche recessive e smantellamento dell’economia pubblica e dello Stato sociale.
X Lorenzo
Ti ringrazio.
Il mio intento non è però puramente provocatorio nei confronti dei decriscisti.
Credo che esista veramente la possibilità di un simile processo, impropriamente definibile Decrescita, quale percorso forzato e infelice, gravido di insidie e scontri, che può portar fuori dal capitalismo.
Ti consiglio, se non lo hai già fatto, di leggere il breve saggio di Pallante Decrescita e Welfare State perché in questo scritto Pallante sostiene che il Welfare deve essere superato [in questo, nel concreto convergente con i neo-ultraliberisti] perché nato dentro le logiche capitalistiche …
Ma come faranno a sopravvivere vasti strati subalterni senza uno straccio di assistenza e redistribuzione?
Pallante si è posto seriamente questa semplice ma fondamentale questione?
Si illude forse che coloro che effettivamente detengono le ricchezze praticheranno, nei confronti delle masse deprivate e senza assistenza pubblica, la “gratuità del dono”?
Saluti
Eugenio Orso
Non ho letto il libro di Pallante, ma sono convinto che, in buona o cattiva fede che sia, una tale concezione sia del tutto complementare alla guerra di classe che si prefigge la distruzioni dei residui baluardi di civilità pubblica e sociale, incarnati dallo Stato sociale, dal contratto di lavoro stabile, dalla sanità pubblica, dal sistema pensionistico pubblico etc etc…
Chi invoca il superamento dello Stato sociale in nome di nuove sussidiarietà familiari, microcomunitaria, magari buttandoci in mezzo fratellanza, vicinanza, territorialismo e via dicendo, gioca con il fuoco, o meglio soffia sull’incendio in corso del neo-liberismo.
Non sono affatto un esperto delle teorie decrescitiste. Ben venga ogni dibattito su un tema che a livello culturale può avere risvolti interessanti, ma si deve capire assolutamente la posta in gioco di quelle che possono diventare parole d’ordine pericolose (in piena linea, per l’appunto, con la filosofia Sacconiana-Cisl-Uil-Confindustria della sussidarietà sociale).
Lorenzo
X Lorenzo
Quello di Pallante è un breve saggio ed è stato pubblicato, se ben ricordo, dal Movimento per la Decrescita Felice … dovresti trovarlo in rete e sono poche paginette.
Come sempre si ritorna al Dono di Marcel Mauss [ripreso dal gruppo Mauss di Latouche e Caillé] e alle economie precapitalistiche, arcaiche, o definite in altri modi.
L’origine è quella, in estrema sintesi … la reciprocità del dono, uno scambio profondamente diverso da quello capitalistico, eccetera.
Da questo nasce l’idea della sostituzione progressiva della merce con il bene, che può essere autoprodotto, non si scambia con denaro e soddisfa un bisogno/ appaga un desiderio, mentre la merce si scambia inevitabilmente con denaro e assorbe molta parte del tempo di vita dell’uomo.
Per questa via – sostituzione attraverso l’autoproduzione delle merci con i beni, diminuendo il PIL – Pallante vorrebbe “togliere l’acqua” al pesce capitalista, e su questo sembrano concordare anche Badiale e Bontempelli.
Eugenio Orso
Bene hai scritto Eugenio! Il decrescitismo ben che vada è solo l’ilusione di un mondo migliore senza toccare i pressupposti fondativi (strutturali) del modo di produzione capitalistico. L’ideologia della decrescita è come i desideri espressi in un compito scolastico nel quale si scrivono frasi come: non ci dovrebbero essere più guerre, la pace è un valore da difendere, bisogna combattere l’inquinamento, il razzismo è una brutta cosa perché tutti nasciamo uguali eccetera eccetera. Ho stima di Bontempelli, di cui leggo i suoi scritti, ma ciò non toglie che il duo (Bontempelli-Badiale) sul piano della critica del capitalismo abbiano preso la piega della critica morale (che scade nel moralismo) dello stesso. Va bene la critica dello sviluppo e quindi dello sviluppismo, ma ciò non toglie che bisogna tenere i piedi per terra per evitare di illudersi che il capitalismo possa inginocchiarsi dinanzi alle anime belle.
