Note in margine agli “Appunti sulla crisi” di Gianfranco La Grassa

lug 4th, 2010 | Di | Categoria: Dibattito Politico

di Piero Pagliani

Gli “Appunti sulla crisi” di Gianfranco La Grassa (d’ora in poi GLG) sono un esempio chiaro di cosa si deve discutere (http://www.conflittiestrategie.splinder.com/).

Che si sia d’accordo al 100% o lo si sia in percentuali minori, questo è ad ogni modo il livello di discussione e questi sono i temi da sviluppare. Se oggi nel 2010, con tutto quel che sta accadendo, non si capisce questo ci si può solo meritare di essere chiamati “bamboccioni della politica” (con tutto il rispetto dei “bamboccioni” mazziati e poi insolentiti in modo bipartisan da personaggi come Padoa Schioppa e Brunetta, pavidi coi più forti ma insolenti coi più deboli).

E’ un articolo quindi che vale la pena discutere. Tuttavia non si può certo chiosare una esposizione di tale ampiezza in un solo commento.

A braccio direi che a mio modo di vedere il paragone con le fasi della crisi sistemica britannica sono un po’ sfalsate, quanto meno cronologicamente, tenuto comunque conto che i meccanismi con cui si è esplicata la crisi del ciclo monocentrico britannico e quelli con cui si sta esplicando quella del ciclo monocentrico statunitense sono sotto alcuni aspetti molto differenti.

Comunque, in estrema sintesi:

a) l’inizio della crisi del ciclo statunitense si può datare all’agosto del 1971 quando Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, cosa che avvenne quando gli alleati europei si misero troppo prolungatamente e troppo insistentemente a pretendere di incassare in oro i dollari di carta che ricavavano dai loro surplus commerciali (lo facevano addirittura a ritmo mensile). Ciò avrebbe avuto conseguenze deleterie per la politica di potenza degli USA (compresa – e in primo piano per le sue conseguenze economiche – quella militare).

Lo stesso GLG ci ricorda incidentalmente che oggidì i Pesi europei sono di gran lunga più subordinati agli USA di quanto lo fossero precedentemente (basti confrontare De Gaulle con Sarkozy e si capisce subito). Personaggi come Carlo Azeglio Ciampi sapevano bene quel che facevano quando insistevano per un euro “depoliticizzato” e rispondente solo ai dettami monetaristi (incidentalmente quelli teorizzati dai Chicago boys che si erano già avventati come vivisezionisti simil-nazisti sul terreno coperto di cadaveri del Cile di Pinochet: alla faccia dell’antifascismo dei guru della nostra sinistra – in assoluto la peggiore del mondo).

Dopo qualche tentativo gli USA capirono però come ricondurre il mondo “non comunista” sotto le proprie regole e subordinarlo politicamente – ergo economicamente – ai propri interessi (ma riuscì a farlo in parte anche con la Russia). Benché esso fosse un modo che possiamo anche definire geniale – dominare il mondo col proprio debito e non col proprio credito – era tuttavia un modo di gestire la crisi ormai avviata, non di prevenirla o di superarla.

b) La finanziarizzazione e la globalizzazione esportarono quei meccanismi in tutto il mondo a partire dagli inizi degli anni 90 e quindi in parte li cambiò per adattarli a una realtà in quel momento assolutamente monocentrica: l’URSS era appena imploso (se non si capisce che la cleptocrazia di Eltsin che aveva fatto della Federazione Russa terreno di scorribande per le finanziarie e le imprese statunitensi e in subordine europee, che le “riforme liberiste” di Rajiv Gandhi in India e che Mani Pulite in Italia facevano parte di un medesimo quadro strategico – ripeto: “quadro strategico”, non complotto mondialista, per carità – è meglio dedicarsi al gioco delle bocce e non alla politica).

In definitiva, mentre la supremazia inglese dovette fare i conti durante la sua ascesa con un contropotere territoriale europeo, cioè la Francia napoleonica, quella statunitense li fece a crisi già in atto con un diverso potere territoriale europeo: il “Blocco Comunista”.

Ne seguì che l’Inghilterra poté dilagare mentre stava costruendo la sua potenza mondiale mentre gli USA poterono dilagare quando la propria egemonia mondiale era già in crisi. Ciò spiega perché la fase di monocentrismo assoluto degli USA è stata così breve (non tanto però da non dare alla testa alla maggioranza dei maîtres à penser).

Ovviamente la vittoria statunitense nella guerra fredda diede nuovo impulso a quegli strumenti, specialmente finanziari e monetari, che erano stati perfezionati per gestire la crisi e che poterono a quel punto essere applicati indisturbati in tutto il mondo (il famoso Washington Consensus).

Si ebbe così il “periodo d’oro” delle due amministrazioni Clinton.

Da noi il mondo politico con la nostra sinistra in testa si fece cantrice, anzi direi proprio “sciantosa”, della globalizzazione e delle privatizzazioni: tutti si incantavano per l’economia delle dotcom (vi ricordate tutte le scemenze estatiche riguardo Internet sciorinate a cascata in ogni campo dell’attività umana, dall’economia, alla sociologia, per arrivare alla pedagogia?) mentre qualche cosiddetto rivoluzionario pensò bene di scambiare lo strapotere monocentrico statunitense con un impero sovranazionale del capitale, banale errore osannato come un miracolo della capacità elaborativa teorica a livello mondiale, con tanto di gridolini o di urla stridule di fan no-global.

Coglie quindi totalmente nel segno l’esortazione di GLG di non farsi incantare dalle sirene mediatiche e dai teorici dei movimenti di superficie (devo anche dire che la metafora geologica di GLG mi piace molto e rende bene l’idea).

