Il Capitalismo “Speculativo”
giu 7th, 2010 | Di Eugenio Orso | Categoria: Contributi[Brevi note sulla natura del capitalismo contemporaneo]
di Eugenio Orso
A causa dell’ampiezza e della “irresolubilità” della crisi globale, che da un paio d’anni almeno colpisce in profondità le società del mondo occidentale e le stesse economie dei paesi “in sviluppo”, oggi si può notare un certo, rinnovato interesse per il keynesismo, il neokeynesimo e per lo stesso marxismo, se non per l’originale pensiero di Karl Marx, i quali potrebbero contenere le risposte per tentare un superamento positivo della crisi stessa, a differenza del pensiero economico [a contenuto “messianico”] neoliberista/ neoclassico dominante e maggioritario negli ambienti accademici, che “sacralizza” il Libero Mercato proclamandone l’intangibilità e l’assoluta superiorità sulla Politica, sulla Filosofia, sull’Etica, sulla Religione, e su tutto ciò che l’elaborazione culturale umana ha prodotto nei secoli e negli evi precedenti.
Si fa un gran parlare della panacea rappresentata dal capitalismo sociale, del ridicolo ed illusorio paradigma della responsabilità sociale dell’impresa, di un generico investimento sulla conoscenza per “attrezzarsi” e affrontare i competitori globali, di un’altrettanto generica necessità di controllo dei Mercati finanziari e di amenità di questo tipo, con un atteggiamento compromissorio – sperando di “salvare il salvabile” ed evitare la prospettiva di un default planetario –, senza mettere in discussione, e in molti casi ignorando, quello che è il vero nucleo sistemico: l’autofondazione realizzata dell’economia su se stessa, assolutizzatasi nel passaggio dalla seconda alla terza società della crescita e caratterizzata dalla prevalenza su tutto, su ogni altro aspetto della vita sociale ed umana, della creazione del valore finanziaria, azionaria e borsistica a scopi privati di dominio [Global class].
Non basta certo “rispolverare” con piglio da nostalgici, in una situazione di generalizzata impotenza e di vincoli sopranazionali e globalisti alle politiche concrete, il pensiero dell’illustre albionico di Cambridge, sir John Maynard Keynes, oppure quello del grande filosofo idealista tedesco di Treviri, Karl Heinrich Marx [Che Dio li benedica! Diremo ironicamente, data la nostra attuale condizione], o di entrambi in una confusione non da poco, quali “icone” salvifiche sopravvissute al distruttivo cambio di Evo che stiamo vivendo, se non vi è ancora una ferma volontà e non vi sono ancora le possibilità effettive per un’auspicabile e completo superamento sistemico.
I miliardi di euro impiegati per evitare il collasso dello stato Greco, ad esempio, ed i miliardi delle manovre governative, provenienti dalle tasche dei lavoratori dipendenti, dei precari e dei pensionati, o da tagli di spesa selvaggi che influiranno sulla spesa sociale nei prossimi anni, sono destinati a “salvare” la moneta comune europea – come ci raccontano gli stessi governi – e rappresentano sacrifici necessari per evitare di scivolare nella condizione greca, ma altro non sono, in realtà, che l’effetto finanziario [destinato a ripercuotersi inevitabilmente e drammaticamente sul piano sociale] delle imposizioni della Classe Globale, la quale, in perfetta sintonia con le logiche di questo capitalismo, ricatta, si appropria delle risorse in via diretta o indiretta – comprese quelle delle manovre imposte ai governi, dovute a “Mercati” e “Investitori” – e modella la struttura monetaria e finanziaria del mondo o almeno di una parte significativa di esso, modificando di conseguenza anche la realtà economica e sociale.
I governi eseguono pedissequamente, come nel caso di quello italiano in carica, cercando di non toccare, o di toccare solo marginalmente, le aree di consenso elettorale ritenuto “sicuro”, le loro “riserve di caccia” locali [ad esempio la piccola evasione fiscale incarnata da bottegai e impresari] e contribuiscono a depauperare rapidamente, per questa via, assieme al resto della società lo stato stesso.
Se la politica ufficiale è sostanzialmente prona, davanti all’autorità dei “Mercati” e degli “Investitori” – da intendersi come riusciti mascheramenti della Global class – i subalterni, coloro che subiscono tali imposizioni depauperanti senza ricevere nulla in cambio che non sia precarietà e de-emancipazione, si rivelano sostanzialmente incapaci di esprime una reazione all’altezza della gravità della situazione, o addirittura non reagiscono.
Quanto precede non è dovuto esclusivamente al ventennale processo di flessibilizzazione/ precarizzazione di massa per la costruzione sociale dell’uomo precario, ma anche alla mancanza di alternative teoriche capaci di generare paradigmi alternativi, di suscitare un vero antagonismo e di legittimare una genuina opposizione politica.