X Antonio Catalano
La mia idea è che la Decrescita potrà al più rappresentare una possibile via d’uscita dalle logiche capitalistiche nel lungo/ lunghissimo periodo, fra due o tre generazioni, ma oggi non è certo una strada praticabile, soprattutto se la si concepisce come “felice” e “conviviale”, frutto di un miracolo che sparge a piene mani bontà e socievolezza fra il genere umano …
Le attuali élite nichilste e relativiste sono disposte a farsi da parte fin d’ora, senza colpo ferire, e a rinunciare improvvisamente ai loro immensi privilegi e al loro potere assolutistico?
Ne dubito.
La visione della decrescita che hanno Badiale e Bontempelli è certo meno idilliaca e più aderente alla realtà di quella espressa dal Movimento pallantiano, ciò non toglie che non vi sono oggi i presupposti – culturali, sociali, politici – per diffondere a livello di massa comportamenti decriscisti e anticapitalistici, in grado di modificare dal basso l’ordine vigente.
Se ne riparlerà, forse, dopo la metà del ventunesimo secolo, se il capitalismo transgenico finanaziario avrà lasciato qualcosa in piedi, beninteso …
Saluti
Eugenio Orso
Il dibattito sulla decrescita mi pare, non di rado, insensato. Ignora, infatti, alcuni dati antropologici che riguardano non soltanto la storia del capitalismo, ma la storia umana in generale. Che cos’è infatti la storia se non una storia di crescita, ovvero di produzione di surplus da destinare alla produzione di nuovo surplus, indipendentemente dai criteri della sua parziale redistribuzione? Dal nomadismo ai primi insediamenti, da questi alle città, dalle città alle megalopoli, si è trattato di un processo senza fine di crescita almeno quantitativa (sulla qualità c’è da discutere, le cultura reazionarie l’hanno posta e la pongono in questione e non tutte le loro argomentazioni sono da buttare).
La storia non è altro che un percorso di fuga dal dolore, dalla fatica, dalle malattie e, in ultima analisi, dalla morte (obbiettivo forse impossibile, ma costantemente perseguito) il che ha significato, e significa, accaparramento e sfruttamento estensivo ed intensivo di risorse trasformate comunque in energia da consumare: sfiorare un sensore richiede migliaia di volte più energia che spingere una leva, meno fatica più energia… Crescita, quindi: economica, tecnologica, culturale (nei limiti di una cultura meccanica fondata sulla tekne). Non c’è scampo: vivere di più e meglio (quantitativamente) richiede torrenti, mari, e infine oceani di energia.
Nessuno, neppure i “decrescisti” che usano comunque un computer e volano in jet, preferisce spingere una leva piuttosto che sfiorare un sensore. Nessuno, neppure i “decrescisti”, preferisce il morire naturalmente (magari di peste) verso i quaranta o i cinquanta al ricorso a macchine e tecnologie dal costo (energetico e non solo) stellare ma capaci di prolungare sia pure di qualche mese la propria vita. Nessuno, neppure i “decrescisti”, sarebbe in grado o avrebbe comunque voglia di piegare la schiena su di una zolla di terra per arare, seminare, mietere… meglio, molto meglio, trattori, trebbiatrici, falciatrici, meccaniche, elettroniche, bioniche… macchine azionate da macchine… e un buon supermercato preferibilmente all’angolo di casa dentro una megalopoli. Certo, ci si priva del piacere di veder nascere un pulcino, ma si mangia a crepapelle e senza fatica. Meglio, molto meglio, obeso che morto, tanto più che i macchinari (sembrano plance di astronavi!) delle palestre e dei beauty center (altra energia, e tanta!) spazzano via anche l’obesita…
Come si può in un mondo così, che realizza sogni che i nostri antenati non potevano neppure sognare, proporre una decrescita, un ritorno indietro? Nella migliore delle ipotesi il proponente raccoglierebbe qualche sorriso di compatimento, nella peggiore verrebbe linciato. Gli esseri umani non amano la natura, per quanto addomesticata possa essere. Amano se stessi, la propria vita, e odiano il dolore e la fatica. E’ così dai tempi dell’Australopitecus africanus e dell’Homo erectus, che appunto contro la natura s’incamminarono sulla strada che stiamo tuttora percorrendo. L’abbiamo chiamata civilizzazione, e civilizzazione significa, almeno a tutt’oggi, crescita. Decrescita, al contrario, significherebbe una tragedia planetaria, perché nessuno vuole tornare indietro. Significherebbe rivolte, repressioni, guerre, omicidi di massa, tutto in contrario della felicità o almeno della speranza e dalla soddisfazione offerte da una macchina o da un supermercato. Non dimentichiamo che se il capitalismo ha vinto è perché, ormai non solo in Occidente, è stato ed è in grado di mantenere le proprie promesse materiali, e per questo ha travolto non solo il socialismo ma anche religioni ben più antiche, a cominciare dal cristianesimo.