Detto incidentalmente, GLG confessa di aver preso anche lui delle belle “cantonate marxiste”. Ovviamente le ho prese anch’io. Ma chi, militando come comunista, non le ha prese? Era impossibile. C’è allora da domandarsi come mai qualcuno ne sia oggi consapevole mentre altri continuano imperterriti nella loro coazione a ripetere.

Il carrierismo accademico accennato da GLG è una parte della spiegazione – e mutatis mutandis è una considerazione che vale per la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani.

Ma c’è gente che continua a ripetere il breviario marxista (non la scienza marxiana, si badi bene) senza secondi fini, per lo meno materiali. Come mai? Una questione aperta.

c) C’è un punto che non capisco per quanto riguarda la sequenza logica, quando cioè GLG dice che “la lotta tra potenze in rafforzamento” è uno strato non superficiale “ma nemmeno ancora il più profondo, del lungo processo di transizione dal capitalismo borghese … a quello che ho denominato … dei funzionari del capitale”.

Posso pensare, conoscendo un po’ il suo pensiero, che GLG voglia dire che il livello più profondo è (marxianamente) quello dei rapporti sociali (e mi sembra che l’articolo finisca proprio su questo tema). Detto così sembra però che ci sia in gioco una dinamica a stadi (in senso lato, forse sarebbe meglio dire: “per configurazioni”) del capitalismo, che procede per vie interne, spinta da contraddizioni intrinseche. In realtà, la trasformazione del capitalismo, da proprietario-borghese a manageriale e integrato verticalmente, avviene sulla spinta dei conflitti strategici per la supremazia (così come avviene, già per Marx, la spinta alla concentrazione e alla centralizzazione dei capitali). Dato che GLG lo sa benissimo (si veda infatti poco dopo la critica alle “cantonate marxiste” su imperialismo, monopoli, composizione organica del capitale, ecc… di autori pur pregevoli da Hilferding a Sweezy), è solo una richiesta di chiarimento.

d) Benché lo abbia ripetuto più volte, GLG fa bene a ribadire ancora una volta che da Marx dobbiamo estrarre ciò che resiste alla prova della Storia. In particolare occorre evitare di ripetere a pappagallo le “previsioni” che Marx aveva dedotto dall’analisi di quello che alla sua epoca era il capitalismo pienamente dispiegato ed egemone mondialmente, cioè il capitalismo inglese.

Non starò di certo a rielencare le argomentazioni di GLG. Voglio però aggiungere che i signori che continuano a prendere le “cantonate marxiste” rispetto alla “crisi del capitale”, lo fanno spesso (che lo sappiano o meno) sulla base del cosiddetto Libro III del Capitale. Ma dopo la pubblicazione negli anni Novanta dei manoscritti originali di Marx, si è visto che ben lontano dall’essere coerentizzato, il cosiddetto “Libro III” era molto discontinuo, sia nelle categorie usate, sia nell’esposizione logica. In definitiva era in molte parti cruciali un cantiere aperto. In particolare Marx era perfettamente consapevole della difficoltà di esporre le leggi generali del credito allo stesso livello di astrazione al quale aveva potuto esporre la sua teoria della merce come cellula del modo di produzione capitalistico, e del denaro, nel Libro I, l’unico che (infatti?) pubblicò. In altri termini Marx si rendeva conto che le “leggi del credito” (e del commercio mondiale) che aveva sotto gli occhi empiricamente nel paese capitalistico egemone mondialmente di allora, erano forse troppo condizionate da scelte politiche contingenti, e quindi erano prive di una valenza astratta, ovverosia dipendevano da fattori istituzionali storicamente specifici (come mette in evidenza Michael Heinrich nella sua esegesi pubblicata in “Science & Society”, vol 60, n. 4).

Ma, possiamo proseguire noi, essendo il credito elemento centrale del sistema capitalistico, dato che “anticipa” la futura valorizzazione, se ne può dedurre che i meccanismi concreti in cui si esplica la logica generale del capitalismo – cioè, per l’appunto, la valorizzazione dei capitali – sono sensibilissimi al contesto politico. Ne nasce quindi il dubbio sensato che l’esposizione dei meccanismi delle società capitalistiche potesse avvenire secondo la precisa e geniale metodologia descritta da Marx nell’Introduzione del ’57.

Per concludere, GLG ha tutte le ragioni per ribadire che al primo posto c’è la politica.

In realtà, un’analisi delle scelte finanziarie prese dai Paesi capitalistici a partire dalla fine dell’Ottocento, e massimamente di quelle statunitensi dal secondo dopoguerra in poi, rende piena giustizia alla cautela e ai dubbi metodologici di Marx.

E’ chiaro che un articolo così denso richiederebbe un commento più ordinato e strutturato. Ma sicuramente proseguiremo questo discorso.

Per ultimo, non si può che essere d’accordo con GLG quando esorta a stare alla larga da chi predica la crisi del capitalismo e la rivoluzione comunista dietro l’angolo.

Non si capisce però perché tra questi infili anche i “comunitaristi”.

Non voglio difendere il concetto politico-filosofico di “comunitarismo” perché non essendo un comunitarista sarei un pessimo avvocato. Però vorrei avvertire GLG che i cosiddetti “comunitaristi” il 90% del loro tempo lo dedicano proprio agli argomenti esposti nel suo articolo. Il restante 10% è dedicato ai rapporti politici e filosofici tra questi temi e il concetto di comunitarismo nel suo rapporto con quello di “comunismo” di derivazione marxiana (e non marxista).

Ovviamente ci sono delle differenze di altro tipo: ad esempio i comunitaristi pongono come elemento di analisi irrinunciabile il problema del ruolo e degli interessi delle classi subalterne in questa fase. Ma non lo inseriscono in teleologie di nessun tipo.

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