Da molto tempo il discorso del “superamento del capitalismo”, che ha attraversato il Novecento e alimentato la speranza in milioni di uomini, è confinato quasi esclusivamente negli ambienti residuali del marxismo ortodosso, in cui si riproducono le sempre più deboli fiducie “anticamente” suscitate della teoria dei cinque stadi, o dal “crollismo” dello scorso secolo [teorie relative al crollo imminente del capitalismo] basato sostanzialmente su una teorica e sopraggiunta impossibilità dello sviluppo delle forze produttive da parte del capitalismo, che ne avrebbe compromesso la possibilità di perpetuarsi, od ancora, le fiducie alimentate da una sorta di generico “messianesimo residuale” perdente e senza sbocchi concreti, contrapposto a quello neoliberista ancora vincente nonostante la crisi in atto.
Si sta verificando, nel mondo marxista del crepuscolo sopravvissuto all’implosione dell’Unione Sovietica, quello che accadde agli ultimi ellenisti, i quali, diventati minoritari e sempre più ininfluenti nella società antica dominata ormai dal cristianesimo, si auto-illudevano sperando in una impossibile “inversione di marcia della storia”, che avrebbe consentito il ritorno ai culti tradizionali e al vecchio ordine.
Spiace constatare che anche chi è partito, nell’italica penisola, con la lodevole intenzione di “Ripensare Marx”, per cercare di costruire una nuova teoria anticapitalistica senza rinnegare le origini marxiste, ma salvando del pensiero originale di Marx ciò che può essere ancora utilizzato, è oggi diventato al più maxweberiano, se non fin troppo “geopolitico”, aderendo, di fatto, a dissennate e grottesche teorie che trasformano in ideologia la geopolitica [un certo euroasiatismo, ad esempio] e monitorando esclusivamente ”il Conflitto Strategico nel Nuovo Olimpo” fra gruppi di dominio della Classe Globale, in una sorta di evidente “avvitamento teorico”, o meglio in una caduta a vite che implica la sostanziale accettazione delle dinamiche del Capitalismo Transgenico finanziarizzato e del potere assoluto dei suoi agenti globalisti – non osando metterli in discussione, o peggio ancora, non comprendendoli nella loro più intima sostanza – e schierandosi, come tragicomica conseguenza, con i globalisti cinesi piuttosto che con quelli americani, con i russi di Putin piuttosto che con gli Stati Uniti, e via di questo passo.
Tornando a cose più serie, la stessa via alternativa mostrata al mondo dal “socialismo bolivariano” ed espressa dalle politiche di alcuni paesi appartenenti all’America Indio-Latina [in primo luogo il Venezuela], non rappresenta, nella realtà, un tentativo di costruire il nuovo, mancando con tutta evidenza anche le basi teoriche per poterlo fare, ma più semplicemente un uso coraggioso di vecchi strumenti [fra i quali le tanto esecrate nazionalizzazioni, che turbano il Libero Mercato] per poter resistere all’aggressione globalista e alla “penetrazione” del nuovo capitalismo finanziario.
Secondo la visione di Costanzo Preve, alla quale lo scrivente ha già da tempo aderito senza alcuna riserva, il capitalismo giungendo fino a noi ha attraversato tre “stadi“, con diretto riferimento alla filosofia di Hegel e, nello specifico, alla Tesi, all’Antitesi e alla Sintesi.
E’ bene descrivere sinteticamente questi tre stadi.
1) Nel primo stadio, che Preve ha chiamato “Astratto”, il capitalismo si impone come modo di produzione [sociale] dominante, per effetto di un grande cambiamento, avvenuto in Europa, che è in primo luogo culturale ed è maturato a partire dalla fine dell’Evo Medio, ha attraversato il Cinquecento, ed ha prodotto frutti “apprezzabili” nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo. Accumulazione e realizzazione sistematiche, estrazione del plusvalore, ossia del pluslavoro misurato dall’equivalente monetario universalmente accettato, irregimentazione delle masse nella fabbrica, rapida distruzione del tessuto sociale originario, eccetera, costituiscono altrettante caratteristiche note e macroscopiche di questo modo di produzione. Il capitalismo “delle origini” è squisitamente proprietario e borghese, ma già tende alla crescita dimensionale senza limiti e manifesta una sua “tara genetica”, la ricerca del più basso costo di produzione [si rilegga, a tale riguardo, la ferrea legge dei salari di David Ricardo]. La struttura sociale dominata dall’elemento borghese muta, con la scomparsa del vecchio popolo e la nascita del proletariato, ma non vi è ancora la piena manifestazione del conflitto di classe e dei suoi effetti, quale contraddizione di fondo.
La Tesi che si afferma.