E tuttavia… tuttavia i decrescisti hanno ragione. Se non altro perché desiderio e speranza non hanno limiti mentre il nostro mondo fisico (questo pianeta) è limitato – come superficie e come risorse – e oltre non c’è nulla: Marte è un freddo deserto, e una eventuale seconda terra da sfruttare dista decine o centinaia di anni luce essendo quindi del tutto irraggiungibile.
E allora? Fine della corsa? Certo, un trappola. Non possiamo non continuare sulla strada dello svilupp (lo chiedono alcuni miliardi ai africani, asiatici e latinoamericani, e naturalmente gli occidentali che di sviluppo ne vogliono ancora di più…) e contemporaneamente non possiamo continuare lungo la medesima. Una nuova strada, allora. Ma quale? Come conciliare desiderio e realtà? Non ne ho la più pallida idea, ma purtroppo non ne hanno la più pallida idea nemmeno Latouche e altri personaggi dello stesso calibro (tutti degni della massima stima, detto senza ironia). Il punto è che decrescere significherebbe bloccare l’accumulazione del capitale, ripensare quasi tutte le tecnologie esistenti e il loro uso, rivoluzionare culturalmente cuori e menti di sette miliardi di persone, rinunciare alla vacanza low cost alle Maldive (ormai, è alla portata di una sciampista, sia pure fuori stagione), e magari tornare a spingere una leva piuttosto che sfiorare un sensore. Difficile, terribilmente difficile… forse inaccettabile, almeno dalla grande maggioranza dei membri della specie umana.
Grazie
Nino Salamone
Breve risposta a Nino Salamone.
Per quanto riguarda specificamente la visione del percorso storico dell’umanità in termini “economistici”, poiché identificato totalmente con la crescita illimitata del surplus, mi pare opportuno rinviare al libro Logica della storia e comunismo novecentesco, di Costanzo Preve e Roberto Sidoli – pubblicizzato nella vetrina del presente sito –, che tratta proprio la questione dell’apparire, ad un certo punto della storia umana, di un “surplus costante” [la costanza è riferita al suo ottenimento, da un certo punto in poi, e non certo alle sue dimensioni quantitative nel tempo] e della sua influenza sullo sviluppo successivo delle società umane, secondo una linea collettivistica [la linea "rossa"] oppure più frequentemente classista [la linea "nera"], quali alternative che possono incontrare ad ogni importante bivio storico.
Oltre all’”economismo” dichiarato, nel commento emerge anche un robusto grado di “tecnologismo” e complessivamente – attraverso l’ipotesi di uno sviluppo materiale senza fine, economico e tecnologico, che costituirebbe l’aspetto principale e decisivo dell’intero percorso storico dell’umanità – una visione totalmente interna alla famigerata ideologia del “Progresso” capitalistico, secondo la quale si giudicano passato, presente e futuro dell’umanità assumendo una concezione del tempo squisitamente “lineare”, peculiare delle società della crescita capitalistiche e nata con loro, quale sequenza di punti in cui il successivo non potrà che essere sempre migliore del precedente, in particolare dal punto di vista della disponibilità di beni e di risorse.
