Alcune critiche costruttive al documento “Proposta di discussione per la formazione di un nuovo soggetto politico”

dic 6th, 2010 | Di | Categoria: Dibattito Politico

di Piero Pagliani

Il seguente commento fa riferimento al documento reperibile alla pagina http://www.megachipdue.info/tematiche/beni-comuni/5151-uniti-e-diversi-per-la-formazione-di-un-nuovo-soggetto-politico-che-governi-la-transizione.html preparato in vista della prima Assemblea Nazionale del movimento politico “Uniti e Diversi”, che si terrà a Bologna il prossimo 18 dicembre.

1) “La fase storica che si è aperta con la rivoluzione industriale …”

E’ un punto paradigmatico del ragionamento svolto nel documento e quindi mi ci soffermo un po’.

Questa fase viene descritta come un portato tecnologico-scientifico (la rivoluzione industriale). In realtà a sua volta la rivoluzione industriale è il portato di un rapporto sociale, che si chiama “capitalismo”. Rapporto sociale da non confondersi col riduttivo “conflitto capitale/lavoro”, ma da identificare con la reificazione dei rapporti sociali, la loro mercificazione, la loro cosalizzazione; perché qui sta il punto: l’industrialismo è un mezzo di questa reificazione che è implicata dai processi di valorizzazione del capitale, e a sua volta è una spinta all’approfondimento e al dilagare della reificazione a causa degli enormi investimenti che esso richiede.

Insisto su “reificazione” perché l’attacco agli equilibri ecologici, dalla stratosfera ai principi primi della vita, è indissolubilmente legato alla mercificazione dell’esistente. E insisto a mettere l’accento sui “rapporti sociali” non perché l’abbia detto Marx, ma perché se non si ha chiara la natura dello scontro non riusciremo a venire a capo di nulla, mentre potremmo invece benissimo essere strumentalizzati malgrado tutta la nostra buona volontà e la nostra alterità.

E nemmeno faccio riferimento al rapporto sociale capitalistico perché io pensi a chissà quali rivoluzioni proletarie. Se ci sarà una rivoluzione nei prossimi decenni, se sarà comunista o altro ancora, io non lo so e non mi lancio in profezie (e comunque dovrei prima definire il termine “comunista”).

Mi pongo invece un problema di resistenza qui e ora, e di governo della transizione che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti ma che credo nessuno qui e ora possa dire dove stia puntando.

E io per ora so soltanto che di fronte a noi si ergono forze che hanno un’unica finalità, ovvero l’accumulazione monetaria senza fine e senza un fine (ovvero senza una finalità sociale e quindi nemmeno la preservazione dell’ecosfera); so che questo processo di accumulazione ha come condizione ed esito un’accumulazione senza fine di potere, come giustamente osservava Hannah Arendt, e so che su questo potere si fonda, in ultima istanza, la possibilità di riprodurre il rapporto sociale che permette proprio quell’accumulazione senza fine e che fa di un non-fine l’unico fine. E questo l’aveva capito magistralmente Marx.

Non ci sono dunque la Natura da una parte e gli Uomini dall’altra. C’è la Natura e ci sono i rapporti sociali tra gli Uomini, che fanno sì che la sfera naturale sia uno spazio sociale, lo si voglia o no.

Senza questo rapporto sociale e senza questo potere a suo sostegno non ci sarebbe mai stata la rivoluzione industriale.

E’ un dato di fatto storico che fu l’approvvigionamento di risorse finanziarie permesso da una parte dal commercio triangolare atlantico basato sulla tratta degli schiavi e dall’altra dalla conquista dell’India a partire dal ricchissimo Bengala (la sola vittoria della città di Plassey fruttò agli Inglesi 2.750.000 Sterline del 1757, ovviamente come “riparazioni” per le spese sostenute dalla loro rapina coloniale: il “fardello dell’uomo bianco”), fu questa poco edificante tenaglia ciò che permise agli Inglesi di fare due cose:

a) estinguere i loro debiti con i finanzieri olandesi,

b) investire in quelle invenzioni come il filatoio meccanico e il filatoio ad intermittenza, che altrimenti sarebbero rimaste lì inerti; con tutta la storia industriale che ne è seguita.

2. Il punto a) ci porta ad una seconda importantissima questione.

Fasi di espansione materiale e fasi di espansione finanziaria si sono sempre succedute e in generale le fasi di espansione finanziaria avvengono quando l’espansione materiale entra in crisi. Queste crisi nascono, per farla molto breve, per una sovraccumulazione di capitali: i capitali accumulati non possono essere più reinvestiti nelle attività che li hanno prodotti fino a quel momento, perché il rendimento decrescente di tali investimenti è tale da andare sotto la soglia che i capitalisti ritengono di “svalorizzazione” dei loro capitali. Essendo il loro unico fine la valorizzazione, è una cosa che essi devono evitare assolutamente. Da qui la ricerca di occasioni di profitto in giro per il mondo.