2) Nel secondo stadio, quello “Dialettico”, si manifesta in piena luce la principale, arcinota, contraddizione capitalistica, che sintetizzeremo per brevità nella classica espressione della “lotta di classe” fra i dominanti e i subalterni, rappresentati, in una dicotomia sociale essenziale, dalle classi storiche capitalistiche della Borghesia e del Proletariato. Il capitalismo muta per effetto delle crisi periodiche e da proprietario e borghese, ad un certo punto e grazie anche alla crescita dimensionale, alla necessità di capitali sempre maggiori, all’ingestibilità della nuova complessità da parte di un solo individuo o di alcuni membri di uno specifico nucleo familiare, diventa “manageriale” [nascita della public company, dell’azionariato diffuso, della grande corporation e diminuzione dell'importanza del "padrone delle ferriere"]. La Proprietà, in non pochi casi, stacca i coupon, gode dei frutti dell’estorsione del plusvalore [che continua imperterrita], ma si allontana progressivamente dalla gestione. In questo stadio, il capitalismo mostra diversi modelli alternativi, fra i quali emerge, per effetto delle guerre mondiali che hanno sconvolto il Novecento, quello liberista anglo-americano e pur tuttavia attraversa, dopo il secondo conflitto mondiale, un breve, trentennale periodo di emancipazione dei subalterni, a scapito dei profitti privati, con il welfare, la promozione sociale, l’applicazione concreta di alcune politiche “dal volto umano”, la spesa pubblica mirata a migliorare le condizioni di vita di una fetta importante della popolazione. In queste scelte emancipatrici hanno pesato la diffusione delle teorie keynesiane e neokeynesiane, nonché la presenza e la “concorrenza” dell’alternativa sovietica, dietro la quale aleggiava pur sempre lo spettro della lotta di classe. Tutte le trasformazioni capitalistiche nello stadio “Dialettico” hanno risentito, naturalmente, degli effetti del confronto di classe fra Borghesia e Proletariato e della necessità, affinché il sistema si mantenesse, di limitare l’antagonismo sociale, anzi, di “assorbirlo” all’interno del sistema stesso e dei suoi immaginari.
L’Antitesi che si manifesta.
3) Nel terzo stadio, quello attuale, che Preve ha chiamato “Speculativo” dal latino speculum [specchio], il capitalismo “si guarda allo specchio”, si riconosce nella sua “pienezza”, raggiungendo il più alto grado di consapevolezza di sé – corrispondente al raggiungimento dell’autocoscienza hegeliana – e sembra non incontrare più limiti. Si realizza pienamente l’autofondazione dell’economia su se stessa, come compimento di un processo di profonda trasformazione culturale maturato dalla fine del Medioevo e giunto con i suoi effetti fino a noi, ed inizia rapidamente a cambiare, in profondità, la strutturazione sociale: Classe Globale e Classe Povera, in luogo di Borghesia e Proletariato. Si afferma un nuovo paradigma che sussume anche la “classica” estorsione marxiana del plusvalore: la Creazione del Valore di natura finanziaria, azionaria e borsistica che “tritura” uomini e apparati produttivi nel breve, senza alcun riguardo per la dimensione sociale e la stessa prospettiva di un futuro possibile per l’umanità tutta. Se nello stadio precedente la pianificazione, rivolta al futuro, ha avuto un ruolo e un senso, a partire dai contesti macro e micro economici, ora sembra che non ha più alcun ruolo e valore, ed anzi, rappresenta un ostacolo al conseguimento dei “target”, perché l’orizzonte è limitato al periodo breve o brevissimo, la qual cosa si riflette anche nella vita dei singoli individui, non soltanto nelle pure dinamiche aziendali, provocando guasti esistenziali irreparabili e “trasformazioni” indesiderabili [per i subalterni, naturalmente]. In questo stadio, che corrisponde al nostro presente, si inquadrano i grandi e drammatici temi della svalorizzazione del Lavoro umano, delle nuove alienazioni e della manipolazione culturale ed antropologica per la costruzione sociale dell’uomo precario.
La Sintesi finale del “Capitale Autocosciente”, ma non certo la fine della storia umana.
Queste definizioni, pur chiarissime, non sono propriamente “operative”, non intendono certo fornire i lineamenti per la costruzione di una nuova teoria economica, che spieghi nel dettaglio “tecnico”, internamente alle logiche sistemiche e fatalmente in loro dipendenza, le ragioni della caduta del PIL mondiale piuttosto che le ampie fluttuazioni dei prezzi delle materie prime [del petrolio] o i movimenti dei tassi di interesse verificatisi negli ultimi anni, con il conseguente superamento della cosiddetta teoria neoclassica/ neoliberista che giustifica “ideologicamente” e in realtà non spiega, ma fanno ben comprendere, ad un livello superiore di analisi, che oggi, in piena Sintesi, il capitalismo “Speculativo” autocosciente della propria illimitatezza richiede nuove chiavi di lettura [per essere efficacemente indagato e compreso], non certo racchiuse negli angusti spazi dell’economicismo o delle fuorvianti costruzioni teoriche accademiche pregresse.