Questo commento, con il quale si giustificano crescita produttiva illimitata e scambio mercantile quale sostanza del rapporto sociale, sembra profondamente influenzato da una visione filo-capitalistica e sviluppista, che inesorabilmente ci riporta alla “Grande Narrazione Storica” [lyotardiana, post-strutturalista e postmoderna] dell’emancipazione/ liberazione umana da ogni male [libera nos malos!], realizzata attraverso il libero dispiegarsi della crescita materiale, economica e tecnologica, di matrice capitalistica, fino alle sue estreme conseguenze.
Per tale via, il capitalismo diventa ben più di un modo di produzione storico, legittimandosi come “esito necessario e finale” del percorso storico intrapreso fin dalle origini dell’umanità, e lo sviluppo economico-tecnologico illimitato – distruttivo per l’uomo e per l’ambiente – risulterebbe un destino umano ineluttabile.
Non è certo così, e i decriscisti, pur considerando le loro vistose carenze teoriche e le loro ingenue fiducie, derivanti con ogni probabilità da carenze nella stessa analisi economico-sociologica in relazione al rapporto sociale capitalistico, alla società di mercato e agli stessi elementi strutturali del modo di produzione dominante, hanno pur sempre qualche buona ragione di critica …
Sono costretto a fermarmi per ragioni di tempo, anche se sarebbe necessario proseguire ed approfondire, con qualche osservazione sull’idea della decrescita e sulla sua genesi.
Saluti anticapitalisti e antiglobalisti a tutti
Eugenio Orso
Caro Orso,
credo che dalla tua risposta emerga un equivoco di fondo, peraltro giustificabilissmi visto che, scientificamente, non ci conosciamo.
Ora: non si tratta di essere filocapitalisti, globalisti o “uniliniearisti” (personalmente non sono nessuna di queste cose), ma soltanto di spiegare il percorso storico (non credo di esserci riuscito in poche righe, naturalmente) che ha condotto l’umanità dalla caverna alla megalopoli. Non amo la megalopolli (ignoro se avrei amato la caverna), ma devo prendere atto della sua esistenza e del percorso che l’ha generata. Devo lasciare impregiudicato anche se si tratti di un progresso o meno, cosa che implicherebbe un giudizio sulla modernità che la sociologia (la mia disciplina) fa una grande fatica a produrre.
La mia è una posizione weberiana (ti invito a leggere, più probabilmente a rileggere, “La scienza come professione” e le ultime pagine de “L’etica protestante”), ovvero quella della “sociologia comprendente” che tenta di spiegare cercando di mettere in secondo piano i giudizi di valore e privilegiando i giudizi di fatto.
Di fatto, appunto, il percorso della specie umana è quello che è, e quanto ai tentativi di percorrere altre strade non possono non ricordare il colossale fallimento dell’esperimento sovietico, al quale intere generazioni hanno sacrificato sè stesse dal 1917 fino al crollo del 1989 (il “picconatore”, miserevole destino, fu un ubriacone, un certo Eltzin…).
Non amo il capitalismo, dicevo, e ho diverse perplessità in merito ad uno sviluppo unicamente tecnologico e privo di riflessività. Tuttavia, come Weber e Nietzsche (quest’ultimo con disperazione, fino alla follia) devo prendere atto della sua seduttività, flessibilità, capacità di risposta alle sfide. Almeno fino ad ora, ma proprio ora la parola “comunismo” è semplicemente impronunciabile, purtroppo… Personalmente sono stato comunista e non me ne vergogno.
Il problema, e qui (cosa che sembri trascurare anche se l’ho scritto a chiare lettere) casca l’asino, si pone in termini – non sono gli unici, ma solo quelli che mi sono più familiari – di teoria dei sistemi, alla Luhman. Mi ripeto e spiego (troppo in breve, temo).
