Riforme istituzionali: nuovi passi verso l’erosione della sovranità popolare e della rappresentanza

mag 13th, 2010 | Di | Categoria: Politica interna

di Lorenzo Dorato

parlamentoA seguito delle elezioni regionali del 28-29 marzo il dibattito politico, al netto delle vicende giudiziarie e degli scandali di turno, si è fortemente concentrato sulla questione delle cosiddette riforme istituzionali, oltreché sul pericolosissimo progetto di federalismo fiscale (cui si dedicherà un approfondimento a parte).

Le forze politiche hanno manifestato una contrapposizione, del tutto formale, sulle priorità riformistiche del momento, con le opposizioni che invocavano la maggiore urgenze delle riforme a carattere sociale (i cui contenuti non vengono però mai esplicitati) accusando la maggioranza di badare alle sole esigenze del premier e alle pressioni della Lega nord. Al di là dello scontro sulla tempistica, le maggiori forze politiche, Pdl, Pd, Lega Nord, Italia dei valori e Udc condividono un progetto di sconvolgimento istituzionale da tempo meditato e in agenda.

Si tratta della triade: presidenzialismo o semi-presidenzialismo – riduzione del numero dei parlamentari –  aumento del numero di unità elettorali (circoscrizioni o insiemi di collegi), laddove non sia possibile l’applicazione sic et simpliciter del sistema maggioritario.

Il primo provvedimento vorrebbe fare dell’Italia un paese a democrazia rappresentativa di tipo presidenziale (tipo Stati Uniti) o semi-presidenziale (sul modello francese). In entrambi i casi, nel primo in modo lampante (non a caso si tratta del progetto sostenuto apertamente dai radicali e da Emma Bonino) si mira ad erodere il potere del parlamento ridistribuendolo ad un presidente della Repubblica direttamente eletto dal popolo. Un’unica persona, naturalmente facente parte di un partito forte (Pd o Pdl) gestirebbe buona parte del potere politico contribuendo ad erodere ulteriormente la rappresentanza proporzionale delle istanze espresse dagli elettori. Quando infatti la competizione prevede che il primo classificato vince e accede al potere istituzionale le preferenze espresse per gli altri candidati perdono ogni effetto. Potenziare il ruolo del presidente della repubblica eletto direttamente dal popolo, in tempi di dominio del pensiero unico con massiccio assenso passivo dell’opinione pubblica, significa aumentare lo sbilanciamento del potere (già evidente) verso le forze politiche di maggior peso . Interessante notare come le riforme antiproporzionalistiche in tutte le loro vesti e forme, si moltiplicano proprio nelle fasi storiche in cui il sistema di potere dominante ha consolidato un dominio ideologico inequivocabile sugli elettori, anche se non totale. Proprio la non completezza di tale dominio invita i rappresentati politici della gestione capitalistica a varare tutte le riforme finalizzate ad annullare per il presente e soprattutto per il futuro qualsiasi velleità di azione di minoranze non allineate. Le remore del partito democratico all’applicazione del presidenzialismo sono esclusivamente relative alla presenza di Berlusconi sulla scena politica e al rischio che tale personaggio troppo eccentrico e attento ai propri interessi, e dunque in potenziale contrapposizione con altri interessi oligarchici costituiti, possa accentrare eccessive quote di potere nelle sue mani. Malgrado questo ostacolo contingente, già ampi settori del PD vedono con favore la riforma istituzionale presidenzialistica proprio in quanto favorente il meccanismo di messa all’angolo di ogni pensiero politico alternativo alla forma oligarchica di cui tale partito è massimo esponente e rappresentante. La stessa Idv manifesta esplicitamente la contrarietà alla riforma nelle circostanze attuali solo per la presenza di Berlusconi.

Il provvedimento finalizzato alla riduzione del numero dei parlamentari è ben più subdolo degli intenti presidenzialisti. Mascherato da una presunta lotta contro gli sprechi, la burocratizzazione e le inefficienze (consueto cavallo di battaglia delle riforme neo-liberali e-o antidemocratiche), il vero intento della riduzione del numero di parlamentari è ancora una volta l’esclusione dal parlamento delle forze politiche più piccoli, al fine di giungere a quel definitivo bipartitismo tanto agognato dalle classi dominanti per imporre i propri progetti egemonici dietro la parvenza di una democrazia dell’alternanza sul modello anglosassone (si noti che tale modello è al momento in fase di rigetto e discussione proprio nella sua patria, il Regno Unito, grazie al successo elettorale del partito liberale ed alla sua incredibile sottorappresentazione. La riduzione dei parlamentari penalizza fortemente i partiti più piccoli proprio in un sistema elettorale psuedo-proporzionale corretto con una suddivisione in numerose e piccole circoscrizioni. Attualmente le circoscrizioni elettorali su cui si computa la ripartizione dei seggi sono ventisei, ma da più parti si parla della necessità di un aumento del numero di unità elettorali (insieme di collegi o circoscrizioni più piccole) per il conteggio dei voti e la loro trasformazione in seggi. Più unità elettorali significa meno seggi da assegnare a ciascuna unità, dunque un progressivo avvicinamento alla logica maggioritaria pura (per cui è previsto un solo seggio per ogni unità elettorale). Se i parlamentari vengono ridotti  e contemporaneamente le unità territoriali vengono aumentate di numero, il risultato è che ciascuna unità territoriale potrà eleggere un più esiguo numero di candidati (magari anche solo due) e tantissimi voti espressi dagli elettori non riceveranno, pertanto, alcuna rappresentanza parlamentare. La mossa liberal-populistica della riduzione dei parlamentari per supposti scopi di riduzione dei costi della politica è quindi un ipocrita tentativo di accelerare il bipartitismo in maniera subdola. Anche perché se proprio si ritiene eccessivo il costo dovuto agli stipendi dei parlamentari (problema comunque del tutto secondario) si potrebbe con eguale efficacia ridurre del 50% lo stipendio di ciascuno. Ma di questo si parla decisamente meno.

Si può concludere dicendo che l’urgenza delle riforme istituzionali considerate fondamentali per la governabilità del paese è una copertura ideologica per nascondere l’unico vero fine perseguito dalle forze politiche sotto ricatto delle oligarchie capitalistiche: il definitivo livellamento della rappresentanza, mai del tutto conseguito in Italia, e l’approdo ad un partito unico ultra-capitalistico formalmente diviso in due partiti che si distinguono nella forma e nell’estetica.

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