Queste crisi nascono a causa di una crescente competizione tra imprese che finora (ripeto: finora) si è tramutata sempre in competizione tra Stati, dando luogo a lunghissime fasi di guerre mondiali. Le ultime: le guerre Anglo-Olandesi dal 1652 al 1674 e la guerra tra Stati Uniti-Gran Bretagna e Germania tra il 1914 e il 1945.

Ora stiamo assistendo all’apertura di una fase conclamata di guerre valutarie e commerciali, sancite dall’esaurimento del sistema mondiale nato a Bretton Woods nel 1944, esaurimento che ha tra i suoi sintomi evidenti il recente fatto – bellamente ignorato dal nostro teatrino della politica – che ora Cina e India insieme hanno la maggioranza dei pacchetti di voti del Fondo Monetario Internazionale (i pacchetti di voti sono in relazione ai depositi) e, soprattutto, la perdita da parte degli USA del diritto di veto.

Ciò vuol dire che sono cambiati drasticamente i rapporti di forza geopolitici usciti dalla II Guerra Mondiale.

Siamo nel bel mezzo di un terremoto planetario. E la finanziarizzazione dell’economia si è sempre accompagnata a questi terremoti; da questo punto di vista essa non è per nulla una novità: ci fu al momento delle guerre Anglo-Olandesi (dove i finanzieri olandesi prestavano soldi ai capitalisti inglesi che sarebbero loro subentrati nella leadership mondiale) e ci fu al momento dello scoppio della Grande Guerra. I nostri padri l’avevano addirittura battezzata “Belle époque”, perché la finanziarizzazione porta a momenti di grande euforia.

Noi abbiamo avuto la Belle époque reaganiana-clintoniana che è finita ufficialmente l’11/9 e della quale la cosiddetta “bolla Internet” (o delle “dot-com”) e la successiva bolla finanziaria che si è cercato di sgonfiare poco a poco senza costrutto (il famoso “atterraggio morbido” di Greenspan) sono stati due episodi.

3. Ciò porta ad alcune considerazioni di interpretazione politica del presente.

Innanzitutto la cosiddetta “globalizzazione” era, almeno nelle intenzioni, una strategia di gestione della crisi sistemica degli Stati Uniti, cioè della loro crescente difficoltà a fare sistema-mondo; o, ancora in altri termini, ad egemonizzare e coordinare il ciclo mondiale di accumulazione.

Ovviamente, come osservava Gramsci, l’egemonia nel capitalismo è sempre accompagnata dalla forza (“egemonia corazzata di coercizione”). E infatti questa era l’ammissione esplicita di Kissinger: “Globalizzazione è solo un altro termine per dominio degli Stati Uniti”.

Strumento paradigmatico della globalizzazione corazzata di coercizione, come possiamo chiamarla (altro che “neo-liberismo” e altre interpretazioni economicistiche: il libero mercato dall’inizio del Novecento ad oggi non c’è mai stato), era il Washington Consensus, col quale si sono depredati – facendo leva sul Fondo Monetario Internazionale all’epoca ancora strettamente controllato dagli USA – la Russia del cleptocrate Boris Eltsin, i paesi dell’Est Europa e soprattutto i Paesi in via di sviluppo (bisogna però fare un discorso differente per la Cina e in parte per l’India e il Brasile – e si vedono i risultati, perché lì la strategia USA ha fatto cilecca oltre ad essere stata in seguito rifiutata drammaticamente dai Paesi dell’America Bolivariana). Ma non ne sono stati esenti gli stessi alleati occidentali: vedi le privatizzazioni imposte per il tramite dell’Unione Europea e da noi recepite con diligenza bovina specie dal centrosinistra (provate invece a toccare per esempio il settore energia e il settore trasporti alla Francia, anche adesso che c’è al governo il rinnegato gaullista Sarkozy). E vedi la dismissione dello stato sociale. Le stesse politiche che in modo più feroce sono state imposte ai Paesi più deboli.

Ora, proprio grazie ai due stati-continente India e Cina appoggiati in un gioco delle parti da altri due stati-continente, il Brasile di Lula e la rediviva Russia di Putin, e – lo si voglia o no – grazie alla resistenza dei talebani in Afghanistan, a quella dei baathisti in Iraq e all’indipendenza dai blocchi di Ahmadinejad in Iran (non è detto che ci debbano per forza piacere, come a Lenin socialmente non piaceva di certo l’Emiro dell’Afghanistan – infatti lo chiamava “reazionario” – e nondimeno diceva che aveva un chiaro ruolo antimperialistico), e anche grazie al fatto che, come affermava Marx, in generale il capitalismo supera le sue contraddizioni solo per ritrovarsele davanti in forma ancora più grande, la strategia USA è alle corde. Per ora: in una situazione così confusa e dinamica non riesco certo a prevedere cosa succederà tra cinque anni. D’altra parte nel 1938 gli USA si stavano ancora leccando le ferite del ’29. Sette anni più tardi erano i padroni assoluti del mondo capitalistico.