Un sistema vive del suo rapporto con l’ambiente, dal quale preleva e nel quale reimmette risorse mantenendo un equilibrio. Ora, il capitalismo, proprio perché si fonda su una promessa e su una pratica di infinità, gli equilibri li distrugge. In particolare, sul lungo periodo, altera definitivamente il proprio ambiente (la natura) depauperandolo di risorse e sconvolgendone le naturali dinamiche. Un sistema fondato sullo sviluppo senza fine – non a caso la teoria economica classica e neoclassica ignora il concetto di limite e presuppone l’infinità delle risorse – si trova invece ad operare in un ambiente limitato (questo pianeta) e dalle risorse finite. Ecco allora, e per questo concludevo dicendo che nonostante tutti i “decrescisti” hanno ragione, che la questione ecologica diviene la questione del nostro secolo.
Purtroppo non abbiamo la minima idea di come affrontarla. La vecchia strada potrebbe rivelarsi – si rivela, anzi – non più praticabile, e una nuova strada è tutta da costruire (ammesso, stanti le attuali tendenze culturali di massa, che sia costruibile). Forse, era la mia conclusione, la specie umana è in trappola.
Tutto qui, per ora. Ma, per piacere, nonm attribuitemi prospettive e propensioni che non sono mie. Dispostissimo, comunque, a continuare la discussione.
Con stima
Nino Salamone
Caro Orso,
un’aggiunta su un paio di argomenti, peraltro connessi. Il tema lyotardiano, almeno secondo l’interpretazione corrente, non riguarda le grandi narrazioni in sè, ma la FINE delle grandi narrazioni (compresa quella moderna), il che introdurrebbe l’unica conclusione a suo avviso possibile: la modernità è morta, e quello che viene dopo può essere solo qualificato come “post”. Ho scritto, anni fa, una monografia sul tema (questo sito ha avuto la bontà di riproporne l’introduzione), ma ora nutro diversi dubbi su quello che scrissi dieci anni fa. Le motivazioni sono semplici: non soltanto l’Occidente non riesce ad andare oltre la prospettiva moderna (prescindo, qui, dalle poche coscienze critiche), ma per di più l’Oriente (Cina, India,…) la scelto la stessa strada: capitalismo, diseguaglianza, creazione di una “classe media” preda del consumo compulsivo, ecc. Questo, mentre attraverso l’immigrazione milioni di uomini e donne si accostano, con gli occhi lucidi di speranza, alla stessa modernità. Lo fanno rischiando la vita scavalcando il “muro” di El Paso, sui barconi che attraversano il mediterraneo, nelle viscere dei TIR… Evidentemente, almeno per loro, la grande narrazione moderna è più viva che mai, anche se richiede costi umani terribili. Un tema da riprendere, evidentemente.
Secondo punto: non vedo, ma forse di tratta di limiti miei, alcunché di “rosso” in un’economia in parte statizzata o comunque più o meno largamente sotto controllo statale. Di economie di questo tipo è piena la storia: gli imperi Inca e Maya, il tardo impero romano dopo le riforme dioclezianee e, perché no, l’Italia degli Sessanta (ricordi l’IRI?), la Gran Bretagna laburista di Harold Wilson ecc. Ma che centra questo col “rosso”?
Certo, le forme di proprietà sono importanti, ma un capitalismo dirigista non è meno capitalista di un capitalismo liberista. Il punto sono i meccanismi dell’accumulazione, e a quanto mi risulta tanto in caso quanto nell’altro essi si fondano su D-M-D’ (buon vecchio Marx!). Il (meno) buon vecchio Deng fu molto chiaro in proposito: non importa se un gatto sia bianco o nero…; arricchirsi è glorioso… Quale capitalista, liberista o meno, non sottoscriverebbe simili affermazioni?