Banalmente, per tale via si riesce a comprendere la ragione più profonda dell’incontrastata libertà di movimento dei capitali finanziari in uno spazio allargato, globale, nonché l’origine dell’apparente follia di una dimensione finanziaria autonomizzata ed intangibile, sottratta ad ogni efficace controllo, ad esclusivo beneficio dei grandi interessi privati espressi dalla Global class.
La visione previana dell’”evoluzione” del capitalismo dalle origini e fino ai giorni nostri – che si collega alla riscrittura della storia dell’Etica proposta da Preve – è certo il frutto dello “sguardo” dall’alto di un filosofo sociale e comunitario che non scende [né può farlo, partendo da certe altitudini, né gli si deve chiedere di farlo] nella pura contingenza del momento storico, nello specifico tecnico, nel dettaglio del “funzionamento dei Mercati” in questo presente o del “movimento dei tassi d’interesse”.
Ma tale visione ci spinge inevitabilmente ad una rapida archiviazione delle teorie liberista classica e neoliberista oggi praticate ed incensate, non soltanto perché costituiscono con tutta evidenza una legittimazione di natura ideologica di questo capitalismo, ma ancor più concretamente perché fallimentari in quello che dovrebbe rappresentare il loro ambito privilegiato d’indagine [l’ideologia di legittimazione è altra cosa …], non essendo in grado di spiegare neppure il contingente, le crisi che tutti avvertiamo e che si susseguono sempre più rapidamente, la loro vera origine, e non essendo in grado, come scontata conseguenza, di abbozzare soluzioni credibili e praticabili.
Adottando questo nuovo angolo visuale, si potrà procedere altresì ad un auspicabile ripensamento della stessa teoria storico-strutturale dei modi di produzione di Marx, necessariamente riduzionistica della complessità del reale perché basata sui ruoli sociali e non sulla persona umana in quanto tale ed escludente, di conseguenza, la complessità antropologica dell’uomo, teoria la quale costituisce uno dei maggiori capisaldi e meriti dell’opera del grande filosofo tedesco.
Intuiamo che la struttura di questo capitalismo non contiene soltanto i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive, essendo l’ideologia di legittimazione un dato strutturale imprescindibile e il grande “esperimento” di manipolazione antropologico-culturale in atto – posto in essere al fine di plasmare l’Uomo Precario, incidendo nella “carne viva” per un adattamento dell’umano ai nuovi ruoli sociali – un processo indispensabile da portare a compimento, onde garantire la stessa riproducibilità sistemica nei decenni a venire.
Ciò che è servito a spiegare il passato, a demistificare, a far comprendere il funzionamento e gli effetti sociali del capitalismo del secondo millennio, nonché i suoi fondamenti, il suo stesso basamento strutturale, così com’è può non più servire a spiegare un presente ed un futuro qualitativamente diversi da quel passato.
Credo che su alcune ipotesi teoriche qui sviluppate o riprese, come il concetto di “capitalismo speculativo” (in altri luoghi, chiamato da Costanzo Preve “capitalismo assoluto”), stadio del capitalismo che permetterebbe di capire “la ragione più profonda dell’incontrastata libertà di movimento dei capitali finanziari in uno spazio allargato, globale, nonché l’origine dell’apparente follia di una dimensione finanziaria autonomizzata ed intangibile, …”, su questi temi centrali, dicevo, occorrerà riflettere a fondo.
Io, ad esempio, non ne sono per niente convinto. Siamo sicuri che al di là delle tecnicalità nuove o dell’estensione, la finanziarizzazione attuale sia una novità? Una novità che caratterizzerebbe un “capitalismo speculativo”?
Durante la guerra dei Sette Anni e durante le guerre anglo-olandesi, i capitalisti della potenza egemone in declino di allora, le Province Unite, si ritirarono dal commercio e si dedicarono all’alta finanza. Si era giunti ad una fase di capitalismo speculativo, oppure alla fase terminale di uno specifico ciclo di accumulazione? La stessa cosa accadde con la Belle Epoque e la lunga fase di finanziarizzazione che caratterizzò in quel periodo l’accumulazione dei capitalisti inglesi. Poi ci fu la Guerra Mondiale dei Trent’Anni (1914-1945).