Tutto cambia. Ci troviamo di fronte ad assi geopolitici impensabili fino a pochissimi anni fa, ad esempio la liaison tra Turchia-Azerbaijan e Armenia (erano come cani e gatti e si facevano la guerra nel Nagorno-Karabakh), assieme a Siria, Brasile e Iran.

4. Di fronte a questi scenari frantumati ed estremamente variabili non è possibile parlare di “attuale architettura finanziaria internazionale”. Per il semplice fatto che non esiste nessuna architettura.

La Haute Finance avrà pure delle tendenze internazionaliste, ma finora è sempre stata “ricondotta alla ragione” dai rispettivi governi territoriali. In tempi recenti lo fece Reagan con la sua reaganomics che riuscì a far ritornare a pochi passi da Washington – cioè a pochi passi dalla sede del potere territoriale statunitense – tutta la massa dei capitali che se l’erano data a gambe ai tempi della disfatta del Vietnam (chissà perché oggi Soros e compagni si dedicano ad assalire la Grecia e non gli USA e a minacciare l’euro e non il dollaro; già, chissà perché).

Non solo, come fece notare Karl Polanyi finora la Haute Finance non ha mai impedito un conflitto che sia stato uno, nonostante il suo internazionalismo.

Da quanto detto sopra segue che sostenere che la “finanza mondiale è la forma monetaria della contraddizione insanabile, e ormai esplosiva, tra sviluppo e natura” implica due cose: o si dimostra che era così anche all’epoca delle guerre Anglo-Olandesi e all’epoca della Belle époque e in tutte le altre ricorrenti fasi di finanziarizzazione dell’economia mondiale, oppure bisogna dimostrare rigorosamente dove sta la differenza.

Altrimenti quella frase dice en écologiste, quel che Toni Negri dice en marxiste: la finanziarizzazione è il modo di riprodurre il comando del capitale nell’epoca della biopolitica, ovvero nell’epoca in cui la legge del valore non è più vigente.

Proviamo a vedere se non è più vigente in Cina, in India, in Brasile, in Turchia, in Russia. Proviamo a vedere se non è più vigente in quella parte del globo dove c’è la più grande concentrazione operaia di tutti i tempi, altro che rivoluzione industriale!

Proviamo a vedere qual’è il tasso di finanziarizzazione dell’economia in quei Paesi con incremento del PIL a due cifre e che rappresentano più della metà della popolazione mondiale!

E per “legge del valore” intendo la sostanza qualitativa del rapporto sociale capitalistico (scusate ma non mi interessa la questione quantitativa della trasformazione dei valori in prezzi di produzione – che Marx sapeva benissimo non coincidere). E qui mi ricongiungo al discorso iniziale.

Pensare – faccio un esempio per tutti – che la prospettiva di andare arrosto a causa del riscaldamento globale (ammesso che ci sia – se del caso non c’è alcun dubbio che esso sia dovuto alla continua necessità di produrre e di vendere), pensare che questa prospettiva possa far nascere la coscienza di un cambiamento radicale in “enormi masse popolari” è il duale verso il basso dell’implorazione verso l’alto al principe di non sprecar risorse o di avere una finanza o un approccio negli affari più “morale”.

5. L’etica c’è quando i processi di accumulazione senza (un) fine lo permettono. La coscienza radicale potrebbe essere uccisa in fasce dalla chiamata a serrare le fila per andare alla conquista delle ultime gocce di petrolio e delle ultime gocce d’acqua (ammesso che il petrolio stia finendo: se non mi sbaglio secondo le vecchie previsioni del Club di Roma avranno dovuto da tempo essere quasi a secco; e ammesso che eventi cosmici non ricreino i ghiacciai, come avvenne dal 1300 alla metà dell’Ottocento – dove adesso si fa sci lo estivo sotto il Cervino una volta si faceva la transumanza, e non si sta parlando di passate epoche geologiche ma di epoche storiche – credo che sia doveroso porsi in modo critico di fronte al mainstream ecologista; ciò nonostante io sono convintissimo che l’accumulazione senza (un) fine sia in contrasto tendenziale con la sfera ecologica, che è finita: basta un elementare ragionamento logico).

Come si farebbe a convincere chi consuma poco a consumare ancora di meno e chi consuma molto che non può più consumare come prima? Gli Stati Uniti sono disposti a fare guerre nucleari pur di non doversi trovare di fronte a questa prospettiva, a questo cataclisma sociale. E’ tutto qui il succo della difesa dello “stile di vita” americano, l’American way of life. I piani di una possibile austerity (vuoi dettati dalla crisi in corso, vuoi dettati da una crisi ecologica in questo o quel settore) vanno di pari passo con quelli per la repressione di possibili grandi agitazioni popolari. Agitazioni per poter consumare ancora, non per cambiare “modello di sviluppo”.