Dopo di che, un’economia sotto controllo statale può controllare meglio i meccanismi della redistribuzione, rendere meno laceranti i contrasti sociali, possedere una visione strategica più ampia… OK, ma non risolve il problema di cui stiamo discutendo: la contraddizione fra una specie che drena risorse secondo ritmi di crescita esponenziali e la limitatezza FISICA delle risorse stesse. In questa prospettiva, Shanghai non è diversa da New York o da Città del Messico. Sempre di megalopoli si tratta, e la megalopoli (ormai oltra la metà della popolazione mondiale vive nelle città) potrebbe segnare, in negativo, il destino della specie umana.
Un saluto
Nino Salamone
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Per Nino Salamone
E’ vero quello che scrivi.
J-F Lyotard non fu soltanto un pensatore cosiddetto postmoderno, ma fu lui per primo, se non erro, a definire questo periodo storico “post-modernità”.
Il suo scopo, con tutta evidenza, era quello di “mettere in liquidazione”, fra tutto ciò che ha classificato come grande-narrativo [n° 5 elementi, emancipazione attraverso il capitalismo, l’economicizzazione e il libero mercato compresa], in modo particolare l’emancipazione umana grazie al raggiungimento della fase finale comunistica.
Incredulità davanti alle grandi-narrazioni, arrugginimento del dispositivo di legittimazione attraverso di loro, commercializzazione del sapere, questo ed altro caratterizzerebbe La condizione post-moderna, secondo il titolo dell’opera principale di Lyotard.
Fine o non fine delle grandi-narrazioni,ed in particolare di quella riguardante l’avvento del comunismo, ci sono molti soggetti che ancora ci credono, o che ci hanno creduto negli ultimi decenni, nonostante il supposto avvento di un era post-moderna.
Finché gli uomini, da intendersi come subalterni oppressi, avranno bisogno di certezze rassicuranti, di conforto, di una qualche speranza futura che può consentirgli di sopportare le asprezze del presente, gli aspetti metanarrativi non potranno essere “rottamati” o mandati definitivamente in soffitta, post-moderno o non post-moderno, ma forse, e più probabilmente, potranno essere sostituiti da nuove e future grandi-narrazioni.
Lasciando perdere la post-modernità lyotardiana, la Modernità stessa che la precede altro non è che un diverso nome del Capitalismo, un escamotage per far digerire meglio la sua affermazione storica, ed è quindi l’altro nome, più accattivante e “vischioso”, che si dà al rapporto sociale capitalistico.
Mi fa molto piacere che consideri la Cina un paese interamente capitalistico, a differenza di coloro che la esaltano, ancor oggi [poveracci! Ti assicuro che ce ne sono … vedi il sito La Cina Rossa], come alternativa socialista vincente al liberalcapitalismo anglosassone!
In effetti, il capitalismo distruttore cinese è stato suscitato dalla globalizzazione nella sua prima fase, quella squisitamente neoliberista, e si sta evolvendo come una sorta di “mercatismo orientale” – sulla base del paradigma dell’”economia socialista di mercato” denghiano – alternativo a quello occidentale, ma sempre e rigorosamente entri i confini del Capitalismo Transgenico del terzo millennio e della globalizzazione.
Se in Cina è rimasto qualcosa di comunista/ socialista, questo è destinato ad essere rovesciato nel prossimo futuro, come il vecchio detto “i capitalisti ci venderanno anche la corda per impiccarli”, che è diventato, data la potenza commerciale cinese, “venderemo noi la corda ai capitalisti [occidentali, ovviamente] per impiccarsi”.
Anche la proprietà pubblica del suolo significa ben poco, se i contadini sono allontanati dalla terre, nell’ampliamento delle aree urbane e industriali, e per creare eserciti di operai sottopagati in funzione di uno sviluppo spietatamente capitalistico “da prima rivoluzione industriale”.
Statalizzazione dei mezzi produttivi non significa vera socializzazione degli stessi, e non identifica necessariamente una forma compiuta di collettivismo.
Non a caso il sistema sovietico è stato definito, a suo tempo, capitalismo di stato, o ancor meglio “capitalismo di partito”, in quanto si trattava di un sistema appartenente alla famiglia capitalistica – da intendersi come modello fortemente alternativo al liberalcapitalismo americano-anglosassone – pur con qualche elemento collettivista.