Ora siamo daccapo, e la terza guerra mondiale (non considero la Guerra Fredda una vera guerra mondiale, non perché sia stata fredda e non calda, ma perché aveva motivazioni differenti dalle vere guerre mondiali), la terza guerra mondiale è scoppiata l’11 settembre 2001. Ci stiamo dentro con tutte le scosse e i sussulti febbricitanti dell’ennesima finanziarizzazione che si è accompagnata alla ennesima crisi di un ciclo sistemico di accumulazione: quello egemonizzato dagli Stati Uniti dopo loro vittoria nella II Guerra Mondiale.
In altre parole, la finanziarizzazione, come la globalizzazione o mondializzazione, sono fasi ricorsive. Ovviamente ogni volta avvengono in condizioni differenti e non lasciano mai le cose come erano prima. Ma non sono sintomi di “stadi”, bensì di crisi sistemiche che finora sono state ricorrenti.
La specificità della fase odierna, se c’è, deve essere ricercata altrove, non in segnali che indicano invece che si è proprio in presenza di un remake. Ovviamente, interessante è cercare di capire se il finale cambierà.
Piero Pagliani
Risposta a Piero Pagliani.
Non si tratta puramente di “tecnicalità nuove” o di una mera estensione da intendersi in termini fisici e geografici, per quanto riguarda la finanza e il suo attuale ruolo, e non si tratta esclusivamente dell’autonomizzazione della finanza stessa, oltre ogni capacità di sopportazione delle società umane e dell’Ambiente.
Pur tuttavia, la dimensione quantitativa dei prodotti finanziari circolanti nel mondo, all’inizio della prima fase di crisi, detta “subprime”, aveva raggiunto volumi mai visti prima in tutta la storia universale, fino ad oltre dodici volte il totemico PIL mondiale.
Il dato finanziario, lo strapotere predatorio della “finanza creativa”, la moltiplicazione dei suoi strumenti, l’intangibilità del capitale finanziario e il suo “scorrimento liquido” nello spazio liscio della globalizzazione neoliberista da soli non bastano – come è ovvio – per connotare un cambio di Evo, un passaggio storico fondamentale e un altrettanto rilevante cambiamento culturale e antropologico.
Se il dato finanziario si può porre in diretta relazione con il paradigma della Creazione del Valore finanziari, azionaria e borsistica [vedi M. Friedman, Capitalismo e Libertà del 1962, nuova “bibbia” di questo capitalismo in sostituzione dell’arcinota ma ormai invecchiata Ricchezza delle Nazioni smithiana], entrano in gioco altri importanti elementi di diversa natura: legittimazione ideologica, manipolazione antropologica, nuove forme di alienazione legate al lavoro oltre a quella “classica” dell’operaio di Marx [alla flessibilizzazione del lavoro nel concreto dei rapporti di produzione e alla sua svalorizzazione sul piano culturale], un esperimento per la costruzione sociale dell’uomo precario in dimensioni mai raggiunte prima nella storia umana, una nuova struttura di classe, la crisi dello stato nazionale e delle tradizionali federazioni, pur nella veste liberaldemocratica, in termini di sovranità politica, monetaria, della stessa “sovranità alimentare”, eccetera.
La piena realizzazione dell’autofondazione humeana [David Hume] dell’economia su se stessa, che si verifica nel passaggio dal capitalismo del secondo millennio [seconda società della crescita, essendo la prima quella connotata dal mercantilismo] a quello del terzo millennio [terza società della crescita] richiede cambiamenti rilevanti in molti aspetti della vita economica e sociale, ed incide nella “carne viva” dell’essere umano in quanto tale, non soltanto nella dimensione finanziaria [e valutaria].
A tal punto, mi sento di poter parlare anche per conto di Costanzo, dopo aver discusso lungamente con lui questi temi …
Preve ed io non crediamo che si tratti di una manifestazione della “ricorsività”, di un “Tutto torna ma diverso” [tanto per scomodare chi lei sa …], o del semplice avvio di una nuova fase capitalistica [ad esempio, per riscomodare chi lei sa, un passaggio dal monocentrismo al policentrismo] ma pensiamo ad una vero e proprio cambiamento di Evo, per le novità che iriusciamo a cogliere intorno a noi, in questa realtà.
Se ammettiamo che nello stesso tempo storico possono coesistere diversi modelli di capitalismo, vi è pur sempre una loro convergenza, sia pure con velocità diverse, verso un modello più uniforme, sulla base delle linee di sviluppo comuni che interessano la formazione “globale”.
Il discorso sarebbe molto lungo, andrebbero meglio chiariti gli aspetti sopra citati, andrebbe discussa la questione – da lei sollevata – della preminenza statunitense dopo la seconda mondiale alla luce della competizione con l’ormai collassato modello collettivista sovietico [anche lui, di fatto, appartenete alla famiglia capitalistica, pur fortemente alternativo rispetto a quello americano], si potrebbe obiettare che siamo in piena quarta guerra mondiale, e molto altro ancora, ma qui non c’è lo spazio per poterlo fare.