Perché il capitalismo, ripeto, non è un modello di sviluppo sbagliato. Non è uno stile di vita sbagliato. E’ un rapporto sociale sbagliato. Sbagliato e capace di trascinare nel baratro mezza umanità o – oggi lo può – tutta l’umanità.

L’umanità ha convissuto per cinquant’anni con l’incubo dell’olocausto nucleare che, penso concorderete, non è certo un’ipotesi migliore del riscaldamento globale et similia. Adesso fa solo finta che quell’incubo sia finito. Forse che una volta gli uomini e le donne non si preoccupavano per l’avvenire dei loro figli? Lo facevano e infatti avevano paura. Ma non hanno cambiato una virgola del “modello di sviluppo”. Anzi hanno accettato ogni suo possibile peggioramento.

Guardate che schifo di mondo stiamo lasciando noi stessi ai nostri figli.

6. Detto ciò non ho nessuna voglia di dilettarmi a sognare rivoluzioni proletarie. Ma nemmeno mi voglio illudere con le “moltitudini desideranti” teorizzate da Toni Negri, che a mio modo di vedere fanno il paio con le “immense masse popolari” dotate di radicale coscienza ecologista.

Vorrei che il discorso ecologico fosse coniugato con quello sociale per evitare contraddizioni. Piena occupazione e ridistribuzione equilibrata delle risorse. Benissimo, ma piena occupazione e risorse per far cosa? e quali risorse e quale occupazione?

Mi stanno bene discorsi concreti sulla democratizzazione politica e sulla democrazia dell’informazione (quella vera, quella dell’accesso ai mezzi d’informazione, perché solo qualche incompetente reazionario mette veramente in causa la “libertà d’informazione” e la “libertà di pensiero” – al di là delle schermaglie da teatrino politico; nessuno mette in causa per ora la mia libertà di dire quel che penso: lo posso fare senza problemi, tanto chi possiede l’accesso ai veri mass-media sa che “Il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno”, come dice il grande Altan; quindi lo posso anche svelare, che non succede nulla).

Vorrei inserire questo discorso in un quadro scientifico ampio (ad esempio tutto il discorso sulla “riconversione ecologista” della produzione deve fare i conti col throughput ecologico complessivo: se – butto lì – per costruire e far muovere un’auto ecologica sciupo il triplo delle risorse per costruire e far muovere un’auto normale, sono daccapo a quindici, anzi peggio). Ma più che altro – e la perplessità precedente è connessa a ciò – vorrei che questo discorso fosse scrutinato non solo dal punto di vista delle scienze naturali, ma anche dal punto di vista delle scienze sociali, per capire la complessità del quadro politico, economico e sociale, e anche antropologico, mondiale e locale in cui si innesta. E in questo quadro inserire le nostre strategie e le nostre iniziative, in modo molto laico, senza cedere a millenarismi, capendo cosa c’è di nuovo e cosa c’è di vecchio in quel che sta accadendo; cosa è prevedibile con sufficiente precisione e cosa no; cosa si può fare, cosa si deve fare e cosa si deve evitare di fare.

Tutto cambia e il ciel s’abbuia. Dobbiamo allora stare molto attenti alle nostre mosse e agli obiettivi che pensiamo di indicare, per non danneggiare la gente scagliandola contro mulini a vento che stanno dalla parte opposta alla direzione da cui proviene l’attacco reale; per essere affidabili, credibili e poter infine invertire il senso del cambiamento e cantare come nel grandioso finale del “Guglielmo Tell” di Rossini:

“Tutto cambia, il ciel s’abbella

l’aria è pura, il dì raggiante

la natura è lieta anch’ella

e allo sguardo incerto, errante

tutto dolce e nuovo appar.

Quel contento che in me sento

non può l’animo spiegar.

Libertà!Libertà!”

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un commento
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  1. Una critica al livello del suo autore, un livello molto alto. La logica dell’intervento è spietata, lo stimolo fortissimo. Complimenti a Piero Pagliani.
    Vorrei solo chiarire un punto: il nuovo soggetto politico sarà il frutto dell’incontro tra istanze e sensibilità molto distinte, un vero e proprio crogiuolo; non è casuale la scelta, come parola d’ordine, di “uniti e diversi”. Uniti per cosa? Per piantare i semi dell’opposizione organizzata. Nulla, oltre a questo intento, è ancora deciso.
    Chissà se l’autore dell’ articolo deciderà di confluire nel crogiuolo. Per quel che vale, mi troverebbe al suo fianco.

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