I capitalisti, cioè coloro che controllano i mezzi di produzione, possono tranquillamente farlo attraverso strutture pubbliche, anziché in forma squisitamente privata.
Perché si stabiliscano socializzazione e collettivismo ci vuole ben altro.
Per quanto riguarda il modo di produzione orientale e i sistemi dispotici e centralizzati che lo caratterizzavano, si può forse tentare qualche significativa analogia con il modo di produzione feudale, ma permangono le grandi differenze culturali a segnarne l’originalità.
E’ vero che l’impero romano dopo le riforme di Diocleziano [che furono anche politiche e non solo fiscali ed economiche, come la tetrarchia spartitoria dell’impero] è rimasto una società classista che mostrava differenziali di ricchezza crescenti fra le classi.
Ma non bisogna confondere modi di produzione storicamente diversi, e tornando all’ultimo, cioè al capitalismo, io sostengo che il fascismo, il nazismo e lo stesso comunismo sovietico hanno rappresentato modelli alternativi al liberalcapitalismo di matrice anglo-americana, comunque interni alla famiglia capitalistica, una posizione che non è condivisa interamente neppure da Costanzo [Preve], il quale ritiene che quella sovietica sia stata comunque, e nonostante i suoi “difetti” [presenza di classi differenziate, burocrazia partitica tendente a “sostituire i capitalisti privati, eccetera], una forma di collettivismo.
Ne consegue che, a sommesso avviso dello scrivente, keynesismo e neoliberismo [a livello di teoria economica], società di mercato capitalistica e socialismo di mercato cinese, dirigismo e liberalcapitalismo, sono in ultima analisi rapportabili al Capitale, inteso come rapporto sociale dominante e onnivasivo.
Per quanto riguarda i limiti allo sviluppo capitalistico, questi si manifesteranno inevitabilmente, nei prossimi decenni della prima metà del secolo.
Pur essendo importanti i “limiti ambientali”, nei passi che seguono mi riferisco prioritariamente a quelli sociali:
Il problema è quando e come accadrà, in quali forme e con quali esiti, e non se accadrà, essendo chi scrive profondamente convinto che esistono dei limiti fisici e psicologici alla compressione in termini materiali dei subordinati e alla loro manipolazione, delle soglie invalicabili di esproprio che neppure questo capitalismo, il quale sta raggiungendo l’apice della propria potenza e il culmine della propria trasformazione storica, potrà superare restando indenne.
In prospettiva futura, le tensioni che oggi si accumulano sul piano sociale, all’interno dei singoli paesi, gli stessi cambiamenti geopolitici che potrebbero prefigurare un mondo “multipolare”, con l’ascesa di nuovi attori internazionali e il declino di quelli occidentali, e le ineguaglianze fra le classi che stanno raggiungendo livelli mai conosciuti nelle epoche precedenti, potrebbero non consentire ulteriori metamorfosi capitalistiche – pur attraverso lunghe depressioni, come quella del 1873–1896 e quella del ventinove, che hanno imposto revisioni profonde delle logiche sistemiche – e mettere la parola fine all’”economicizzazione-finanziariazzione” del mondo.
E’ per tali motivi [o meglio, anche per tali motivi] che lo scrivente sostiene che fra la fine del Novecento e il primo decennio del ventunesimo secolo siamo entrati in un “nuovo Evo” della storia umana, e non semplicemente in una nuova “fase” capitalistica, pur importante e connotata da significativi cambiamenti, paragonabile, ad esempio, all’avvio della seconda rivoluzione industriale durante l’ultimo quarto dell’Ottocento, oppure al vero e proprio passaggio dal capitalismo proprietario borghese a quello manageriale nella prima metà del Novecento.
In altri termini, si sta affermando un nuovo modo di produzione sociale legato all’affermazione planetaria del liberalcapitalismo finanziarizzato, al nuovo paradigma della creazione del valore finanziario, al dispiegarsi di un economicismo onninvasivo e alla esiziale manipolazione dei subalterni, un po’ come è accaduto nel passaggio dall’Evo Medio alla Modernità con il provvisorio affermarsi di un peculiare modo di produzione durante la lunga transizione: il modo di produzione di una società che fu protoborghese e tardo-aristocratica, alla quale ha fatto seguito l’avvento del primo capitalismo.