Eppure una risposta più articolata si rende necessaria.
Per tale motivo, se avrà piacere di riceverlo le invierò in formato elettronico quello che potrà diventare un prossimo libro [si spera, data la situazione dell’editoria italiana …] con prefazione e postfazione di Costanzo [due saggi inediti] in cui si parla di Alienazioni e uomo precario, ma nel contempo si trattano diffusamente – e non potrebbe essere diversamente – le tematiche che hanno suscitato in lei forti perplessità. [“cambio di Evo”, nuovo modo di produzione sociale e Capitalismo “Speculativo”, preminenza e crucialità della finanza, eccetera.]. Se lo vorrà, potrà leggere almeno i saggi di Costanzo, che spiegano meglio e più in profondità la sua [e la mia] visione.
Saluti
Eugenio Orso
P.S.: l’espressione “capitalismo assoluto” non è di Preve, ma se non erro è di M. Badiale e M. Bontempelli, intendendo con tale espressione un’[indebita] estensione dei modelli [microeconomici] organizzativi e gestionali delle aziende all’intera società.
Credo che questo sia un punto che il collettivo di Comunismo e Comunità dovrà assolutamente discutere in modo approfondito.
Per riprendere una metafora vichiana, diciamo che la ricorsività ha un andamento a spirale. D’altra parte anche in matematica le funzioni ricorsive si applicano via via ad argomenti differenti e danno luogo a risultati differenti, benché la dinamica sia la stessa ad ogni passo. Per lo meno finché non si raggiunge un eventuale punto fisso. Cioè un valore che non viene variato con ulteriori applicazioni della funzione.
Il problema è proprio questo: il “capitalismo speculativo”, o “capitalismo assoluto” che dir si voglia, è un punto fisso?
Secondo Lenin l’imperialismo era la fase suprema del capitalismo, ovvero un punto fisso (che prendeva la forma di putrefazione dei processi di accumulazione del capitale). Marx stesso a volte sembrava orientarsi verso una concezione del “punto fisso del capitalismo”, se mi si passa l’espressione. Ad esempio era convinto che nel medio periodo il capitalismo avrebbe uniformato l’India e l’Occidente, con le classi che avrebbero sostituito le caste. Si sbagliava: non è così neppure adesso.
Almeno ogni trent’anni i comunisti sono stati convinti di essere di fronte all’agognato punto fisso (o “finale”) del capitalismo. Ad esempio perché si vedeva all’opera la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto. Poi dopo enormi cataclismi politici (guerre o anche solamente ristrutturazioni che sono anch’esse scelte politiche che trasformano i rapporti sociali e i rapporti tra capitalisti), il saggio di profitto ritornava a salire.
Anche oggi l’odierna crisi è interpretata dalla maggioranza dei marxisti come “crisi del capitalismo” tout-court dato che in qualche misura la globalizzazione neoliberista è vista come uno “stadio finale”.
In realtà, il capitalismo ha sempre alternato momenti policentrici a momenti monocentrici (per dirla con la terminologia di La Grassa) e momenti di espansione materiale con momenti di espansione finanziaria, che culminano proprio nelle fasi di passaggio dal monocentrismo al policentrismo, che per l’appunto sono fasi di crisi sistemica e quindi a carattere mondiale.
Nessuno di questi cicli ha mai lasciato il mondo come lo aveva trovato. Tutto è stato trasformato. Ci sono stati cambiamenti così profondi da poterli sicuramente classificare come “antropologici”; basti pensare ai parsimoniosi Americani timorati di Dio in poco tempo trasformati scientemente in sfrenati consumisti dopo la crisi del ’29. E poi ci sono state le conquiste capitalistiche di nuovi spazi fisici e di nuove regioni della natura, basti pensare alle biotecnologie. E a questo proposito riconosco che seppure la dinamica non sia nuova, è pur vero che ci sono delle soglie di conquista in qualche modo “assolute”, come i principi della vita (mi convince meno il discorso ecologista in senso stretto).
Sono d’accordo quindi che la ricorsività possa spingere verso il sorpasso di tali soglie assolute, o che a noi, qui e adesso, appaiono assolute (però non penso che la precarietà sia la forma “assoluta” assunta dalla forza-lavoro in un capitalismo speculativo; in Cina si sta andando al contrario verso una maggiore stabilizzazione e maggiori garanzie per il lavoro, e lì c’è la più grande concentrazione operaia di tutti i tempi).
Ad ogni modo il punto non è questo, dove in una certa misura ci si può trovare d’accordo. Il punto è che al di là dei loro effetti di cambiamento (diversi però nelle varie parti del mondo), al di là della radicalità di questi cambiamenti e al di là di soglie assolute più o meno raggiunte, la globalizzazione neoliberista e la finanziarizzazione, sono state e sono terreni imposti dagli Stati Uniti per gestire la crisi del loro ciclo sistemico di accumulazione, ovvero del ciclo di accumulazione mondiale egemonizzato e coordinato da loro (fase monocentrica nella terminologia di La Grassa), iniziato con la vittoria nella II Guerra Mondiale ed entrato in crisi nell’agosto del 1971 (dichiarazione dell’inconvertibilità del dollaro in oro).
In secondo luogo non credo che si stia andando verso un’uniformità capitalistica. Lo sviluppo è ineguale sia tra stati-nazione sia all’interno stesso degli stati-nazione (giustamente per quanto riguarda l’India, Arundhati Roy parla di “autocolonizzazione” e di “autocannibalismo”; all’incirca ciò che era successo in Italia dopo l’unità, ma in “dimensioni asiatiche”, come avrebbe certamente detto Marx).
Ed è così per forza, perché il capitalismo si basa su una stratificazione gerarchica di differenziali di sviluppo (usualmente nota come “disuguaglianza reale”).
Inoltre lo sviluppo capitalistico in Paesi come la Cina non ha le stesse caratteristiche che ha avuto il nostro in Occidente, tanto che Giovanni Arrighi lo denota addirittura col termine di “capitalismo smithiano” contrapposto a “capitalismo marxiano” (cfr. “Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2008).
Ma in definitiva, il mio richiamo è finalizzato ad evitare che le teste politicamente progettanti degli Stati Uniti in primo luogo e poi degli altri contendenti siano nascoste dietro un capitalismo dai tratti “assoluti” e “uniformi” che in quanto tale rischia di essere acefalo e frutto di una dinamica interna tanto ineluttabile quanto anonima.
E’ solo un inizio di discussione. Il grosso dovrà essere fatto.
Un cordiale saluto.
Piero Pagliani
Per Piero Pagliani
Cercherò di essere breve.
Anzitutto, Costanzo la saluta caramente e la ringrazia per il suo interessamento e per le sue note di critica.
E’ certamente positiva l’idea di aprire un dibattito su questi temi, e il dibattito può rivelarsi utile per riuscire ad aprire qualche nuovo “spiraglio teorico”.
Partendo dalla fine del suo ultimo commento, “le teste progettanti” degli Stati Uniti potrebbero essere viste all’interno di una nuova struttura di classe che si sta delineando, e precisamente ai Vertici della Classe Globale, che si è “mangiata” la vecchia Borghesia. Adottando questo punto di vista – la profonda trasformazione ancora in atto della strutturazione sociale – è forse possibile riuscire a cogliere importanti aspetti che caratterizzano questo capitalismo.
E’ ovvio che il concetto di Capitalismo “Speculativo” non ha un [secondo] fine “deresponsabilizzante” delle nuove élite, né per tale via si intende legittimare un certo impero planetario e senza centro che ben conosciamo, o forme simili [e immaginarie] di dominio …
Il discorso della ricorsività, nonché i riferimenti al pensiero di Giovanni Arrighi non confliggono necessariamente con la visione Previana. Credo che alla base di tutto ci sia un fraintendimento, perché la ricorsività può andar bene per spiegare il passato che abbiamo alle spalle, riconoscendo, nel contempo, che Costanzo si è mosso ad un altro “livello”, quando ha parlato di Capitalismo Astratto, Dialettico e Speculativo. Ma quanto precede lo potrà meglio spiegare Costanzo Preve, nei suoi interventi futuri, chiarendo che non il suo discorso non ha niente a che vedere con la riproposizione in altra forma, per altra via, di fasi o stadi “supremi” del capitalismo, in un’ottica leninista e marxista otto/ novecentesca.
Vorrei far notare che se la globalizzazione neoliberista e la finanziarizzazione nascono da un’imposizione [anglo-]americana – e ciò è indubbiamente accaduto in seguito alla vittoria di quel modello di capitalismo sul collettivismo sovietico, ed in subordine, sui modelli europei occidentali – in seguito alla crisi è possibile che le cose cambino, e che in futuro il principale “alfiere” della globalizzazione diventi la Cina, con il passaggio dal “mercatismo occidentale” al “mercatismo orientale”, e l’inizio di una seconda globalizzazione. La Cina, in tale, possibile prospettiva futura e pur nel persistere di differenze e peculiarità, “introietterà” elementi pregressi del modello liberista anglo-americano di capitalismo? Mi sembra che qualcosa si possa già vedere oggi, ad esempio con la progressiva privatizzazione delle banche e, d’altra parte, teniamo conto la Cina del paradigma della “economia socialista di mercato” ha già “introiettato” qualche caratteristica, nei due decenni precedenti, del capitalismo neoliberista ultimo. Non solo, ma le figure dei nuovi miliardari cinesi [nati comunque di recente, sotto l’ombrello di quel potere che insiste ancora nel definirsi comunista], presentano caratteristiche per certi versi simili a quelle dei loro omologhi occidentali [ancora oggi più numerosi e ricchi] e ne hanno assimilato “i difetti”.