Chiedo scusa per la prolissità, ma mi è sembrato necessario spiegarmi un po’ più approfonditamente e in modo chiaro.
Spero di esserci riuscito.
Cari saluti e a presto
Eugenio Orso
Caro Orso,
molta carne al fuoco nella tua ultima risposta, e ancor più nel tuo commento a “L’oggetto e il metodo”, a proposito del quale devo dire che,con la lettura dell’intero testo, troveresti convergenze assai superiori a quelle che riscontri ora.
Sono convergenze oggettive, al di là delle terminologie e delle griglie teoriche utilizzate, perché alla fin fine la realtà non può non imporsi agli occhi di un ossevatore attento. E la nostra realtà è certamente quella di una mutazione della modernità/capitalismo (o capitalismo/modernità, mi è abbastanza indifferente) che si lascia comunque alle spalle la fase della storia umana caratterizzata dalle rivoluzioni scientifiche, da quelle industriali e dalle culture della cittadinanza (ma su di esse comunque è cresciuta).
Il punto è che siamo molto indietro nella analisi, e anche se qualcuno è convinto di possedere la verità (non faccio nomi) lo schema dei suoi contenuti deve ancora essere largamente precisato. Societò narcisista (Lasch), società degli individui (Elias), società dei consumi (Baudrillard), modernità liquida (Bauman), seconda modernità (Beck), progetto incompiuto (Habermas)… le definizioni si sprecano, e ciascuna contiene osservazioni non traascurabili. E’ l’insieme che non si lascia catturare.
Difficile mettere ordine, ma forse non impossibile attraverso un lavoro in qualche modo coordinato e diviso fra alcune teste pensanti. Non avete mai pensato a un incontro (odio la parola “convegno” anche se partecipo, non ho alternative, a parecchi convegni) fra alcune di simili teste, tanto per verificare una simile possibilità? Ovviamente con il minor uso possibile di filtri ideologici e con la massima disponibilità al confronto. Tanto per cominciare…
Insomma, è una specie di proposta.
Nino Salamone
il destino della specie umana professor salamone?
lo cerchi nell’ arroganza, nel potere e nell’arbitrio di cui l’ambiente universitario è stracolmo,
convegno? teste pensanti? nell’università italiana??! i criteri di selezione che applicate tutti i giorni non sono ovviamente trasparenti ed onesti, l’onestà intellettuale non sapete neanche vagamente cosa sia, o forse l’avete semplicemente dimenticato nelle vostre lotte quotidiane ed intestine di potere. i criteri di selezione e partecipazione a convegni eccetera sono il trionfo e la celebrazione dell’ipocrisia, inutili, vane e meschine dimostrazioni di “forza” ed influenza, e, parallelamente, servitù ed acquiscenza. Quella che si celebra tutti i giorni nelle nostre università e nei vari convegni non è che la triste messa in scena della meschinità, dell’arbitrio e della pochezza, morale prima che intellettuale, delle” teste”. Gli intellettuali, mi rendo conto quanto questa parola possa stridere con la realtà a cui necessariamente si riferisce oggi in italia, dovrebbero essere la coscienza critica della società, ma come dice un detto africano (si proprio di quelli che secondo lei attarversano il mediterraneo perchè accecati dal luccichio del mercato, o che semplicemente cercano una vita migliore e più dignitosa) quando punti un dito contro gli altri ne hai tre rivolti verso di te. infine, abbiate quel briciolo di dignità di lasciare riposare il weber de la scienza come professione, la cui altezza morale e intellettuale è qualcosa di abissalmente lontano ed estraneo alle teste attuali, quando l’unico demone che seguite è quello dell’esercizio quotidiano ed arbitrario del vostro piccolo ed in fondo insignificante, meschino e intoccabile, potere.