Il monstre [o dragone economico] cinese postmaoista/ “mercatista orientale” è stato suscitato e “legittimato” a livello internazionale proprio dalla globalizzazione neoliberista –con la quale sembra vivere in simbiosi [come con gli USA, del resto], alla quale deve le sue fortune – e il suo rapido sviluppo, in origine, ha mostrato qualche significativa similitudine con la prima industrializzazione inglese, sulla quale, per ora, non posso dilungarmi.
Da tempo sto seguendo l’elaborazione teorica di Costanzo Preve (al quale ricambio il saluto), che è una ventata d’aria pura in un panorama caratterizzato dalla melassa di pseudo-teorie marxisteggianti che quando non tirano in ballo banalmente il “tradimento” sostanzialmente si riducono a raffinate costruzioni sintattiche che poco o nulla hanno a che vedere con la realtà ma sono di fatto un’estremizzazione intellettuale del pensiero dominante (una sorta di Diamat post-moderno).
E’ da tempo altresì che cerco di inserire il pensiero di Preve in altre analisi serie, come quelle di Arrighi tanto per fare un nome (ma considero serio anche La Grassa, nonostante non ne condivida diverse conclusioni).
Devo allora dire che il pensiero di Preve lo vedo situato sul bordo, per usare una metafora topologica: non è né dentro né fuori.
Può darsi che sia così perché usa principalmente categorie di tipo filosofico. E anche se la filosofia dovrebbe ad un certo punto fare “scopa” con altre interpretazioni più “materiali”, come l’economia e la politica, non siamo, o non lo sono io, soggettivamente in grado di mettere a posto tutte le tessere di questo complesso puzzle.
Ma in realtà credo che questa carenza soggettiva sia indice di una carenza ben più importante: i tempi non sono ancora maturi. Quante volte ci ha pensato la dinamica storica a chiarire, a far da filtro, da grande crivello di Eratostene?
Al di là di questo e in attesa che i tempi maturino (con o senza il nostro contributo) dobbiamo continuare l’elaborazione e la discussione teorica.
Si badi bene, “teorica” in una particolare accezione, perché qui la teoria si ribalta subito sulla presa di posizione politica.
Io ad esempio ritengo che la maggior parte dei meccanismi della globalizzazione e della finanziarizzazione che si è conclamata a partire con Clinton, sono stati messi a punto alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Il collasso dell’Unione Sovietica permise di imporli su un pianeta non più diviso tra “mondo libero” e “mondo comunista” (cosa che sembrerebbe positiva per gli USA ma che potrebbe anche rivelarsi essere un boomerang).
Quegli strumenti seguivano una logica specifica imposta da una particolare eredità storica e da una dinamica che anche nei piccoli particolari conferma, a mio modo di vedere, la diagnosi di Giovanni Arrighi che il 15 agosto del 1971 fu la spia dell’apertura della crisi sistemica del ciclo di accumulazione egemonizzato dagli Stati Uniti. Crisi che approfondendosi costrinse gli USA ad ampliare a dismisura quelle politiche pian piano messe a punto e imposte nel contesto di allora negli anni immediatamente precedenti il 1971.
Se quindi in futuro ci sarà una “mondializzazione cinese”, sarà un’altra cosa rispetto a quella attuale, perché nascerà da altre premesse.
La globalizzazione neoliberista non è un modello, è un’arma. E nemmeno il modello di un’arma, ma un’arma specifica che può essere usata solo in determinate circostanze storiche, tra l’altro non di sviluppo bensì di crisi.
Se un giorno la Cina, o la Russia o i due Paesi in condominio (improbabile), alleati con India e/o Brasile, dovessero egemonizzare un nuovo ciclo di accumulazione mondiale, non si tratterebbe di ciò che stiamo vedendo adesso, né economicamente né politicamente/militarmente.
Un semplice motivo tra altri: la globalizzazione e finanziarizzazione neoliberista è stata imposta dagli USA perché erano diventati il Paese col più grande deficit interno e il maggior debitore del mondo. E’ ovvio che la Cina che è il Paese dove attualmente si concentrano tutti i mezzi di pagamento mondiali non avrebbe nessun motivo per imitare questo “modello”. E questo vuol dir molto nelle scelte politico-militari ed economiche di quel Paese.
Termino qui augurandomi che il nostro dibattito stimoli la riflessioni di tutti gli aderenti al laboratorio e di chi lo segue.
Piero Pagliani